Ricordi e testimonianze

Il dolore del Papa: «Guida e maestro sapiente»
Reverendissimo mons. Giuseppe Torti,
vicario generale della Diocesi di Lugano

Ciao e grazie, Vescovo Eugenio
di Filippo Lombardi

Quel giovane prete che non parlava come un prete
di Michele Fazioli
responsabile del Dipartimento informazione della TSI

Ci ha dato l’esempio nell’ora della prova
di mons. Pierre Mamie
Vescovo di Losanna, Ginevra e Friborgo

«Eugenio sei con noi» soprattutto adesso
di mons. Christoph Schönborn
Vescovo ausiliare di Vienna

Ci lascia in dono l’unità
di Moreno Bernasconi

Le ali alla speranza davanti alla sera
di Giuseppe Zois

Il suo ruolo di «maestro» interpretato con rispetto
di Dalmazio Ambrosioni

Lo sforzo per un cristianesimo non da subire, ma da vivere
di don Sandro Vitalini

Una vocazione vissuta con piena consapevolezza
di don Mino Grampa

Come nel Vangelo con il «giovane ricco»
di don Italo Molinaro

Azione Cattolica e l’energia per risalire gli itinerari
di Franco Ponzoni
Presidente dell’Azione Cattolica diocesana

La misura della forza che viene dalla fede
di Giorgio Zappa
Presidente Commissione diocesana mass-media

Il desiderio di infinito come nuovo modo di vivere
di Claudio Mésoniat

Il solco tracciato alla pastorale della carità
DI ROBY NORIS
Direttore di Caritas Ticino

Le raccomandazioni d’equità al Tribunale della Diocesi
di Carlo Luigi Caimi
Avvocato, giudice al Tribunale diocesano

Un solo indirizzo, sempre: la linea dell’Orizzonte più alto
di Robi Ronza

«Focolari, senso dell’unità nocciolo del vostro carisma»
di Clara Squarzon
Movimento dei Focolari

L’attaccamento ad Airolo il paese delle radici
di Mauro Chinotti
Sindaco di Airolo

Il primo incontro col Vescovo a Friborgo
di Fiorenzo Dell’Era

Nel mondo del lavoro a fianco degli ultimi
di Camillo Jelmini
Presidente dell’OCST

Dalla Cattedrale di Evry alla chiesetta di Mogno
di Mario Botta
Architetto

Una ventata di speranza fra i tavoli dell’ospedale
di Angelo Frigerio

E nell’alluvione, Locarno scoprì di non essere più isolata
di don Ernesto Storelli
Arciprete di Locarno

Ci ha insegnato a vivere, a soffrire ed a morire
di Gianni Ballabio

Più coscienti, dunque, più vivi
di Pietro Ortelli

La malinconia a cena e il rimpianto del poker
di Matilde Casasopra

L’ultimo incontro sul Tamaro nel cuore dei giovani
di Giuseppe Zois

“In questo tempo c’è speranza e c’è apocalisse”
di Clara Lanek

«Buona Pasqua, don Eugenio e salutaci il Signore»
di Mons. Alessandro Maggiolini
Vescovo di Como

Il dolore del Papa: «Guida e maestro sapiente»

Reverendissimo mons. Giuseppe Torti,
vicario generale
della Diocesi di Lugano

Nell’apprendere la dolorosa notizia della pia morte di Mons. Eugenio Corecco, Vescovo di codesta Diocesi, desidero manifestare a lei e a tutto il presbiterio ed ai fedeli il mio profondo cordoglio nel ricordo del servizio pastorale che egli ha attuato in Lugano come guida e maestro sapiente, sorretto da profonda pietà e dottri­na. Mentre esorto tutti a ricordare insieme con il suo zelo nel mini­stero, il grande esempio di pazienza manifestato durante la lunga malattia, invoco dal Signore il premio eterno per la sua anima. In­vio a lei e a tutta la comunità cattolica luganese la confortatrice benedizione apostolica che volentieri estendo ai congiunti del defunto presule, al signor Cardinale Gilberto Agustoni che presiede il rito delle esequie ed ai Vescovi presenti.

Joannes Paulus II
        1° marzo 1995

Ciao e grazie, Vescovo Eugenio
di Filippo Lombardi

Bisogna aver provato su di sé il dolore crudele del distacco, bi­sogna aver visto migliaia e migliaia di persone e di giovani sfilare accanto al feretro, bisogna aver sentito il pianto commosso e l’affet­to bruciante di tutto un popolo, per capire finalmente ciò che il Ve­scovo Eugenio ha rappresentato per la Diocesi e per il Ticino.
Accolto con diffidenza all’inizio da parecchi, da alcuni addirittura con ostilità, ha saputo conquistarsi anno per anno il rispetto, l’affetto e l’ammirazione di tutti, costruendo – come raramente succede – l’unità piena e reale della sua Diocesi. Unità che non nasce da dogmi e precetti, per quanto importanti siano, e neppure da un’obbedienza imposta dall’alto, ma nasce dalla naturale adesione all’amicizia e al­l’incontro con un’esperienza di fede che solo una personalità straor­dinaria può offrire, coinvolgendo il cuore di chi gli sta di fronte.
Perché straordinario lo era davvero, questo ragazzo leventinese divenuto prete, professore di fama mondiale, Vescovo, consulente e amico del Papa, interlocutore stimato da politici e intellettuali. Ma sempre padre, amico e guida sicura del suo gregge, con autentico carisma.
Lo era nello spirito, che manteneva giovanile grazie alla lunga esperienza di vita universitaria e alla sua “scelta preferenziale per i giovani” che ha contraddistinto tutta la sua attività pastorale. Uno spirito giovanile e vivace che gli permetteva di capire con rara uma­nità il convulso mondo d’oggi.
Lo era nel sorriso e nel semplice candore che lo metteva subito in sintonia con l’interlocutore, al di là delle differenze di linguaggio (perché a volte doveva “parlare diffìcile” per esprimere la ricchezza del suo pensiero) e al di là delle eventuali divergenze d’opinione. Lo era nel profondo del cuore, che gli consentiva di comprendere sem­pre l’animo controverso degli uomini, perdonandone le debolezze e puntando sempre su ciò che è essenziale nel rapporto di fede.
Ma straordinario il Vescovo Eugenio lo era forse soprattutto per la sua forza di volontà incredibilmente serena, che non si lasciava scalfire dalle avversità né intimorire dall’avversione di chi lo osteg­giava e non gli risparmiava amarezze. Una forza di volontà che è stata anche oggetto di critiche, ingiuste perché non proveniva né da superbia né da umano desiderio di imporsi. Proveniva invece dalla tranquillità assoluta della coscienza, dalla serena persuasione di conformarsi al piano di Dio, dalla certezza che le cose giuste – an­che se non si possono far capire subito a tutti – finiscono inevitabil­mente per imporsi da sole.
È questa intima persuasione, sempre al limite fra candore giova­nile e fede rocciosa da montanaro, che gli ha permesso di realizzare moltissime cose, in nove anni di episcopato che rimarranno nella storia del Ticino.
Perché – per quanto umanamente incompiuta possa sembrarci la sua opera, pensando alla facoltà di teologia la cui sopravvivenza lo ha preoccupato fino all’ultimo, oppure ai problemi ancora aperti della sua grande riorganizzazione diocesana e dei rapporti fra Chie­sa, Stato e società – è pur certo che la strada da lui segnata non po­trà venir abbandonata.
A chi rimane – ai cattolici ticinesi e agli uomini di buona volon­tà di questo fortunato lembo di terra – l’impegno di seguire il suo esempio, di compiere le opere da lui iniziate, di far fruttare i doni che ci ha lasciato. Primo fra tutti il dono dell’unità, manifestato nel­l’intensa e struggente commozione che ha riunito il Ticino attorno a lui, alla sua sofferenza e al dono della sua vita.
Per questo gli diciamo oggi, di tutto cuore, a nome del suo Giornale e di tutti i ticinesi: “Ciao e grazie, Vescovo Eugenio”.

Quel giovane prete che non parlava come un prete
di Michele Fazioli
responsabile del Dipartimento informazione della TSI

Il Vescovo Eugenio ha chiuso gli occhi alla terra e il frastuono dei media ti chiede parole. E sia. Ma c’è come un pudore che trat­tiene nel cerchio del nocciolo più privato l’impeto della memoria. I necrologi sono un brutto materiale da masticare, anche per un gior­nalista.
Ho conosciuto Eugenio Corecco nel 1965, a un corso di sci di studenti liceali, a Rueras Milez. C’era con noi quel giovane prete che non parlava come un prete e questa per noi era già una gran cosa. Si diceva che fosse un sacerdote di sinistra ma naturalmente era una definizione sbagliata: certo, dava fastidio a qualche istitu­zione paludata perché con i ragazzi diceva e faceva cose nuove. Del resto, in quel corso, di cose di religione si parlò poco, o per altre vie che erano diverse da quelle, inamidate, che avevamo frequentato. Ricordo canzoni un po’ gridate, un po’ commosse, un po’ stonate, che ci legavano insieme. E cene allegre, e ragazze che ci rendevano attenti gli occhi. E don Eugenio che cominciava a costruire una compagnia su quelle gioventù precarie, inquiete. Poi persi di vista lui e quegli amici, fino a quando, anni più tardi, ho ritrovato don Eugenio (che nel frattempo era diventato professore e girava il mondo) e quella compagnia. Ricordo una sera di novembre, ad Ascona, quando la nostra televisione celebrava i venti anni del Con­cilio. Il Vescovo Togni si era dimesso e da mesi si attendeva da Roma il nome del successore. Camminando con Corecco attorno al Papio parlammo di quella cosa e di lui. Disse che sentiva nell’aria che lo avrebbero «chiamato dentro» e di vivere la contraddizione di uno che cerca di fuggire da una chiamata simile e che al tempo stes­so la sente stringente, ineluttabile. Forse da Roma gli avevano già parlato, chissà.
La nomina ufficiale avvenne qualche mese più tardi, a maggio. La mattina dell’annuncio ero in Avenue de Gambach, a Friburgo, dove gli studenti che abitavano con Eugenio Corecco avevano fatto le grandi pulizie per l’arrivo dei giornalisti venuti a intervistare il nuovo Vescovo. Il quale parve subito deciso e franco, senza falsi tremori di fronte al macigno di responsabilità che gli avevano caricato sulle spalle. Fu subito dentro la parte, con il rimpianto per la vita accade­mica, gli studi ad alto livello, il lavoro con gli studenti, ma anche con la determinazione di chi avrebbe preso sul serio la chiamata dentro il numero dei successori degli apostoli. E fu di parola. Altri diranno come ha fatto il Vescovo, altri giudicheranno, se oseranno, se sapran­no farlo, il suo lavoro pastorale dentro la Chiesa che è in Ticino. Una cosa è certa. Con Corecco Vescovo i cattolici ticinesi hanno sentito d’essere presi per mano da una guida che, come diceva lui, voleva far­li uscire, se possibile, dalla riserva indiana dove il perbenismo della discrezione e dell’omologazione li aveva confinati. Bisognava, pur nel rispetto laicissimo dell’altrui libertà, ridare ai cattolici il gusto di una identità e la persuasione del dover essere presenza, anche al di fuori del recinto compunto delle messe domenicali e delle prime comunio­ni dei figli. Se il cattolico crede che l’esserlo è quel che più conta per la propria vita, allora lo dica senza aver l’aria di chiedere scusa e con­tribuisca a suscitare intorno a sé quella «curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero». Il Vescovo Eugenio queste cose le ha dette e ripetute in faccia ai cattolici. E ha detto pure che la libertà della Chiesa è anche dignità di vita economica, capacità di sussistere concretamente. Per questo ha aperto i dossier che erano rimasti, per buona educazione politica o per indifferenza, chiusi nei cassetti. Ha suscitato fastidi, irritazioni, stupori. Ha camminato spedito, branden­do in modo poco pretesco ma anche politico il suo bastone di Pasto­re. Ha avuto contro anche molti cattolici e soprattutto molti preti, perché così va il mondo e spesso sono certi preti che non vogliono capire che il cristianesimo non è un’etica, una ideologia, una serie di regole morali: ma lo stupore per un Avvenimento che c’è stato e che cambia la nostra vita (dopo viene anche la morale, perbacco: ma dopo). Con l’affetto di un’amicizia che era partita da lontano, in quel tempo giovanile dove tutto ti feconda, ho rifrequentato il Vescovo Eugenio per la necessità della professione e per l’urgere di domande personali. E sempre ho ritrovato la determinazione di quella persua­sione: che il Cristianesimo è un Avvenimento che tu incontri davve­ro, concretamente, è una Presenza che si riflette nei volti di una compagnia (che è il brandello di Chiesa che ti è dato). Altrimenti rimane una speculazione teorica, un esercizio consolatorio di devozione. Questo è ciò che conta. Poi potrei raccontare delle esperienze inten­se, delle parole sue, di quell’intervista in cui, malato gravemente, di­ceva la ribellione, poi la paura, il tremore, il terrore del nulla (che ap­partiene alla carne e al cuore dell’uomo) ma poi anche la condivisio­ne del dolore, la certezza che esso, come la morte, ha un senso dentro la sequela di Gesù che, duemila anni fa in Palestina, soffrì e morì e cambiò la storia degli uomini. Era un uomo vero, che parlava con il sudore freddo del male e l’angoscia del soffrire. Ma anche con forza di una fede alla quale ha intonato tutta la sua vita. Potrei dunque dire molte cose. Per me questa sera pensare a lui che è morto il mercoledì delle Ceneri, alle tre del pomeriggio – che è il rintocco della memo­ria della morte di Gesù – significa pensare a un uomo che è stato decisivo nel far sì che la mia vita si aprisse, nella tensione al Destino, sulle domande che contano davvero (per prenderla veramente in mano, la vita). La gratitudine e la commozione che fa tristi queste ore stanno qui, attorno a questa cosa che cambia la vita.

Ci ha dato l’esempio nell’ora della prova
di mons. Pierre Mamie
Vescovo di Losanna, Ginevra e Friborgo

Monsignor Eugenio Corecco, Vescovo di Lugano, già professo­re della nostra Facoltà di Teologia all’Università di Friborgo, era e resterà un vecchio amico.
Ci ha dato l’esempio, in modo particolare durante la sua ultima malattia. Egli ha guardato verso la morte con una lucidità poco co­mune. È passato attraverso grandi sofferenze e non l’ho mai sentito lamentarsi. Ciò che ha scritto durante questi ultimi mesi sulla soffe­renza, la malattia, la morte, non si spiega che con una fede, che gli dava la certezza che, «nella morte, la vita non è distrutta, ma è tra­sformata».
Egli amava la Chiesa del Verbo Incarnato, la Chiesa allo stesso tempo invisibile e visibile, e questo lo ha portato sempre a ricorda­re, in particolare ai suoi studenti e nelle assemblee della Conferenza dei Vescovi svizzeri, che il diritto, le leggi, la giustizia hanno sem­pre il loro posto nella vita della Chiesa al servizio della Verità da annunciare e della Carità da vivere.
Noi ringraziamo Dio di averci donato un tale strumento della sua grazia. Eravamo insieme alla Conferenza dei Vescovi svizzeri dal 1986. Preghiamo per lui con la sua Diocesi, la sua famiglia, i suoi amici, i suoi allievi e i suoi discepoli. Gli chiedo di continuare a vegliare in modo particolare su noi, suoi fratelli nell’episcopato.

«Eugenio sei con noi» soprattutto adesso
di mons. Christoph Schönborn
Vescovo ausiliare di Vienna

Un’immagine indimenticabile mi ha marcato: era la sera del 27 gennaio, nella Cattedrale di Lugano. Il Vescovo Eugenio, già dura­mente segnato dalla malattia, entra in Cattedrale per un breve in­contro.
L’applauso non vorrebbe mai terminare. Ascolta i giovani di Manila, che raccontano della giornata mondiale della gioventù. Ad ogni tappa di quel viaggio avevano portato uno striscione con la scritta «Eugenio, sei con noi». Separarsi dai giovani della sua dio­cesi è forse stata per lui la cosa più difficile. Era un addio che si po­teva intuire, che si poteva vedere: lasciare l’Azione cattolica giovanile, i giovani dei movimenti, riuniti assieme dal Vescovo Eugenio in una disponibilità comune, per vivere con Cristo, per servire la Chiesa. Ora il suo pellegrinaggio terreno è terminato, ma sempre valida e nuova rimane la parola dei giovani, e nella fede ne siamo si­curi: «Eugenio sei con noi».
Ma un’altra cosa ancora, a lui molto cara, ha dovuto lasciare: la «sua» facoltà teologica. E un piccolo miracolo al giorno d’oggi mettere in piedi un’opera di questo genere! Per la diocesi, il seminario, la formazione permanente, un centro di studi come questo ha un valore incalcolabile. In poco tempo, grazie alle sue qualità teologiche e grazie alla propria fama internazionale di ricercatore scientifico, il Vescovo Eugenio è riuscito a costruire un centro spi­rituale considerevole e considerato. La «sua» facoltà ha ancora bi­sogno del suo aiuto, e ora il Vescovo, divenuto ancora più intimo a Cristo (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica 956), glielo assicurerà in modo ancora più intenso: «Eugenio sei con noi».
Come Vescovo, don Eugenio era particolarmente legato al Pa­pa, il Santo Padre, cosa che d’altronde nella «communio» della Chiesa è «normale». C’era una profonda intesa spirituale, una «pa­rentela di spirito», nello sforzo intellettuale, nella passione per i giovani, nel modo di intendere le esigenze della «nuova evangeliz­zazione», nel piacere per la montagna, nella capacità di accogliere la malattia come parte essenziale dell’opera apostolica. Nei lunghi mesi della sua malattia, il Vescovo Eugenio ha mostrato alla sua diocesi, ai preti, ai laici e a tutti noi, dove si trova il posto del Pasto­re: vicino a Cristo, alla sua croce e alla sua risurrezione: «Eugenio, sei con il Signore, sei con noi».

Ci lascia in dono l’unità
di Moreno Bernasconi

Ho visto migliaia di fedeli sfilare ininterrottamente, col cuore colmo di riconoscenza e di affetto, davanti alla salma del nostro ve­scovo. Ho visto una cattedrale gremita, fin fuori sul sagrato e le scale che portano a San Lorenzo. Un applauso spontaneo, corale, sot­to la volta della sua chiesa. E un lungo corteo di giovani commossi e sereni, che cantando inni alla Madonna hanno accompagnato le spoglie del Vescovo Eugenio alla sua ultima dimora.
I segni dell’opera grande di questo nostro Vescovo sono proprio questi: il popolo dei fedeli riconosce chi gli è stato padre, chi ha fat­to rinascere nel suo cuore la speranza e ha reso più salda la sua fede in questo tempo di miraggi e di inganni. E rende testimonianza così, con una semplicità antica capace di spostare le montagne.
Come fa un padre che ama i suoi figli e desidera il loro bene, il Vescovo Eugenio ha messo a nudo la fragilità del suo destino uma­no: malattia, sofferenza e paura e poi la speranza che ti schiude dentro lo sguardo luminoso della fede. Affinché abbiamo a capire che la grandezza di un uomo, di ognuno di noi non sta negli studi, nell’intelligenza, nei nostri progetti grandi o piccoli, ma in un cuore che ama, e sa accogliere il dono di Dio.
Chiamato per temperamento e ingegno a cose grandi nella Chiesa e nel mondo, il Signore ha voluto per il Vescovo Eugenio la grandezza più sublime: l’umiltà che illumina l’intelligenza sul signi­ficato ultimo delle cose e genera unità. Se le parole del teologo e dell’intellettuale non erano riuscite a far breccia in chi è preda di dubbi e pregiudizi, la testimonianza della sua vita ha sciolto le più dure resistenze.
Ecco qual è il frutto maturo di questo episcopato: quasi senza accorgerci, anno dopo anno, man mano che la guida forte del Ve­scovo Eugenio si faceva dolce e chiara a tutti i fedeli, a tutti i Ticinesi, egli ci faceva dono dell’unità. I preti che si preparano al loro ministero nel seminario diocesano e la facoltà di teologia, cu­stode dell’universalità degli studi e della Chiesa, potranno trovare in questa rinnovata unità del popolo cristiano un terreno fecondo.
Poiché la fede trasmessa unisce e porta frutto. Anche quando sembra che sia mancato il tempo per realizzare i piani di noi uomi­ni: anzi, genera frutti maturi proprio quando – inatteso – un Altro ti prende per mano e ti conduce là dove tu non pensavi di andare.
L’hanno capito subito i giovani – poco inclini a lasciarsi ingabbia­re da pregiudizi faziosi e dalla lotta per il potere – che entusiastica­mente l’hanno seguito durante questi decenni di ministero (come prete e come Vescovo), rinnovando la Chiesa che è in Ticino. E l’ha capito la pietà popolare, maturità semplice della fede, che ha radici profonde nelle nostre famiglie, nella nostra terra, e che in questi anni ritrova uno slancio schietto e nuovo. Cosa può fare l’ideologia – laica o clericale che sia – contro la ritrovata unità del popolo di Dio? L’ideologia per definizione divide e isterilisce: il tempo la cancella.
Ecco, ora che più salda è la fede, più chiara l’origine della nostra unità, anche il nostro compito di cristiani e di uomini in questo no­stro Paese si fa più preciso. Il Vescovo Eugenio ha posto un seme nella nostra terra, nel nostro popolo: sta a noi tutti farlo fruttare. Trasformarlo in opere mature.

Le ali alla speranza davanti alla sera
di Giuseppe Zois

Nel «Giorno del giudizio» di Salvatore Satta, la povera Giusep­pina riassume un po’ tutti i nostri atteggiamenti e le nostre debo­lezze di fronte al dolore. E confessa, interpretandoci perfettamente di non riuscire a comprendere «come tanto dolore si possa accumu­lare in un piccolo punto del mondo, come tanta pena potesse tra­volgere le creature insignificanti che esse erano». Tutti fragili, tutti vulnerabili davanti ai grandi interrogativi sul perché del dolore, perché proprio a noi, perché tante sofferenze nelle persone che co­nosciamo o, più in generale, nelle creature che ora ci turbano sempre di più attraverso la tempestività dei mass-media, in partico­lare la televisione. La malattia e la morte del Vescovo Eugenio, ma in particolare il modo in cui sono state vissute e fatte condividere, suggeriscono un itinerario prezioso al cammino di ognuno nell’esi­stenza.
Le domande, le angosce, i turbamenti e le disperazioni si rincor­rono, si moltiplicano, sembrano non concedere tregua. E ogni gior­no, si può dire ogni ora, c’è motivo di turbamento. Si ondeggia, emotivamente, presi da quanto ci tocca vivere, su noi stessi, sui vici­ni e sui lontani.
La Chiesa, non solo quella per fortuna, ma soprattutto la Chiesa sta dandoci il conforto di grandi testimonianze e incoraggiamenti di fronte a realtà che, in un modo o nell’altro interpellano tutti: il dolore, la sofferenza, la paura di fronte al mistero che si apre oltre la vita, la morte. Pensiamo al Vescovo di Padova, Franceschi, il qua­le si fa amministrare l’Unzione degli infermi in Cattedrale, davanti ai suoi fedeli, perché possano cogliere in profondità il significato di un sacramento.
Un altro Vescovo, mons. Tonino Bello, presidente di «Pax Christi», stremato da un cancro che lo devastava, volle recarsi fino a Sarajevo assediata e sotto le bombe, con la flebo appresso, per portare un messaggio di speranza, per far capire a quei fratelli che c’è sempre una fiamma accesa nel mondo, anche nell’ora che può sem­brare più buia.
Padre David Maria Turoldo s’è rivelato ai più ed ha trascinato come non mai soprattutto da quando ebbe la determinazione d’amore e di fratellanza di andare in televisione, davanti ad un gior­nalista amico come Enzo Biagi, per comunicare al grande pubblico la notizia del «drago insediato nel centro del ventre, come un re sul trono». La desolazione, certo, ma anche il dovere, la volontà di essere di aiuto, di condividere, di essere vicini, specialmente in queste esperienze. E soprattutto oggi, in un’epoca in cui si fa tutto di cor­sa, si vive di frenesia, assetati di avere, sordi al grido di dolore del vicino. Tre testimonianze a caso, del tempo recente, fra le numero­se che ci è data la fortuna di assimilare, di interiorizzare e di capitalizzare per il futuro e per quel che ciascuno sarà chiamato a vivere, a dare ed a donare.
Tutti abbiamo nella memoria e nel cuore – grazie anche alla fe­lice riproposizione di quell’incontro in «Controluce» alla TSI – la confessione del Vescovo Eugenio sul cancro che lo aveva aggredito. La predica vissuta del dolore, fatta dal pulpito esposto alle teleca­mere. Un raccontarsi intriso di franchezza e semplicità in un mo­mento sconvolgente per ogni creatura, anche per un santo. Corecco svelò il suo dramma: «Anch’io sono stato assalito dalla ribellione, dal fantasma, dalla incomprensione, dalla paura di scomparire nel nulla, perché la fede non elimina l’emotività, non elimina le paure della gente».
Questa sincerità totale ha fatto cogliere da ciascuno una dimen­sione che magari non poteva essere del tutto rivelata o compresa, l’umanità del Vescovo che, per paradossale che possa sembrare, arricchiva con le sue dichiarate, comuni povertà. Sì, perché un conto è parlare di dolore, di sofferenza e di morte e altro è vivere queste realtà scavate nel proprio essere, macerate e maceranti. Con Turoldo, possiamo tutti riconoscere d’aver capito che sperare è sempre più difficile che credere e che aiutarci a sperare è la sfida, il dovere più esigente dell’uomo, il suo limite ma anche la sua gran­dezza. Quello del Vescovo Eugenio, negli ultimi due anni, è stato un altare di prove, di penombre e di silenzi, ma volutamente carico di tracce, di luci e di voce per muoverci quando scende il buio.

Il suo ruolo di «maestro» interpretato con rispetto
di Dalmazio Ambrosioni

«Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta ma trasformata»: così prega la Chiesa nella liturgia funebre. E questa certezza, al di là del sollievo della comunione che continua, invita a mai chiudere il capi­tolo dei rapporti con chi ci ha preceduto nella vita di fede e, anzi, ad approfondire questa eredità di parola, di testimonianza e di magistero che lui stesso ci garantisce nella «vita trasformata» in Cristo.
Nella vita di molti Eugenio Corecco è entrato d’improvviso con la sua chiamata a Vescovo di Lugano. Si son capite subito la carica innovatrice di pensiero e di azione, la progettualità inequivocabile, riferita a quel pilastro della «nuova evangelizzazione» con cui ha chiamato tutti a confrontarsi. Un confronto non solo nel segno sto­rico delle radici cristiane della nostra società ma della indilazionabi­le esigenza di riprendere in forma rinnovata il filo di questa conti­nuità all’interno di una società avviata, lungo il piano inclinato della scristianizzazione, a confondere se stessa e le sue componenti uma­ne. Il Vescovo Eugenio ha saputo ergersi davvero in cattedra, po­nendosi come punto di riferimento per un’azione che non fosse puro contenimento. Forse non subito si sono capite altre compo­nenti della sua personalità e del suo indirizzo pastorale; c’è voluto il tempo necessario a discernere che ogni singola iniziativa era parte di una progettualità esattamente definita.
In questi giorni è stato inaugurato il terzo anno della Facoltà di Teologia da lui voluta con iniziativa intelligente e con un impegno insostenibile per una sola persona che non fosse sospinta, oltre che da straordinarie capacità di organizzazione, da potenti motivazioni. Cosicché tutti, anche chi non vi partecipa direttamente, hanno compreso l’effettiva rilevanza storica di questa iniziativa posta come «fiaccola sopra il moggio», quindi ben visibile e tale da rischiarare un coerente percorso. Questa struttura universitaria ha in sé anche un forte valore di comunicazione e si pone al vertice di una strategia volta a delineare gli indirizzi di un messaggio evangelizzatore che il Vescovo Eugenio ha perseguito con la lucidità della fede.
Un’altra componente essenziale della sua comunicazione, ac­canto alla parola e all’esempio, si è concretizzata nei rapporti con i mass-media e in particolare con il Giornale del Popolo: in questo caso nella sua qualità di presidente del Consiglio di Fondazione e nella convinzione, espressa a più riprese, della necessità del quoti­diano cattolico voluto dal Vescovo Bacciarini. Mai ha fatto mancare sostegno, consiglio, indirizzi, come ben testimonia anche il nuovo statuto dato al Giornale. Lo ha fatto con la sollecitudine di una pre­senza magistrale, costante, rispettosa. Quindi senza interferenze e con un’applicazione nobile del principio di carità, sia nei confronti della redazione che di temi e persone. Il Giornale non doveva esse­re motivo di divisione ma di una coesione vera, attiva, non casuale e tantomeno affastellata.
Così come per la religione, ugualmente non ci poteva essere nessuna cultura «à la carte», tipo usa e getta. Esemplare in questo senso il principio da lui spesso suggerito della «distanza critica», tanto nei confronti di mode e fenomeni di superfìcie quanto del turbine delle ideologie. Uomo di profonda cultura, non ha mai in­teso che fosse banalizzata su scelte formali ed estetizzanti, che fosse perseguita come fine a se stessa ma come mezzo per capire la vera natura delle cose e diffondere il messaggio cristiano.
È ancora negli occhi di molti la sua testimonianza alla TSI in «Controluce». Era già iniziato il tempo della malattia e proprio nella malattia non solo chi gli era più vicino ma la gente tutta ha scoperto la strada per collegarsi al «suo» Vescovo. In quella tra­smissione e ancora in altre occasioni tutti l’abbiamo sentito autenti­camente vicino, riuscendo a superare quella distanza che separa dall’autorità. E soprattutto riuscendo a collegarci con la sua persona e non solo con il ruolo; con la qualità di una presenza alla quale già allora intuivamo di doverci sempre riferire.

Lo sforzo per un cristianesimo non da subire, ma da vivere
di don Sandro Vitalini

Sono diventate quasi proverbiali le parole di Paolo a Timoteo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho cu­stodito la fede». Le possiamo senz’altro applicare al nostro Vescovo Eugenio, che ha compiuto una corsa intensa, una battaglia contro il tempo, portando alta la fiaccola della fede. Nessuno potrà negare che l’impegno del Vescovo Eugenio è stato intensissimo in questi anni, superiore a quanto sia lecito attendersi da un uomo. Anche nel periodo già segnato dalla malattia ha svolto un’attività pastorale che ha dell’incredibile.
Dalle parrocchie ai gruppi ecclesiali, dal seminario all’Azione Cattolica, dalla scuola al Giornale, dalla cattedra al video, dalla Fa­coltà teologica alla sua attività di canonista, egli ha bruciato ogni stilla di energia in questa corsa, in questa battaglia per la fede. Il suo anelito è stato questo: che il popolo di Dio avesse a percepire che la fede cristiana non è un gesto religioso saltuario, ma l’impregnazio­ne di tutta l’esistenza nello Spirito del Cristo. Questa sua preoccu­pazione ha segnato sia il suo ministero pastorale sia la sua ricerca scientifica. La sua attività pastorale è potuta sembrare marcata da un certo rigorismo: ancora durante la celebrazione di una Cresima poco tempo fa diceva ai cresimandi che se non erano convinti di ciò che facevano potevano senz’altro tornarsene a casa. Questo rigore era dettato dalla preoccupazione di aiutare i battezzati a rendersi conto che il cristianesimo non può essere subito, ma va incarnato, e che soltanto così esso è fonte di gioia, di entusiasmo, di felicità. Quando si sentiva circondato dai suoi giovani – che ha ancora in­contrato recentissimamente in cattedrale – si commoveva, perchè sentiva che loro l’avevano capito fino in fondo.
Il tempo della sofferenza è stato lungo e duro, ma altrettanto fe­condo. Egli ha indicato nella malattia «una grazia», e cioè un’occa­sione di conversione ancor più accentuata alla pienezza dell’Amore trinitario. Chi l’ha avvicinato nella sua sofferenza – sopportata con un coraggio ed una dignità esemplari – è rimasto colpito per la tra­sformazione che si stava compiendo in lui: tralucevano in lui un’umanità più marcata, una sensibilità più accentuata, una com­prensione viscerale per il dolore altrui.
Chi ha partecipato al palazzo dei Congressi di Lugano alla ma­nifestazione in suo onore del novembre 1994 ricorderà la sua parola umile e dimessa, che faceva da contrasto ai riconoscimenti interna­zionali per la sua opera canonistica. Anche quest’opera passerà alla storia per lo sforzo che vi è profuso per aiutare il Diritto Canonico a uscire dalle secche di un legalismo razionalista per radicarsi, come parte integrante della teologia, sulla Parola di Dio: Dio è la fonte dell’equità, della giustizia, della sapienza e dell’amore!
Terminata la battaglia, conclusa la corsa, il Vescovo Eugenio en­tra nella nube dei testimoni; ma tutta la sua Chiesa è chiamata a raccogliere questa fiaccola della fede che sta alla base di quell’evangelizzazione che prepara il nuovo millennio. In questi giorni po­tremmo rileggere le sue Lettere pastorali o riandare ai suoi discorsi. I pellegrini, le religiose, i membri di Azione Cattolica, in particola­re i giovani, i seminaristi, i preti, quante volte l’hanno sentito: ha sempre ripreso il tema di una vita di fede coerente, dove tutto l’agi­re si lasci coinvolgere dalla Parola liberatrice del Signore, così che la testimonianza cristiana sia corale, gioiosa, illuminante. Nel silen­zio e nella preghiera cerchiamo insieme di raccogliere questa sua eredità.

Una vocazione vissuta con piena consapevolezza
di don Mino Grampa

«Non più la mia vita affidata ai chirurghi,
non più affidata alla scienza dell’uomo,
ma soltanto a Te, che non mi rispondi.
Eppure una grande serenità mi pervade,
ne sono stupita io stessa
di questa mia fede.
Tu dai e Tu togli,
e non mi ribello,
poiché solo Tu sei il Padrone
di questa esistenza,
poiché solo Tu sei il Giusto».

Sono versi di Gioia Turoldo Malnis – nipote del più celebre poeta e religioso padre David Turoldo – vittima di una paralisi progressiva che l’ha costretta alla totale immobilità. Il male arrivò fino a tagliarle la voce, così che le restò solo il linguaggio degli occhi. Questa donna coraggiosa ha affidato a tre libretti di poesie i suoi sentimenti e la sua fede, prima di chiudere i giorni della sua sofferenza terrena.
Me ne sono ricordato, pensando alla malattia e alle sofferenze del Vescovo Eugenio, mentre inseguivo le domande senza risposta, che non mancano di accumularsi nell’animo di fronte a certi impre­visti e prove della vita. La forza di questa donna e la sua esperienza drammatica mi hanno aiutato a capire anche la prova e la sofferenza del Vescovo Eugenio e di tutti coloro che drammaticamente soffro­no, senza che ce ne sia un perché evidente.
Anche il Vescovo Eugenio ci ha lasciato sul dolore insegnamenti profondi e una testimonianza esemplare.
Di fronte alla sua morte ci chiniamo in rispettoso silenzio ed ap­pelliamo al Signore, che dà e toglie ed è il solo Giusto, per poter restare sereni e forti.
Si è chiuso un episcopato che non fu facile né per il Vescovo Euge­nio, né per la sua diocesi. Non sono mancati gli entusiasmi e le incomprensioni, le fughe in avanti e le diffidenze. Ma oggi dobbiamo rendere omaggio a chi ha sentito profondamente la sua vocazione episcopale, l’ha vissuta con consapevolezza piena, dando tutto se stesso fino al sacrificio estremo. Domani si potranno fare i bilanci, contare le cose iniziate, quelle portate a compimento e le altre rimaste interrotte.
Domani le valutazioni potranno anche differenziarsi. Oggi dob­biamo chinarci unanimi nel rispetto, nella riconoscenza, nella grati­tudine, nella preghiera.
Rispetto per un episcopato comunque intenso, dinamico, inno­vativo per esperienze e proposte. Riconoscenza per l’amore dimo­strato a Cristo ed alla Chiesa, per le molte opere iniziate con coraggio, parso talvolta a più d’uno persino temerario.
Gratitudine per il servizio reso, per l’attenzione prestata ai gio­vani, per la ricerca del bene delle anime, per la vicinanza alla gente che non sempre, non subito ha capito questo suo Vescovo, che veniva dagli studi del diritto e dalla cattedra universitaria.
Nella preghiera: che per lui è di suffragio, cioè completamento, e compimento di una purificazione ampiamente anticipata dal dolo­re e dalla malattia. Per lui è celebrazione della luminosa liturgia celeste. Per noi è fede nella vita immortale, è speranza in un futuro di grazia, è impegno a vivere la reciproca carità ogni giorno.
Al Vescovo Eugenio dedichiamo questi versi del grande poeta, narratore e drammaturgo spagnolo, Miguel de Unamuno.
Sono parole di grande luce per lui, che tiene ormai gli occhi fissi in quelli del Signore «nell’increata luce che non muore»; e sono luce per noi, il cui cuore ancora si impaura ed abbisogna della Paro­la ardente che ci consoli e ci tragga fuori dalla notte oscura.

«Dammi, Cristo,
che quando alfine vagherò sperduto,
uscendo dalla notte tenebrosa ove sognando il cuore s’impaura,
entri nel chiaro giorno sconfinato
con gli occhi fissi sul tuo bianco corpo
Figlio dell’Uomo, Umanità perfetta
nell’increata luce che non muore;
gli occhi fissi nei tuoi occhi
e in Te, Cristo, perduto il guardo mio».

Come nel Vangelo con il «giovane ricco»
di don Italo Molinaro

Il Vescovo Eugenio si era presentato alla Diocesi il giorno della sua ordinazione episcopale con il famosissimo brano evangelico del «giovane ricco»: un personaggio come tanti a cui però Gesù aveva chiesto tutto: «va’ vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri. Poi vieni e seguimi». Nella vita del Vescovo, questo Vangelo si è realizzato in tempi e modi diversi, sempre più esigenti, sempre più concreti.
Una tentazione però non deve colpirci: quella di mitizzare un brano evangelico, riservandolo a una persona sola. Infatti il «lascia­re» per «seguire» Gesù concerne tutti, in ogni momento della vita. Allora anche il «lasciare» che si realizza nella morte di un Vescovo in carica non può essere catastrofico perché la straordinaria forza del Vangelo è proprio questa: chi «lascia» e «segue» Gesù, ritrova un tesoro ancora più prezioso. Infatti i «molti beni» del giovane ricco, Gesù chiede che vadano «ai poveri». E dunque quei «molti beni» che il Vescovo Eugenio ci ha lasciato, vanno a noi, che per la sua morte ci troviamo un po’ più poveri.
Diversissima per ciascuno di noi è stata la vicenda personale col Vescovo Eugenio. Quando eravamo in seminario a Friburgo non si può negare che a volte si viveva un certo attendismo, una certa cir­cospezione, fatta quasi di imbarazzo, dove nessuno sapeva cosa dire e fare davanti a un Vescovo che spesso non usava mezzi termini nel comunicare le sue convinzioni.
Imbarazzo specialmente nel comunicare il suo affetto per noi, causato un po’ dal suo carattere, poco propenso alle grandi dichia­razioni, e un po’ dalle nostre prevenzioni. Devo allora affidarmi alla memoria, per ripescare mezze parole, sorrisi, gesti attraverso i quali il Vescovo comunicava il suo affetto.
Un gesto forte è stato per me l’abbraccio commosso che ci sia­mo scambiati alla mia ordinazione presbiterale, lo scorso primo ot­tobre. Un abbraccio che ora lasciava trasparire quell’umiltà che il «giovane ricco» avrebbe trovato centuplicata, una volta lasciati tutti i suoi averi.
Adesso tocca a noi riuscire a vivere l’umiltà che il Signore chie­deva al «giovane ricco», per rimanere sempre liberi davanti ai «molti beni» che ci troviamo tra le mani. Parlo del nostro lavoro, della nostra missione, dei compiti che la Chiesa ci affida. Viviamo da liberi e non da padroni queste cose perché sono iniziate prima di noi ed evolveranno dopo di noi. Un Vescovo che muore mostra an­che questo: ciò che facciamo, in realtà è in mano a Qualcun altro di più grande.

Azione Cattolica e l’energia per risalire gli itinerari
di Franco Ponzoni
Presidente dell’Azione Cattolica diocesana

C’è voluta la forte e incisiva personalità del Vescovo Eugenio per proporre nel 1989 un congresso dell’Azione Cattolica nel mo­mento in cui in Diocesi sembrava spegnersi la speranza di un rilancio. L’ha voluto perché ha saputo ascoltare il popolo, la gente che durante le visite pastorali rimpiangeva i bei tempi dell’impegno comune nelle rispettive parrocchie.
In un incontro con il comitato dell’Unione femminile cattolica ticinese era rimasto particolarmente colpito dal numero degli abbo­nati alla rivista associativa «Spighe», proprio mentre la stampa generale faticava a sopravvivere.
Per non perdere nulla di questo patrimonio, in quella riunione, con determinazione, senza ascoltare le titubanze delle persone pre­senti, prese la grande decisione: «Si farà un Congresso dell’Azione Cattolica».
«L’AC deve trovare l’energia di risalire gli itinerari della propria sto­ria» disse «per scoprire se le risonanze presenti oggi nella sua anima sono ancora in grado di ridestare la volontà di riprendere il cammino».
All’entusiasmo di quella memorabile giornata dell’8 ottobre 1989, al Palacongressi di Lugano, sono seguiti momenti di ricerca, di impegno, di sofferenza e di fatica. Attraverso il suo intuito e l’in­contro di alcuni giovani entusiasti, ha sentito che si poteva risalire la china proprio dai giovani. Non li abbandonò più. Si prese carico della loro formazione, donandosi incessantemente anche nei momenti più sofferti della malattia, accompagnandoli nei vari itinerari e pellegrinaggi con la forza di guida sicura, con la solidità della dot­trina, con la fedeltà vissuta alla Chiesa, con quell’«amore e gran­dezza di cuore» che colpì profondamente il vescovo di Praga, il card. Vlk, lo scorso giugno sul Tamaro.
Per la risalita degli adulti puntava sulla famiglia, sulle giovani coppie, ed è stato lieto – alla giornata unitaria dell’ottobre 1994 a Taverne – di veder iniziato anche questo importante settore della vita associativa. «Dal Congresso non c’è stato per gli adulti quello che è successo ai giovani» affermò a Taverne «ma qualcosa è avve­nuto: si sono riscoperti fede e valori. Anche strutturalmente ci sono stati dei cambiamenti: i corsi di formazione unitaria, la suddivisione in regioni, il gruppo famiglie, che è un segno di speranza per tutta l’Azione Cattolica e per la diocesi».
Quando il Vescovo invitò ad accompagnarlo nella preghiera in quello che «umanamente sembrava essere la fine della vita terrena» l’Azione Cattolica raccolse quell’invito: ogni gruppo, ogni aderente ha pregato quotidianamente per il suo Vescovo, e questa preghiera è divenuta un momento di grazia, che ha unito ancor più l’associa­zione alla Chiesa e al suo Pastore. La sua figura e il suo esempio, la sua sofferenza e la sua morte hanno risvegliato un forte senso di ap­partenenza al magistero della Chiesa sicuri che attraverso la pre­ghiera e i sacramenti, potranno vedersi molti frutti di trasformazio­ne e di conversione dei cuori. Nulla di quanto seminato da mons. Corecco andrà perso.

La misura della forza che viene dalla fede
di Giorgio Zappa
Presidente Commissione diocesana mass-media

Quando un sacerdote diventa Vescovo partendo da una prece­dente esperienza pastorale, si costata in genere una spontanea ade­sione alla sua persona da parte dei fedeli, un’accoglienza privilegiata e spesso entusiasta di ogni suo atto.
Il caso è diverso, certamente per motivi psicologici, quando il sacerdote proviene dal mondo della cultura e dell’insegnamento universitario; si manifesta in questo caso una certa diffidenza che poi solo il tempo e gli avvenimenti riescono a far superare.
A mons. Corecco non fa risparmiato di dover compiere questo arduo percorso; né fu risparmiata, all’inizio, l’altra forma di diffiden­za, originata dalla sua militanza nel movimento di CL, i cui orienta­menti non fanno l’unanimità fra i fedeli e fra il clero. Oggi, alla con­clusione di questo breve e intenso episcopato, dopo che il Vescovo è entrato nella luce del Signore, ci è facile avvertire quanto quelle diffi­denze fossero ingiustificate e soprattutto quanto i rapporti ecclesiali si siano positivamente modificati nel corso degli anni.
Non è certo il momento di abbozzare un bilancio dell’opera di mons. Corecco Vescovo, né io ne avrei la competenza. Mi vorrei li­mitare ad indicare quelli che mi sembrano essere stati i punti forti di un’azione pastorale, tutta tesa a dare vitalità più robusta alla Chiesa ticinese: citerei la tradizione, la cultura, la spiritualità. Col­lego alla tradizione lo sforzo che il Vescovo Corecco ha compiuto per ridare forma e forza all’Azione Cattolica, con un impegno assi­duo anche personale, a partire dal Congresso da lui convocato l’8 ottobre del 1989 a Lugano.
È nel campo della cultura della fede che mons. Corecco, grazie alla sua sensibilità e alla sua preparazione, ha potuto dare il più for­te contributo alla vita della diocesi: la personale attività di studioso di diritto canonico, riconosciuta a livello europeo; la fondazione della Facoltà di Teologia; l’organizzazione di congressi internazionali, sono tutti pilastri di un lavoro per favorire la coniugazione di fede e cultura, nella convinzione che da questo lavoro, apparente­mente elitario, tutta la vita ecclesiale trae vantaggio.
La stessa cosa si può dire delle iniziative prese da mons. Corecco per rendere possibile l’impianto in diocesi di centri di religiosità contemplativa, destinati a diventare punti di irradiazione spirituale.
Ma occorre riconoscere che se il Vescovo Corecco è oggi così rimpianto dai fedeli e dai ticinesi tutti, questo è dovuto più che alle cose che ha fatto, alla testimonianza che ha offerto nel periodo della malattia.
Con la decisione di informare regolarmente tutti, con l’atteggia­mento positivo di fronte alla volontà di Dio, con la fiducia di non voler demordere dalle sue responsabilità, ma soprattutto con l’aper­ta disponibilità ad accettare le personali debolezze e vederle illumi­nate dalla speranza cristiana, il Vescovo Eugenio ha dato a tutti noi la misura di quanta forza la fede possa offrire all’uomo.
E così si è realizzato il voto espresso dal Vescovo fin dall’inizio, che la malattia servisse ad aumentare la comunione dei fedeli con lui. Ricordo che l’intervista televisiva a Michele Fazioli fu il mo­mento più alto di questa comunione.
Per il valore della sua testimonianza, tutti i ticinesi hanno ac­compagnato con dolore Eugenio Corecco nel suo ultimo passo e inconsciamente avvertono oggi che anche la morte può essere se­gno di Vita.

Il desiderio di infinito come nuovo modo di vivere
di Claudio Mésoniat

Vorrei dire solo quello che è importante, lasciando perdere le rimembranze troppo personali. Non posso però non dire il grande debito di riconoscenza che ho verso don Eugenio.
Ragazzo quindicenne, ho potuto intravedere grazie a lui che la Chiesa non era un affare di preti e di suore, e ho cominciato a intui­re quello che poi l’incontro con don Giussani (peraltro avvenuto grazie solo a Corecco) mi confermò del tutto: la questione religiosa non è un soprabito da mettere sopra la questione umana nei casi di accentuata sensibilità psichica, ma è la questione umana, posta in tutta la sua essenzialità, drammatica e ineludibile, pena l’infelicità, qui e ora. Cosa contribuiva a rendere don Eugenio così straordina­riamente efficace come educatore dei giovani?
Primo, la serietà con cui affrontava la persona: mettendosi in gioco tutto e facendo percepire a chi gli stava davanti che la vita era una questione seria, che bisognava guardare in faccia certe domande, che c’era di mezzo qualcosa di infinito come il desiderio di infi­nito che hai nel cuore. E confermava questa serietà e grandezza del tuo caso, di te che gli stavi davanti (chiunque tu fossi) mettendoti appunto a disposizione tutto di sé, tempo, soldi, affetti, con una ge­nerosità davvero impressionante. Secondo, la letizia. Quella che fa da fondo continuo e inattaccabile della personalità, perché germo­glia continuamente dalla fede. Il suo buon umore e la sua trascinan­te risata erano, di questa letizia, l’aspetto più clamoroso. E poi, ter­zo, l’intelligenza. Che si palesava soprattutto come continua ricerca e difesa della ragionevolezza della fede. E’ questo, credo, che lo fa­ceva progredire nella ricerca teologica e lo rendeva curioso verso tutti gli strumenti culturali. Quand’era assistente di noi studenti di liceo, verso la metà degli anni Sessanta, ebbe ad esempio a che fare con l’ondata di ideologie prorompenti, che di lì a poco avrebbero sommerso e travolto lo spunto buono del ’68, cioè il forte senso di giustizia che animava i giovani di allora. Ci propose subito dei corsi di marxismo, visto naturalmente, e criticato, da un punto di vista cristiano. Ci si trovava il pomeriggio, dopo le lezioni, con un gruppetto nel locale della «Casa dello studente» che fungeva da sede di «Gaunia». Inutile dire che le misure del locale e della stessa benemerita società goliardica cattolica divennero presto troppo strette per quella strana compagnia che cresceva attorno a don Eu­genio. Strana perché metteva accenti imprevedibili di serietà là dove si era abituati alla disinvoltura, e accenti di libertà e di apertura là dove si era soliti essere ligi. E non si sognava neppure di snobbare i costumi goliardici ma ne trasformava l’allegria saltuaria, a poco a poco, in una letizia e amicizia promesse come durature. Qui non si può fare la storia degli inizi di CL in Ticino. Ma non so far di me­glio, per concludere, che citare qualche brano di lettere scritte in quegli anni da don Corecco. Come questo, al padre di uno di noi: «Probabilmente lei è già a conoscenza delle linee di fondo dell’impostazione che è stata data a Gaunia da quando ne ero diven­tato l’assistente: porre ai ragazzi, nel modo più chiaro possibile, i termini del problema religioso, staccandolo in modo radicale da ogni addentellato politico, sia pure indiretto. Così è nato dalla Gaunia il gruppo cui suo figlio ha sempre partecipato. Non si tratta del solito gruppo di amici, che si forma sociologicamente per simpa­tie occasionali, ma di un gruppo nel quale è diventato sempre più chiaro che la ragione ultima della sua esistenza e dell’amicizia reci­proca è la comunione spirituale originata dal fatto di essere cristia­ni». Qualche mese dopo, nel luglio del 1967, da Monaco dove aveva ripreso gli studi di canonistica, scriveva a uno dei suoi ragazzi: «…avete lì un gruppetto di una decina che è meraviglioso. In dieci potete fare cose molto grandi a condizione che siate disposti ad es­sere amici per tutta la vita, dico, per tutta la vita… avete capito? Non è un gioco quello che abbiamo iniziato, è un nuovo modo di vivere. Non lasciatevi spaventare da questa prospettiva, che deve sussistere e continuare quando sarete sposati o missionari o che so io; divente­rà sempre più bello perché sarà una vita vissuta». E così è stato.

Il solco tracciato alla pastorale della carità
DI ROBY NORIS
Direttore di Caritas Ticino

È difficile umanamente credere che adesso il Vescovo Eugenio sia ancora più vicino di prima a tutti noi e alla sua Caritas; dobbia­mo aiutarci chiedendo al Signore di farci fare qualche passo in più per crederlo veramente.
Ricordiamo un grande Vescovo, un grande uomo e un amico.
A Caritas Ticino ha indicato la strada verso il futuro, il solco dentro il quale lavorare per una «pastorale della carità» aperta e adeguata alle sfide del duemila. Più si sviluppava infatti un’organizzazione dinamica, multiforme, efficace sul fronte della lotta alla po­vertà, e più era puntuale e preciso il richiamo del Vescovo allo sco­po di tutto il nostro lavoro. Ci ha insegnato a guardare all’essenzia­le del nostro impegno di solidarietà e di carità che, ci diceva, «non hanno come metro di misura il bisogno dell’altro ma la sovrabbon­danza con la quale Cristo si è manifestato agli uomini». E ripren­dendo la stessa idea fondamentale più volte sviluppata, al convegno del cinquantesimo ci lasciava un sorta di programma parlando di «sovrabbondanza» perché «è limitante guardare all’uomo e valutar­lo a partire dal suo bisogno, poiché l’uomo è di più del suo bisogno e l’amore di Cristo è più grande del nostro bisogno».
In un’epoca dove molte istituzioni socio-caritative cattoliche hanno perso la loro identità specifica e operano solo per risolvere i problemi sociali, il Vescovo Eugenio ha aiutato Caritas Ticino in questi anni a ritrovare la specificità del servizio della carità che non è solo la solidarietà umana, ma la ricerca della verità come risposta esauriente ai bisogni più profondi di tutte le persone. Da lui, che ha avuto il coraggio di fondare una Facoltà Teologica solo con la forza di alcuni amici, noi di Caritas abbiamo imparato ad avere il corag­gio di rischiare, di lanciarci in sfide come ad esempio quelle della lotta alla disoccupazione di lunga durata, dovendo usare bene molti soldi, sempre nel mirino di coloro che non capiscono, siamo stati incoraggiati a buttarci nell’avventura di una produzione televisiva settimanale e in quella di una rivista trimestrale. E fra qualche anno anche una radio, perché il Vescovo ce l’aveva chiesta e gli abbiamo promesso che prima o poi l’avremmo realizzata. Ma tutto questo sempre e solo per affermare che Cristo è il fondamento di tutto: co­struire una società più solidale, più rispettosa della dignità di ogni persona, ma questo nel nome Cristo. Con umiltà, senza pretendere di essere i migliori della classe ma con la convinzione che essere chiamati vuol dire scommettere tutto.
Quale splendida lezione ci ha lasciato da meditare sullo «scan­dalo» della morte, della sofferenza, rendendo la sua malattia fatto pubblico, testimoniandoci tutta la sua profonda umanità e la sua fa­tica di uomo nel cammino di sofferenza, ma nello stesso tempo ren­dendo sempre più lucida e trasparente la testimonianza della verità. La prima volta a Controluce nel gennaio ’94 e poi all’incontro di novembre a Trevano sulla «sofferenza e la malattia» dove parlava di Grazia nella malattia.
Un uomo straordinario capace di un grande rigore e precisione nel richiamarci tutti all’essenziale e alla certezza della Salvezza, e nello stesso tempo capace di accoglierci fino in fondo con tutti i nostri limiti e i nostri tradimenti. Chi ha avuto la fortuna di conoscer­lo da vicino non può che ringraziare il Signore per averci dato que­sto grande amico Vescovo.

Le raccomandazioni d’equità al Tribunale della Diocesi
di Carlo Luigi Caimi
Avvocato, giudice al Tribunale diocesano

Di mons. Eugenio Corecco, grande Vescovo “maestro di dottri­na, sacerdote del sacro culto e ministro del governo” (Can. 375), ma anche esimio canonista e teorico del diritto della e nella Chiesa uni­versale e particolare, è stato detto molto e positivamente – parecchio verrà detto ancora in futuro. Soprattutto la sua straordinaria intuizio­ne riguardo alla necessità di sostituire nella definizione della legge canonica il concetto di “ratio” (ragione) con quello di “fides” (fede), giungendo anzi a definire la legge della Chiesa come “ordinatio fidei”, con il conseguente sviluppo di una vera e propria “teologia del diritto canonico”, sarà sicuramente oggetto di studio e fecondo ap­profondimento anche nella Chiesa del III millennio.
Meno conosciuta, ma altrettanto e forse – per certi aspetti – più importante, è stata un’altra preoccupazione di mons. Corecco quale Vescovo e giurista, quella riservata al “suo” Tribunale diocesano di Lugano (il nuovo Codice di diritto canonico sancisce, infatti, al Can. 1419, che “giudice di prima istanza è il Vescovo diocesano”) e – più in generale – all’applicazione del diritto canonico nella Chiesa che è in Svizzera. Fin dalla sua elezione a Vescovo nel 1986 volle infatti dedicare un’attenzione tutta particolare alla ristrutturazione e al rafforzamento del Tribunale diocesano, alla costituzione (quasi una primizia a livello mondiale) della Commissione per i ricorsi amministrativi e alla formazione di base e permanente dei Vicari giudiziali e dei giudici di tutte le diocesi svizzere.
Ricordo con emozione il giorno di quell’anno in cui mi chiese – insieme ai colleghi Rodolfo Schnyder e Franco Lardelli – di diveni­re i primi “fedeli laici” della Diocesi luganese ad essere costituiti giudici della Chiesa in applicazione del nuovo Codice e delle relati­ve decisioni della Conferenza episcopale svizzera: e come volle ag­giungere, quasi a risposta alla nostra preoccupazione di essere ina­deguati alla carica, che avrebbe provveduto a darci quella formazione che Lui riteneva necessaria per l’adempimento dei nostri compi­ti. A cosa pensasse, l’abbiamo capito poco tempo dopo, allorché – ancora prima della fondazione della Facoltà di Teologia, e quasi a voler sperimentare il nuovo metodo che l’avrebbe contraddistinta dalle altre già esistenti – organizzò a Lugano il “Corso di aggiorna­mento in Diritto canonico matrimoniale e processuale”, tenuto dai più eccelsi canonisti e responsabili della giustizia della Chiesa a li­vello mondiale (come, probabilmente, nessuna Facoltà era mai riu­scita in precedenza a concentrare in un solo corso). Un’esperienza unica, ma non destinata ad essere il semplice arricchimento intellet­tuale dei partecipanti: essa doveva venire messa a disposizione di persone concrete, fratelli e sorelle in Cristo in carne ed ossa, di tut­ti coloro che cercavano nel diritto della Chiesa la soluzione a gravi e delicati problemi, soprattutto in ambito matrimoniale. Una delle sue raccomandazioni preziose fu che il Tribunale della Chiesa luganese giudicasse con speditezza, applicando rigorosamente ma con equità il diritto, tenendo debitamente conto delle peculiarità pasto­rali della nuova normativa canonica. Al centro di tutto: Dio, l’uomo e la donna. E alle persone concrete, figli di Dio in carne ed ossa, dedicò amore, perizia, tempo e attenzione particolari anche quando fu chiamato Lui stesso, in quei casi in cui la normativa canonica ri­serva al solo Vescovo la competenza, a pronunciarsi in materia ma­trimoniale.
Mons. Corecco ha saputo coniugare al meglio il rigore del giurista (caratteristica che talvolta rende poco simpatico l’esperto di diritto al non addetto ai lavori) con l’amore, la disponibilità e l’affa­bilità del vero Pastore. Anche per questo gli dobbiamo riconoscen­za e gli diciamo “arrivederci” nella Casa del Padre.

Un solo indirizzo, sempre: la linea dell’Orizzonte più alto
di Robi Ronza

«Siate forti nella fede»: così s’intitolava la prima Lettera pasto­rale che mons. Corecco pubblicò, come molti ricorderanno, per la Pasqua 1987, e che fu un vero e proprio documento inaugurale e programmatico del suo episcopato. Ed è di tale forza che Eugenio ha dato innanzitutto testimonianza.
Ricordando il Vescovo Eugenio la prima cosa che mi viene da dire è proprio questo: è stato forte nella fede.
Non è il caso – nemmeno nella commozione del momento – di dimenticare che l’inizio del suo episcopato non fu affatto facile. Non solo fuori ma anche dentro la Chiesa, le incomprensioni, i pregiudizi, le prese di distanza talvolta palesi, ma più spesso occul­te, erano molte e anche importanti.
Chi, come me, ha avuto il privilegio di un’amicizia, ed inoltre di una certa dimestichezza, non poteva non vedere che spesso gli toc­cava di procedere con l’aiuto e la solidarietà di pochi, quasi da solo. Eppure di questo non si parlava mai, nemmeno per accenni. E se la cosa gli pesava di certo non lo dava a vedere. Penso però che in ef­fetti non gli pesasse proprio perché appunto era forte nella fede.
Nella sua pastorale della Pasqua 1987, il Vescovo Eugenio aveva scritto tra l’altro: «Da sempre, anzi, fin dai primissimi battiti della sua storia, come documenta ampiamente il Nuovo Testamento, la cristianità ha assistito a molti tentativi di falsificazione della fede. Mentre però le antiche o meno antiche eresie vertevano sui conte­nuti della fede, snaturandone il significato, l’errore di oggi si concretizza in una spaccatura tra la fede e la vita di tutti i giorni».
Eugenio ha predicato, lottato e testimoniato contro questa grande eresia moderna intervenendo in proposito a tutti i livelli: da quello della cultura a quello dell’organizzazione della Chiesa, da quello dello studio teologico e canonico a quello della pastorale.
Nato e cresciuto in una valle ambrosiana, della tradizione di Ambrogio è stato un tipico grande erede. Come Ambrogio ha sapu­to appunto testimoniare esemplarmente il fatto che la fede è un orizzonte significativo per ogni aspetto della vita, e perciò deve farsi sia esperienza che cultura che opera.
In pochi anni, con la fondazione della Facoltà di Teologia di Lugano, prima università della Svizzera Italiana, con il ritorno del Se­minario nella diocesi, ma anche con molte altre analoghe iniziative, tra cui il ripristino del ruolo proprio del Giornale del Popolo, ha piantato il seme di una nuova promettente stagione per la Chiesa ticinese.
Dopo quel primo difficile periodo, si è vista però la solidità della sua posizione, la sua forza nella fede, far sempre più premio sulla pochezza delle riserve da cui dapprima era stato circondato. Più que­sto leventinese di solido ceppo andava avanti con passo regolare sul cammino che si era prefisso e più le sue ragioni venivano condivise, o quantomeno trovavano ascolto e rispetto, e più appariva la fragilità, in fondo la vacua mondanità di tante iniziali opposizioni. Tuttavia, come nei momenti difficili il Vescovo Eugenio non dava segno né di scoramento né di recriminazioni, così quando le cose per cui aveva lavorato si compivano non dava il minimo spazio al compiacimento. Stava lavorando per un Altro, e questo lo metteva al riparo sia dalla delusione che da qualsiasi anche legittimo orgoglio.
In questi suoi anni da Vescovo abbiamo visto la Grazia lavorare dentro di lui, trasformandolo, facendolo crescere in modo evidente verso la pienezza dell’esperienza cristiana, sacerdotale ed episcopa­le. E tutto questo è giunto al suo culmine nel tempo della malattia, che Eugenio ha vissuto in modo del tutto consapevole e consape­volmente cristiano: né come parentesi, né come «tempo grigio», ma come vita da vivere, sperando e pregando per la guarigione, come è umano, ma poi anche accettando l’approssimarsi della mor­te e chiedendo di esservi accompagnato nell’amicizia e nella pre­ghiera non solo della madre, dei parenti e degli amici ma anche di tutti i fedeli della sua diocesi. Vescovo anche in questo.

Il dolore del distacco è dolore, e sarebbe ben strano se non lo fosse. Averlo avuto per amico, per guida spirituale, o in ogni caso quale punto di riferimento di cui tenere conto – come ogni ticinese l’ha avuto – più che motivo di rimpianto deve essere perciò ragione per una più grande responsabilità resa più leggera dalla certezza della sua compagnia. E non della sua soltanto.

«Focolari, senso dell’unità nocciolo del vostro carisma»
di Clara Squarzon
Movimento dei Focolari

Il Vescovo Eugenio Corecco era anche il nostro Vescovo, nel si­gnificato più autentico della parola. La sua partenza ci ha toccato profondamente: è stato il distacco del Padre dalla nostra famiglia.
Le sue non erano parole dettate dalle circostanze e dalla realtà di un cuore preposto al servizio della Chiesa e che quindi ha in sé lo stato di grazia per abbracciare tutte le realtà scaturite nel suo seno. No, era molto, molto di più.
Il suo amore, la sua stima in tutti questi anni è andata crescendo attraverso diversi contatti che hanno rivelato la sua straordinaria ca­pacità di saper cogliere l’essenza del carisma della spiritualità del­l’unità, il dono di cui Dio ci ha fatti partecipi e che in mille modi e sotto mille forme, sosteneva, incoraggiava, promuoveva.
Ha conosciuto personalmente Chiara Lubich durante il Sinodo dei Vescovi sui Laici a Roma nell’87 e non ha fatto mistero della sua ammirazione per lei, manifestandola pubblicamente nelle lettere aperte e pubblicate nel Giornale del Popolo che spediva regolarmen­te da Roma per tenere aggiornata la sua diocesi, quasi volesse portar­la lì, nell’aula sinodale, per conoscere e gioire dei doni che Dio, con i nuovi carismi fa alla sua Chiesa e all’umanità e farle compiere quello scatto che quel solenne momento proponeva a tutti.
Mons. Corecco non ci ha lasciati. Lo sentiamo vivo e presente in mezzo a noi. I suoi incoraggiamenti sono scritti nelle nostre anime e nella mente ed ora risuonano preziosi come il testamento di un Padre.
Rievocarli ci sono ancora oggi di sprone e di aiuto. In occasione della giornata annuale del Movimento nell’89, a cui aveva potuto partecipare per qualche ora diceva fra l’altro ai presenti:
“… io posso dirvi una sola cosa di fondo: lasciarvi legare, vincolare, dalla vocazione che avete ricevuto, che avete dentro di voi. Il vostro Movi­mento è un’emergenza della Chiesa, dell’uomo, in cui la Chiesa si concretizza in modo molto reale. Proponetevi di non lasciarvi scappare più niente della realtà che avete incontrato e di lasciarvi determinare fino in fondo. Perché solo così create l’unita. Voi avete un senso profondissimo del­l’unità che è il nocciolo del vostro carisma. Aderendo al Movimento aderite alla Chiesa e attraverso questo incontro la vostra adesione è reale, e non è quella astratta ed ideologica…”
Anche nel ’91 lo abbiamo visto arrivare tra noi, dopo una gior­nata intensa di incontri e di appuntamenti. Il suo discorso, scaturito dall’accoglienza e dall’atmosfera che si era creata durante tutta la giornata, metteva in evidenza la coscienza e la responsabilità di cia­scuno dei presenti di captare in profondità il dono dell’unità:
“Il Signore manda dei profeti – diceva – poi il Figlio. Dopo Gesù Cri­sto ha continuato a mandare i carismi. E’ come se venisse un profeta del Vecchio Testamento – nei movimenti – che richiama la gente a non imita­re quello che fanno gli altri, ma ad essere diversi, a non accettare quella frattura fra la loro fede e la loro vita. E voi dovete essere immensamente grati al Signore di aver incontrato il carisma del vostro movimento. Par­tecipare al carisma di una persona o di un movimento vuol dire vivere noi stessi in forma profetica. Abbiamo la responsabilità non solo di seguire, ma di essere, di diventare, di vivere dal di dentro questo fatto di essere stati afferrati da Cristo. Da quando avete ricevuto il battesimo, il fatto più im­portante è quello di aver incontrato il Movimento, attraverso il quale vi­vete l’esperienza di Chiesa. La vostra profezia deve essere prima di tutto la profezia dell’unità tra di voi che deve essere grande e per la quale dove­te sacrificare tutto perché l’unità è il valore supremo. E la seconda forma di profezia è la fedeltà, perché il Signore è fedele…
Numerosi messaggi, lettere gli arrivavano dai membri della no­stra famiglia che lo rendevano partecipe di quei passi, scoperte e grazie che andavano ricevendo attraverso gli incontri vissuti. Ed egli rispondeva con sorprendente sollecitudine a grandi e piccoli, dando modo a ciascuno di sperimentare la gioia di una comunione sempre più profonda e ricca con la sua persona.
Una lettera preziosa la conservano le Gen (Gen = Generazione nuova), che da Castelgandolfo gli avevano scritto infiammate dal loro congresso internazionale. Di proprio pugno, anche se gravemente ammalato, risponde:
“Carissime Gen, mi avete comunicato tutta la gioia di lasciarvi pren­dere sempre di più dal Signore ed io, non solo ringrazio, ma sono felicissi­mo, per e con voi. Ora che siete di ritorno e già entrate nel circuito secolarizzato della società, la cosa più importante che dovete fare è quella di rimanere fedelissime ai momenti di formazione e a tutti gli incontri Gen. Senza questa fedeltà è praticamente impossibile non farsi risucchiare dalla mentalità di questo secolo. Vi benedico con affetto.
Alcune signore impegnate nel Movimento nel luglio ’94 gli han­no assicurato la loro unità nel particolare momento che stava attra­versando ed egli, dopo qualche tempo, rispose: “Sarò in ritardo, ma il vostro biglietto di affezione, nella garanzia della vostra costante pre­ghiera, rimane sempre attuale. Chiara mi scrive dei pensieri bellissimi e voi siete fortunatissime di averla (ma l’ascolto anch’io nella profondità del mio cuore) come guida e madre nella fede.
Grazie, Vescovo Eugenio, per quanto ci hai voluto e ci vuoi bene!

L’attaccamento ad Airolo il paese delle radici
di Mauro Chinotti
Sindaco di Airolo

Ad Airolo, dove mons. Vescovo era nato e cresciuto, c’è una lun­ga scia di ricordi. Ognuno ha un incontro, un episodio, un’emozio­ne, un incoraggiamento nella memoria.
Divenuto Vescovo nel 1896, malgrado i numerosi e gravosi im­pegni, tornava ad Airolo appena possibile per far visita alla madre, ai suoi parenti, ai moltissimi amici. Amici che serberanno di lui un perenne ricordo. Nonostante fosse appartenuto a una piccola co­munità come la nostra, la sua figura ha varcato i confini nazionali, diventando uno tra i maggiori specialisti in diritto canonico.
Amante della montagna, specialmente di quelle vette che cir­condano il nostro villaggio, in occasione del Settecentesimo della Confederazione, per sua esplicita volontà, desiderò fosse organizza­to un pellegrinaggio al San Gottardo, reintroducendo così un’anti­ca usanza che vedeva confluire sul Passo rappresentanti di diverse comunità, dalla Leventina alla Val Formazza, da Goms a Disentis.
Quel 1° agosto 1991 seguimmo in molti il nostro Vescovo fin sul passo, dove egli celebrò una Messa.
E proprio per sottolineare l’attaccamento del Vescovo alla no­stra gente e alle nostre montagne la comunità airolese donò a mons. Corecco il Pastorale con incastonato un cristallo del San Gottardo con l’effìgie del Santo.
Dall’inizio dell’aprile 1992, quando si è appreso della sua malat­tia, gli airolesi, profondamente toccati, si sono stretti idealmente a lui, fiduciosi che la forte tempra valligiana avesse la meglio sul male.
Nella mente di ogni airolese, il ricordo più bello legato a mons. Vescovo rimarrà sicuramente quello della Messa e del sucessivo in­contro sul sagrato della chiesa parrocchiale, dopo la nomina a Vescovo della Diocesi di Lugano. L’emozione era palpabile tra i nu­merosi presenti che si chiedevano: «Come dovremo rivolgerci a lui, forse monsignore, forse eccellenza, di certo non sarà più possibile chiamarlo don Eugenio». Ma la sua schiettezza e la cordialità del saluto rivolto a ognuno dei presenti, con un caloroso e tipico della parlata airolese «Ciao, ti ve ben», misero tutti a proprio agio. Sem­pre, prima da sacerdote e poi da Vescovo, quando usciva di chiesa, si intratteneva con la sua gente, ascoltandone problemi, ansie e de­sideri, sempre pronto a dare una parola di conforto.
Per la nostra comunità la perdita di mons. Corecco, di don Eu­genio, lascerà un vuoto incolmabile, ma nel contempo rimarrà in­delebile il ricordo del suo sorriso, della sua umanità e della sua grande intelligenza.

Il primo incontro col Vescovo a Friborgo
di Fiorenzo Dell’Era

Quel sabato pomeriggio pioveva a dirotto. Don Eugenio non si trovava nella sua abitazione di Friborgo, in avenue de Gambach 21, una strada tranquilla, piena di verde, sulla quale si affaccia la leggia­dra abitazione della comunità di studenti in cui fino ad allora aveva vissuto. Era andato a celebrare la Messa; sarebbe però arrivato pre­sto sia perché informato del nostro arrivo, sia perché l’attendeva ancora una serata di festa. Giunse di fatti poco dopo, verso le 17, con ombrello e impermeabile. Era piuttosto bagnato per l’acquaz­zone, ma soprattutto visibilmente commosso. La compostezza con cui era noto quale illustre professore di diritto canonico era stata superata dall’emozione. Proprio quella mattinata, il 7 giugno 1986, il Vaticano aveva annunciato la sua elezione a Vescovo di Lugano.
Accolse me ed Ely Riva, il fotografo del GdP che mi accompagnava, con un luminoso sorriso e una calorosa stretta di mano. Non nascondo che una tale cordialità, per niente affettata bensì chiaramente sincera, in un certo senso mi stupì, mettendomi ancor più a mio agio. L’avevo già incontrato in altre occasioni ma non eravamo andati al di là dei convene­voli. Così m’era rimasta impressa la figura (costruita più che altro su certe voci che allora circolavano) d’un austero cattedratico, di poche parole.

Allo specchio della TV

Invece quel prete inzuppato di pioggia, neppure tanto alto, a noi che eravamo destinati a diventare fedeli del suo gregge e pure “suoi dipendenti”, ci fece un’impressione più che positiva. Parlava sì lenta­mente, misurando le parole, ma non aveva quella severità di cui ave­vamo sentito raccontare. Ci fece passare nel suo studio non senza qualche difficoltà, perché nella sala, pur spaziosa, c’era di mezzo un pianoforte che già era servito a sottolineare l’avvenimento e che avrebbe suonato ancora e più a lungo quella sera. In quel momento c’era silenzio; ma era forse l’unico momento di tranquillità in una giornata festosamente convulsa fra visite, telefonate e telegrammi.
Era appena partita anche la squadra della Televisione della Svizzera italiana che di lì a qualche ora avrebbe trasmesso il servizio. E difatti lo guardammo tutti insieme di lì a poco, quel servizio: don Eugenio, gli studenti e noi. Era importante perché, in un certo senso, si tratta­va della prima presentazione in assoluto del nuovo Vescovo alla sua Diocesi e all’intero Ticino. I commenti, in avenue de Gambach, fu­rono di generale soddisfazione per com’erano andate le riprese.

«Aggiungeteci un’Ave Maria»

Durante l’intervista (che il lunedì successivo uscì occupando un’intera pagina sul GdP), parlammo di molte cose: della sua situa­zione personale, dello stato d’animo con cui si accingeva ad assu­mere questo nuovo e importante compito, del suo predecessore mons. Ernesto Togni e del futuro della Diocesi. Don Eugenio ri­spose con calma e riflessione, cercando di metter da parte il lin­guaggio dotto cui era abituato negli ambienti universitari, per tra­durre ogni concetto in termini divulgativi, così come si conviene ad un Vescovo che voglia essere davvero il Pastore di tutti.
«Accetto con entusiasmo questo dono di Dio» ci disse nel corso della con­versazione, durante la quale non mancarono nemmeno le domande allo­ra scottanti, soprattutto inerenti a quella certa parte dell’opinione pubbli­ca che pensava alla scelta del nuovo Vescovo in termini «politici». «Se posso esprimere un desiderio – ci rispose – è che i cattolici ticinesi facciano uno sforzo per rendersi conto dell’importanza della nomina di un Vescovo, nel caso particolare della nomina di quello della nostra Diocesi, dell’importanza che ha per la fede di ciascuno. Perché la nomina di un Vescovo vuol dire la riaffermazio­ne del fatto che senza il Vescovo non e possibile vivere l’esperienza ecclesiale nella sua totalità. Come è vero pure il contrario: l’immagine del Vescovo senza i fedeli non ha significato, il Vescovo è per loro, senza di loro sarebbe un soprammobile».
L’intervista si concluse con un aperitivo in compagnia e l’invito a restare per la cena. Ma il collega fotografo ed io non potevamo trattenerci. Stringemmo dunque un’ultima volta la mano a don Eugenio e proprio allora mi venne spontaneo chiedergli: «Cosa si deve dire al nuovo Vescovo?». E lui rispose: «Grazie degli auguri, aggiunge­teci un’Ave Maria». Gliela diciamo, di tutto cuore, anche oggi.

Nel mondo del lavoro a fianco degli ultimi
di Camillo Jelmini
Presidente dell’OCST

Al di là dei vincoli di profonda amicizia che mi univano personalmen­te a mons. Corecco, già all’epoca degli studi, e che continuarono ad espri­mersi in molteplici occasioni, vorrei ricordare la sollecitudine del Vescovo verso l’Organizzazione cristiano-sociale e il mondo del lavoro in genere.
In occasione del congresso cantonale del 1987, mons. Corecco rivolse ai delegati dell’OCST l’augurio che il rinnovamento del movimento sinda­cale potesse attuarsi nel solco dell’insegnamento sociale della Chiesa, affinché le nozioni di giustizia, solidarietà, dignità della persona umana non perdessero nella nostra azione ogni rilevanza specifica cristiana.
Il concetto fu magistralmente ripreso nel suo poderoso intervento in occasione del centesimo anniversario della Rerum Novarum, a dimostra­zione della validità e dell’attualità dell’insegnamento del magistero. Oltre a questi importanti interventi, destinati a rimanere nella storia del movi­mento cristiano-sociale, la presenza del Vescovo si manifestò in puntuali ricorrenze. Cito la sua celebrazione della S. Messa davanti alle porte della Monteforno, nel marzo 1994. Erano momenti di tristezza e di angoscia per tutta la regione, la popolazione e i lavoratori. Mons. Vescovo, dopo aver richiamato alle loro responsabilità i detentori del potere economico, diede prova di conoscere e di condividere le ansie, le attese e le speranze di tutti. In particolare ai lavoratori direttamente coinvolti, volle esprime­re la sua solidarietà e infondere coraggio per affrontare la strenua lotta nella difesa dei sacrosanti diritti e nell’attuazione della giustizia.
Sappiamo che era intenzione del Vescovo creare un adeguato spazio nella Facoltà di Teologia per la dottrina sociale. Lo ricordiamo come Pastore colto e leale, efficacemente e realmente proteso alla salute delle anime. Egli sapeva, nella sua azione pastorale, rivolgersi ai lavoratori con linguaggio semplice e contenuti vigorosi. Il ricordo di mons. Corecco sarà accompagnato nel cuore dell’OCST con profonda gratitudine.

Dalla Cattedrale di Evry alla chiesetta di Mogno
di Mario Botta
Architetto

Ho incontrato ancora poche settimane fa il vescovo Eugenio. Era un incontro fra amici, con Renato Antonini e Gianluigi Dazio, nell’intento di parlare del progetto della chiesa di Mogno. Era un bel pomeriggio di piena grazia, dove nessun segno esteriore lasciava apparire il male che attanagliava monsignor Vescovo. Ho incontra­to un uomo combattivo, pieno di progetti e d’iniziative. Il discorso si è subito allargato ai temi d’interesse comune: era la Cattedrale di Evry che lo incuriosiva nei suoi lavori di finitura, era la Facoltà di teologia, sulla quale ritornava, quasi un leit-motiv, dove forse intra­vedeva un possibile aggancio a quell’intento umanistico che sottin­tende anche il progetto di Accademia di Architettura, e da ultimo era questa chiesetta di Mogno, così chiacchierata, ma anche così desiderata.
E ancora una volta il Vescovo ci incitava a continuare, esprimeva perfino, oltre l’augurio, la volontà di partecipare economicamente, nella piena convinzione che anche questo piccolo segno fosse una testimonianza, in termini positivi, del nostro tempo e del suo ope­rare. Ora tutto mi sembra molto lontano, ma resta nel ricordo, al di là del mistero della morte, quella Sua voglia di combattere e di te­stimoniare fin dove le sue forze glielo hanno concesso.

Una ventata di speranza fra i tavoli dell’ospedale
di Angelo Frigerio

In occasione dell’inaugurazione del nuovo Ospedale della Beata Vergine di Mendrisio, nel 1991, il presidente del Consiglio ospeda­liero avv. Vittorio Meroni-Carlovingi invitò, fra gli altri, anche le mie nipotine alla cerimonia del taglio del nastro, quali «vallette» del presidente dell’Ente ospedaliero cantonale avv. Jelmini, e que­sto perché il loro papà, da poco scomparso in giovane età, faceva parte di quel Consiglio.
Prima del pranzo ufficiale allorché, seduto un po’ discosto dal tavolo d’onore con la nuora e le nipotine, si riviveva insieme com­mossi i momenti tristissimi che il luogo e la ricorrenza ci avevano suscitato, mons. Vescovo, improvvisamente, venne a sedersi fra di noi porgendo con semplicità parole piene di commovente solidarie­tà e di profonda umanità, arrecandoci una ventata di sollievo e di speranza.
L’aver voluto, in quella circostanza, conoscere mia nuora e le bambine, per un colloquio così spontaneo e umano – e ricordo che rimase a lungo con noi, nonostante le reiterate e insistenti sollecita­zioni a recarsi al tavolo d’onore, dove lo si aspettava per dare inizio al pranzo – è stato un gesto che mi è rimasto impresso nel cuore poiché in quel momento avevo percepito come mons. Eugenio Corecco fosse anche e essenzialmente un uomo di grande cuore, dota­to di quella stimolante umanità che non posso che auspicare possa servire da esempio, nel dipanarsi quotidiano del nostro vivere per ognuno di noi, per quel significativo comportamento esistenziale che è comprensione e amore per il prossimo.

E nell’alluvione, Locarno scoprì di non essere più isolata
di don Ernesto Storelli
Arciprete di Locarno

Settembre 1993. Mentre Locarno è sommersa dall’acqua, il se­gretario della Curia mi annuncia che il Vescovo Eugenio Corecco arriverà nel tardo pomeriggio per una visita. Alla Sacra Famiglia è subito attorniato da una piccola folla di gente del quartiere. È sorri­dente e col suo sorriso riesce a dissipare almeno per un momento le preoccupazioni di tutti. Una barca è legata a un palo della luce; chiede se è a disposizione. Con fatica – la sua colonna vertebrale era fresca di operazione – si imbarca e gentilmente il guardiapesca lo guida attraverso i quartieri allagati. Molta gente lo saluta dalle pas­serelle. Le suore di Santa Chiara lo rendono partecipe delle loro preoccupazioni. Giunto in Piazza Grande si unisce alla gente. Ac­cetta un caffè e telefona al Giornale perché venga lanciata una col­letta in favore di chi è stato colpito dall’alluvione.
Il Vescovo riparte per Lugano, ma noi di Locarno lo sentiamo più vicino di prima. Le acque continuano a salire, ma il Vescovo ci ha fatto scoprire di non essere più isolati.

Ci ha insegnato a vivere, a soffrire ed a morire
di Gianni Ballabio

La sofferenza appartiene al vivere, come la gioia, l’amore, la spe­ranza. Cammina sulle nostre strade e dentro il nostro cuore; ha volti diversi; anche quello della malattia. Forse il più comune. S’annida nel corpo, intacca, distrugge. Percorre itinerari semplici e strani, misterio­si e reali, scrutati ma non sempre capiti. È silenzio, paura, anche attesa. Nonostante tutto. Porta solitudine, delusione, illusioni, ansie, rim­pianto, voglia di guardare indietro; eppure stimola a guardare avanti.
Il Vescovo Eugenio Corecco l’ha presentata usando “parole in­solite” rispetto al nostro comune pensare. L’ha definita: strada profetica che prepara a morire; cammino che anticipa le tentazioni della morte e aiuta a combatterle; una grazia. Ci avvicina al Signo­re, ci fa scoprire il valore del tempo, riempie la solitudine del no­stro cuore, che si rivolge a chi solo può rispondergli.
Il nostro Vescovo ha avuto cattedre importanti, ha insegnato nelle università, ha portato la sua parola alla sua gente, dalla catte­drale alle varie chiese delle nostre parrocchie. Alla fine, a compimento e coronamento della sua missione, ha insegnato la “materia più comune al nostro cuore e più difficile da accogliere”: il dolore.
Ed è stato un maestro stupendo e pedagogicamente perfetto, perché ha insegnato direttamente con la vita, portando la sua esperienza. Con la cro­ce: dall’accettazione del Getsemani all’offerta del Calvario. Accogliendo e vivendo la malattia, fino a riconoscerla una grazia. Come affermato con semplicità e serenità a Trevano, la domenica 27 novembre 1994, nell’in­contro promosso da Caritas: “la malattia è una grazia: bisogna saperlo dire nel modo giusto e nel tempo opportuno. Bisogna far capire a una persona che sta cambiando, che può cambiare. Di fronte a un ammalato, anche a un ammalato terminale, dobbiamo riuscire a dirgli questo: “la malattia ti ha cambiato, per cui il Signore ti ha dato una grazia”.
La ricchezza assoluta di questo insegnamento sta soprattutto nel fatto che queste parole non venivano da un ambone qualsiasi o da un bel libro, ma sgorgavano direttamente dalla sua esistenza attac­cata dalla malattia, dal suo corpo provato, dal suo cuore, che viveva fino in fondo questa esperienza, verso la morte.
E la gente, credenti e non, ha colto il messaggio: perché la comu­nicazione era chiarissima, viva, aperta, sincera. Sgorgava dalla vita, dalla sua vita. Ne faceva parte. Della malattia non ha mai fatto miste­ro, anzi ne ha parlato apertamente, come alla trasmissione televisiva, “Controluce”, la sera del 23 gennaio 1994, o a Trevano nell’incontro ricordato. Anzi ha vissuto la malattia in funzione della sua missione di Vescovo e pastore. Il 14 gennaio 1994 aveva inviato una lettera alla Diocesi, precisando la sua nuova situazione, e collegandola al suo compito di Vescovo: “Di ciò sento di informarvi – aveva scritto – sia perché la malattia non è un fatto da nascondere, bensì da saper vivere con grande consapevolezza nella prospettiva della conversione perso­nale, sia perché l’aiuto che mi potete dare con la preghiera e il vostro rinnovato impegno pastorale personale è molto grande”.
Aveva rinnovato questo invito nel messaggio natalizio del dicem­bre 1994, alla vigilia di partire per l’Inselspital di Berna per un nuovo intervento chirurgico: “Sono sicuro, cari fedeli, che l’immenso patri­monio di preghiere da voi accumulato in questi anni, per aiutare il vo­stro Vescovo, sarà anche questa volta estremamente efficace. Proprio in forza di questa certezza faccio il possibile per accettare dal Signore questa nuova difficoltà. Sono però altrettanto sicuro che l’aiuto che vi apprestate a darmi avrà un risvolto benefico anche per voi stessi, le vostre famiglie e tutta la cerchia delle persone che vi sono più care”.
Ha insegnato, con la sua malattia, ad accogliere il Signore, a dirgli di sì. Aveva detto all’incontro di Trevano: “Più che pregare il Signore perché sia fatta la sua volontà, lo preghiamo di accogliere la nostra ri­chiesta, di fare la nostra volontà. Il che non è illecito: infatti possiamo chiedere al Signore la grazia di fare quello che noi vorremmo si com­pisse, ma con la riserva che la cosa più importante per noi è comun­que che si compia la volontà di Dio”. E parlando della morte: il pro­blema è quello di saperla vivere, dicendo di sì al Signore, dicendogli “sono disposto a venire”. Aveva presentato la malattia in funzione di questa accettazione: “ci prepara a morire, perché nel corso della ma­lattia ci ritroviamo quasi nella stessa situazione della morte”. E ribadi­va: “la malattia ci prepara a morire”, perché “quello che dobbiamo au­gurarci tutti è di essere pronti a dire al Signore il nostro sì”. Fino ad affermare per questo che “la malattia è una grazia”. Infatti “cambia il nostro rapporto con il Signore. Ci fa vivere il tempo in modo diffe­rente, con una intensità diversa, non più in rapporto a tutte le cose che dobbiamo fare, ma rispetto alla esperienza esistenziale della no­stra persona”. Un insegnamento intenso, vissuto prima di essere co­municato e per questo estremamente efficace. “La malattia, se vissuta bene, è il momento pedagogico all’interno della vita umana che me­glio di tutti gli altri ci può aiutare a capire chi siamo noi, chi è Lui, e quanto più grande sia Lui. In effetti, per l’esperienza che faccio, ma prima di tutto per quanto ci rivela il Vangelo, la malattia ci fa capire se siamo disposti nella vita a compiere veramente la sua volontà”. Perché la condizione essenziale è questa: “accettare la malattia”. Infatti “la prima cosa che dobbiamo fare quando siamo malati è quella di accet­tare la situazione davanti al Signore, per lasciare che questa situazione nuova della nostra esistenza esplichi tutti gli effetti benefici, tutte le conseguenze benefiche che magari il mondo non condivide”.
Aveva scritto nel suo ultimo messaggio natalizio: “La difficoltà maggiore, del resto, non viene mai dalla sofferenza fisica e morale in quanto tale, bensì dall’accettare la malattia come un segno della presenza di Dio nella nostra vita. Di fronte a questo segno siamo invitati a pronunciare il nostro “sì”, come ci invita a fare la preghie­ra modello del cristiano, il Padre Nostro: sia fatta la tua volontà”.
“Mi sono accorto – aveva detto nell’ottobre 1994 al convegno dell’ATTE a Lugano – che, in questa situazione, l’essenza della vita si è concentrata, assumendo uno spessore esistenziale molto più forte di prima”. Aggiungendo subito: ” è inevitabile per un credente in queste situazioni della vita, pensare alla sua origine, stabilendo un rapporto più intenso, in mezzo al volto delle cose di tutti i gior­ni, con il Signore, dal quale sa di dipendere nella sua esistenza”.
Perché nella malattia “uno sente la propria finitezza e da questa finitezza capisce che c’è una sola Persona, che può riempirla, per­ché questa Persona è Qualcuno più grande di lui, è Colui che ci ha dato la vita”.
Se il momento della morte è il momento più importante della vita, il Vescovo Eugenio ci ha insegnato la cosa più importante: ci ha insegnato a morire e come prepararci a morire. Ce l’ha insegna­to con la sua malattia e con la sua morte. Insegnandoci a morire, ci ha insegnato a vivere.

Più coscienti, dunque, più vivi
di Pietro Ortelli

Sono uno dei tanti che la morte del Vescovo ha lasciato un po’ più solo. Ma è poi così vero? Se in molti ci accorgiamo del vuoto che si è aperto – in noi che siamo rimasti a terra – e ci ribelliamo, nello stesso tempo avvertiamo la ricchezza del suo lascito spirituale, la consistenza del suo ultimo insegnamento, e ci sentiamo più co­scienti, dunque più vivi.
“Nelle rovine del tuo aprile anche il Cristo giace morto”, scrive­va Thomas Merton nella poesia dedicata al giovane fratello caduto in guerra alle Midway. Nelle rovine degli ultimi mesi e giorni della tua malattia si è rinnovato per noi il mistero della Croce. Il dolore ha un senso – ha detto un altro maestro dei nostri tempi, don Giussani, a un convegno della Comunità Incontro – perché il desti­no ultimo della persona è la felicità. “Se il dolore fosse un’obiezione al vivere, lui [Cristo] non avrebbe dovuto portare il dolore. [Egli è] l’unico, dunque, che nella storia del mondo gridi agli uomini, im­perterrito, sempre, come ultima sua parola: siete fatti per la felicità, la felicità vi attende, il vostro destino è un destino di felicità… Se alla fine c’è la felicità, qualsiasi strada dolorosa è giusta, perché fini­rà nella felicità per sempre… Perché senza la certezza che ci aspetti la felicità, sarebbe inutile agire e vivere, sarebbe ingiusto che nostra madre ci avesse fatto nascere”.
Parole? Ma è proprio perché non siano solo parole che davanti ai nostri occhi increduli si è disegnato lo spettacolo della tua testi­monianza, libera da accenti clericali o da parole – appunto – di cir­costanza, così trasparente e nitida (nella sua drammaticità) da essere tale non solo per il credente, ma per chiunque vi guardasse con sguardo limpido e leale. In settembre gli avevo scritto, riferendomi all’intervista televisiva nella quale aveva parlato della sua malattia: “Non ho timore di dire che è stata una cosa straordinaria sotto molti aspetti, ma principalmente perché comunicava quanto la fede avesse trapassato, dall’interno, l’esperienza che stavi facendo: la­sciandola essere quello che era – ossia l’esperienza di una malattia grave – e nello stesso tempo trasformandola. Ma senza sovrapporsi ad essa, senza evacuarne il carattere di sfida. In una parola: era evi­dente (scusa se te lo dico e chi sono io per dirtelo?) che nella malat­tia eri cresciuto come uomo, e che adesso eri più grande. In prece­denza mai avevo sentito in te una tale autorevolezza, una tale consi­stenza, una tale forza”.
Trascrivo parte della sua risposta. “Certo, la malattia mi ha fatto maturare nella fede. Il primo impatto è stato quello del dover svanire nel nulla e ho gridato all’ingiustizia. Ma ho ricuperato pensando che per un cristiano vero l’incontro con il Cristo dopo la morte dovrebbe essere una gioia. Magari sono solo a metà strada tra la ribellione e il desiderio di incontrarlo, ma la mia prima preghiera è quella di otte­nere la grazia di saper morire con una fede compiuta. Ma quella che viene subito dopo, ed è uguale alla prima (come il comandamento di amare Dio e il prossimo), è quella di guarire… Hai ragione, sotto la fede è presente un baratro che se non siamo cauti ci inghiottisce. Ma è soprattutto la fede solo intellettualizzata ad essere veramente in pe­ricolo. Devi (come faccio anch’io) imparare a pregare. Perché la pre­ghiera è come l’amore, vincola anche la nostra affettività e di fronte a Cristo che è una persona non possiamo porci in modo solo astratto. Deve nascere un rapporto con lui, non solo mediato dalla nostra ap­partenenza alla Chiesa, ma anche diretto. Solo la consuetudine di questo rapporto della nostra persona con la sua ci dà la garanzia della non interrompibilità del rapporto”.
Certamente mons. Corecco ha ottenuto la grazia che chiedeva. Lo attestano i racconti dei suoi ultimi giorni: l’intervento di padre Mauro, la commovente omelia di mons. Maggiolini in Cattedrale.
Come sembra astratta e banale l’osservazione che Voltaire rivol­geva ai cristiani: voi non dovreste aver paura della morte, ma desi­derarla, perché vi attende il paradiso. A parte il fatto che in qualche caso particolare di santità, ma non in tutti i santi, anche quello è possibile (S. Teresa: “muoio perché non muoio”), come dimenticare che anche Cristo ha pregato perché non gli fosse porto il calice del dolore e della morte?
Voltaire si sbaglia (come quasi sempre quando parla del Cristia­nesimo). Nella fede si incontra con Cristo l’uomo con tutta la fragilità e l’incompletezza di cui è impastato. Il miracolo (ma è un miracolo che il più umile dei cristiani sperimenta) è che in questa fragi­lità prende corpo una speranza forte e sicura, fondata su un inizio di vita nuova sperimentabile. Vediamo le cose, dentro la nostra finitezza, come in uno specchio, ma le vediamo già nella prospettiva giusta.
Il Vescovo ha testimoniato, soprattutto ai sofferenti, ma a tutti, come la fede, senza annullare il dramma della malattia, possa tra­sformarlo e salvare compiutamente, anzi promuovere, la realizzazione della propria umanità. La sua tenacia, la capacità e volontà di lavoro che ha saputo conservare in questi ultimi anni, l’eroismo con il quale ha risposto alla prova, contribuiscono e contribuiranno a mantenere acceso in molti il desiderio di spendere bene la vita, e ci aiuteranno a mantenere lo sguardo fisso sull’ideale.
Siamo un po’ più soli. Ma forse anche un po’ meno soli: perché sei tra coloro che ci indicheranno per sempre la strada: dunque continui ad essere una presenza. Mi vengono in mente, e le metto qui, le parole conclusive della lirica di Thomas Merton: “Addio fra­tello, addio in eterno”

La malinconia a cena e il rimpianto del poker
di Matilde Casasopra

784. Un numero che segnala un canto. Le macchine incappuc­ciate e i fari spenti della televisione che occhieggiano tra le colonne delle navate. La gente che entra alla spicciolata. Un cero acceso accanto al pastorale in legno. Le sedie vuote ai due lati dell’altar mag­giore. Le campane che, puntuali, iniziano a suonare alle 9. Il porta­le che s’affaccia sulla navata centrale si spalanca. Un cigolio di ruo­te. Rumori di legno e metallo. Ai piedi dell’altare, condotta in pro­cessione, c’è, ora, la conferma: Eugenio Corecco, Vescovo della diocesi di Lugano, è morto.
Strana la morte, strana davvero.
Strana quando la si chiama «sorella». Strana quando il suo nome diventa parafrasi e si trasforma nel «male di vivere».
La morte. Ne avevamo parlato quel giorno, il Vescovo ed io. Lui stava già male. «Però non ci penso, al mio male. Ci sono i me­dicamenti che alleviano la sofferenza, e poi c’è l’affetto della gente, di tante persone meravigliose che mi fanno sentire davvero parte di una famiglia». Il Vescovo. L’avevo lì, davanti a me. Mi parlava del viaggio in Polonia. Ci andrà anche lei? Gli avevo chiesto. «Certo – mi aveva risposto – e con me ci saranno diversi amici». Era felice, il Vescovo. Ma, si sa, un microfono capta suoni, non emozioni. Non può, un microfono, registrare le vibrazioni di un’anima. Non può nemmeno registrare un sorriso. Però quel giorno, col Vescovo, c’era stato spazio anche per qualche sorriso. Si era sorriso della pre­sunzione di onniscenza che accomuna i mediatori delle informazio­ni. Si era sorriso del mio imbarazzo di trovarmi lì, davanti al Vesco­vo, in una sala spaziosa e solenne, ma così fredda, così scostante. «Sì, non è molto accogliente, ma lei non ci faccia caso». Monsigno­re, lei qui non può cambiare niente? «Non so. Se dovessi cambiare qualcosa cambierei la sala da pranzo. Quando, la sera, mi trovo a cenarvi da solo… Sì, provo un briciolo di malinconia».
Solo a questo punto riuscii ad abbandonare il limitare della seg­giola per occupare tutto il sedile, Lui, il Vescovo, se ne accorse su­bito e, sorridendo, mi chiese: «E’ più comoda, adesso?!?». Sentii il color papavero salirmi su su, fino alla punta dei capelli. «Sì, sono più comoda» gli risposi mentre lui sorrideva e mi raccontava della sua vita tra quelle mura, dei suoi progetti, della sua università, della sua malattia. Senta, monsignore, potrò chiederle della sua malattia anche a microfono acceso? «Lei chieda pure. Io le risponderò. Per­ché vede, se la gente sente parlare della curia, subito pensa a qualcosa di pedante, di negativo, ma se sente parlare del Vescovo sente parlare di una persona viva, che è ammalata, e allora si crea una co­munione profonda, che va al di là del credo, ma che è la vera essen­za del rapporto ecclesiale».
Fu così che accesi il microfono, tra mille pasticci dovuti a un cocktail di emozione e mancanza di dimestichezza con la tecnica. E quando, dopo un cenno alla sua passione per il poker, lo chiusi, il Vescovo mi guardò e, sorridendo, mi disse: «Questa domanda, però, non me l’aveva preannunciata». Già, non gliel’avevo prean­nunciata.
Quando però ho risentito la sua risposta, sono stata felice di avergli chiesto se giocava ancora a poker. E ho provato un briciolo di malinconia, sorella, forse, di quella che lui, talvolta, provava la sera, quando cenava solo.
Arrivederci, Vescovo Eugenio. Arrivederci.

L’ultimo incontro sul Tamaro nel cuore dei giovani
di Giuseppe Zois

Un pomeriggio di giugno, una montagna, una folla di giovani giunti da ogni parte del Ticino. L’elicottero si avvicina alla vetta del Tamaro, compie un girotondo festoso, come una libellula si posa leggero sulla pista. Scendono il Vescovo mons. Eugenio Corecco, accompagnato dall’Arcivescovo di Praga, mons. Miloslav Vlk. Si alza un lungo, commovente applauso all’indirizzo del Vescovo Eu­genio, che ha voluto sfidare la malattia, il dolore, il parere dei medi­ci pur di non mancare all’appuntamento annunciato con i giovani. Si festeggiano i dieci anni di un incontro che è già diventato una tradizione: ha la freschezza dei giovani e la pienezza dell’età matura. Dieci piccoli grandi anni. Tutti ai piedi di una statua che è già storia: la Madonnina donata da Papa Wojtyla.
Ragazzi, adolescenti e giovani hanno salito un gradino sulla sca­la della vita. Le scuole vanno a chiudere, un anno è trascorso, un passo avanti sulla strada della crescita. E’ un’esplosione di colori, di gioia, di entusiasmo attorno a quei due Vescovi, che sono portatori di esperienze forti e convergenti verso l’unico punto d’approdo, la fede. Corecco ha forzato i tempi d’uscita dall’ospedale, dove ha sopportato un nuovo intervento chirurgico. Il male è impietoso ma il Vescovo non si rassegna. S’è messo la giacca a vento di quando andava in montagna con i suoi studenti e il basco: non bisogna mai stare in basso, ma cercare di avvicinarci alla cima, cioè al Signore.

Un messaggio dritto al cuore

C’è una carica simbolica che pervade tutti e tutti capiscono il messaggio del Vescovo, che va dritto al cuore. Miloslav Vlk ha camminato per anni all’ombra della croce che le autorità marxiste cecoslovacche hanno posto sull’itinerario di ogni cristiano. Dal 1964, quando il futuro Arcivescovo e Cardinale entra in seminario, è un sentiero impervio, ma c’è la certezza dell’accompagna­mento di Dio, della sua presenza nella vita, dell’amore che aiuta a vincere ogni ostacolo, anche la prova di dieci anni mimetizzato come lavavetri. La fede lo accompagna con la sua pace. La stessa fede che ora dirige i passi di questi due Pastori circondati da cen­tinaia di giovani.
La testimonianza e il ricordo di monsignor Miloslav Vlk per il Vescovo Eugenio partono proprio da quel giorno, che è rima­sto impresso come un’esperienza indimenticabile in mons. Vlk, diventato Cardinale il 26 novembre 1994. L’Arcivescovo di Praga aveva conosciuto personalmente Corecco durante una sessione del Sinodo in Vaticano. Un incontro destinato a diven­tare ben presto amicizia, sostenuta da umanità, sensibilità e sti­ma reciproche.

“Sono rimasto colpitissimo”

“Ho visto sul Tamaro come la gente correva dal Vescovo Eu­genio. Sono rimasto colpitissimo. Ero contento di vedere, di toc­care con mano l’affetto dei giovani per il loro Vescovo. Confesso che non ho mai visto un rapporto così stretto e così denso come quella volta sul Tamaro. Una sorpresa e una consolazione molto grandi per me. E poi, durante tutta la permanenza sul monte ho misurato la profondità del legame al vostro Vescovo. Siamo stati insieme la sera di quel sabato 11 giugno 1994 e l’indomani. Con­versammo a lungo e mi resi conto di quanto grande e aperto fosse il cuore di mons. Eugenio. Niente si improvvisa oggi e niente na­sce per caso: l’attaccamento dei giovani, l’amore per il Vescovo sono il frutto di un lavoro paziente e costante. Per me questo è stato e resta molto edificante”.
Il Cardinale di Praga si era ripetutamente interessato negli ulti­mi mesi delle condizioni di salute di mons. Corecco. “Con i miei amici e con i miei fedeli abbiamo spesso pregato per il Vescovo di Lugano, per la sua salute, per la sopportazione, perché il Signore gli desse forza e serenità, perché alla fine di questa prova di dolore, purificato, potesse entrare nella pienezza della gioia di Dio. Dopo il Venerdì Santo viene sempre l’alleluja di Pasqua. Eugenio adesso è nella luce di quest’alleluja”.

“Noi, tentati dalla scienza”

Il dolore e la sofferenza sono una realtà misteriosa che segnano la vita umana e a volte lasciano senza parole, senza un perché, senza una luce…
“Noi, gente che viviamo in questa fine di secolo, spesso siamo tentati dalla tecnologia e dalla scienza. Pensiamo di essere diventati quasi i signori del mondo e della vita. Poi, quando scoppia il dolore, ci scopriamo terribilmente fragili, messi in ginocchio dagli eventi. Facciamo sempre più fatica a inserire la presenza del dolore nella vi­sione nostra del mondo e in questa sensazione di forza e di padro­nanza. Il Vangelo ci insegna che ogni dolore, ogni prova, tutto del nostro essere, messo nelle mani di Dio come ha fatto Gesù abbrac­ciando la croce, apre strade alla vita. Nostro modello è la vita di Gesù, che s’è fatto carico di tutti i dolori dell’umanità, li ha portati sul Calvario e li ha consegnati al Padre, schiudendo così la porta alla vita. Questo dobbiamo impararlo di nuovo: siamo costretti a impa­rarlo. Senza l’accoglienza della croce, non si può vivere. E’ anche la mia esperienza di 40 anni vissuti sotto il comunismo. Il dolore, la sof­ferenza devono avere questa prospettiva per dare frutto. Ho letto, per esempio, che una ditta giapponese ha inventato il sistema per riciclare i rifiuti del nostro consumismo in mattoni e materiale di co­struzione. E’ un’immagine che mi ha colpito moltissimo. Ho pensato che dal dolore, con la forza dell’onnipotenza di Dio, si possono far nascere tanti mattoni per costruire la vita nuova”.

Davanti alla morte

L’uomo del Duemila vive in un’epoca che è percorsa e segnata dalla morte, perché nel villaggio globale vive in diretta tanti dram­mi, e purtroppo è sempre più terrorizzato dalla paura della morte, la esorcizza in tutte le maniere, fino a dipingere di bianco i carri funebri, per non dover pensare alla morte. Come si può abbassare l’angoscia della morte? “É sempre stato difficile – risponde l’Arcivescovo – parlare della morte e lo è ancor più oggi. Credo che pri­ma si debba portare l’uomo contemporaneo attraverso la nostra vita, attraverso l’esperienza e attraverso la morte vissuta ogni gior­no, accettando il cumulo di negatività, di cose che non vanno, di sofferenze. Sono tanti i riflessi della morte. Dobbiamo imparare, forse reimparare, la scuola del sacrificio, dell’impegno, delle realtà dure e avvolgere ogni cosa nella fede. Si imparerà, allora, ad accet­tare anche la morte. Mettiamoci con fiducia nelle mani di Dio che saprà trasformare le lacrime in gioia, la morte in vita, il Venerdì Santo in Pasqua. Con questa esperienza di ogni giorno si può af­frontare anche il dolore più grande, la morte”.

Unito in preghiera con Lugano

Che cosa si può dire, di conforto, a una diocesi che piange il suo Vescovo? Punto di partenza e di arrivo per mons. Vlk è la fede. Spiega: “Il nostro Vescovo unico è Gesù Cristo risorto. La vita del Vescovo Eugenio ci mostra questo punto di riferimento, Gesù ri­sorto. Le lunghe sofferenze sopportate in questi anni da monsignor Corecco, la rassegnazione, l’accettazione e l’abbandono alla volontà di Dio, il cammino fino alla morte sono il punto di partenza di una nuova speranza. In questo momento doloroso del distacco dal Ve­scovo, che è come il commiato dei figli dal padre, sono in comunio­ne con la diocesi di Lugano. Prego con voi per il Vescovo Eugenio perché gli occhi velati di pianto possano intravedere la gioia della vita nella gioia che non finirà più, una gioia alla quale siamo tutti chiamati”.

“In questo tempo c’è speranza e c’è apocalisse”
di Clara Lanek
Testo dell’ultima intervista radiofonica, trasmessa il 25 gennaio 1995 alla RSI,
Radio svizzera di lingua italiana

Mi trovo in Curia accanto al nostro Vescovo Eugenio Corecco da poco rientrato in sede dopo l’ultimo intervento chirurgico all’Inselspital di Berna prima di Natale. A quel momento monsignor Corecco aveva dovuto rinunciare alle tradizionali celebrazioni liturgiche delle festività di fine anno e soprattutto non aveva potuto indirizzare personalmente il suo mes­saggio ai fedeli della Svizzera italiana per l’anno che stava per incomin­ciare . Lo farà ora per il tramite del nostro microfono anche se ciò gli costa ancora una sicura fatica.

Buongiorno a Clara e buongiorno a tutti voi che mi ascoltate. Quando uno è ammalato e la malattia è prolungata, il pericolo è quello di dare un tono dimesso alla psiche di una persona. Ma ci sono ben altre ragioni per essere preoccupati in questo tempo, per cui tutto quel che può capitare a me, ma credo alla maggior parte di voi, è ben piccola cosa rispetto a quello che sta capitando nel mondo oggi, dove c’è una violenza che quasi avevamo dimen­ticato.

Mons. Corecco, c’è un perché alla sofferenza e all’infelicità sua, nostra, del mondo?

Questo è il problema fondamentale della vita umana; inoltre quando cerchiamo di giustificare la sofferenza, facciamo sovente dei pasticci. L’unica cosa sicura per un cristiano è il fatto che la sofferenza è la conseguenza più o meno diretta del peccato originale. L’uomo è stato implicato nella sofferenza, perché si è ribellato al Si­gnore che l’ha messo al mondo, l’ha creato e gli ha dato una finali­tà. La punizione è stata la morte. E dentro il capitolo morte c’è tut­to. C’è il male morale che tante volte è ben più duro da sopportare e da vivere del male fisico.

Lei ha detto di recente che il tempo si fa breve e abbiamo avuto l’im­pressione, ascoltandola, che non si riferisse unicamente al suo stato di salu­te, ma a quello del mondo. Cosa sente nell’aria: ci sarà speranza ora che ci stiamo avvicinando al passaggio di secolo e di millennio?

C’è speranza e c’è apocalisse. C’è apocalisse perché gli uomini sembrano attanagliati da un bisogno insopprimibile di fare, di com­mettere violenza. Quanto sta capitando, in particolare negli ultimi tempi, è estremamente atroce. Noi occidentali, noi svizzeri, noi ticinesi abbiamo di tutto questo, solo delle immagini, ma queste sofferenze sono realtà vissute profondamente da milioni di persone. Noi viviamo in un mondo ovattato, dove stiamo bene. Abbiamo tutti le nostre preoccupazioni, le nostre disgrazie, le nostre malat­tie, ma è come se tutto fosse in un certo senso controllabile.

Qual è allora il messaggio che vuol dare ai nostri ascoltatori e agli uo­mini del nostro tempo, anche a quelli che credono la fine del mondo vicina.

Il problema non è quello di sapere se la fine del mondo è vicina, o lontana, il problema è quello di renderci conto che il Signore ci domanda di essere buoni. Se vogliamo essere simili al Signore, che ci ha creati, dobbiamo essere buoni.

Grazie monsignor Corecco per queste sue parole di fede e di speranza e soprattutto di grande insegnamento perché provengono da lei così dura­mente colpito dalla malattia.

«Buona Pasqua, don Eugenio e salutaci il Signore»
di Mons. Alessandro Maggiolini
Vescovo di Como
Omelia alla Veglia di preghiera in suffragio di mons. Eugenio Corecco
Cattedrale di Lugano, venerdì 3 marzo 1995

È ambiguo il sentimento che provoca in noi la morte di persone care. Da una parte, abbiamo l’impressione di una intenzionalità non corrisposta: di qualcuno che se ne è andato e ci ha lasciato soltanto un corpo gelido e rigido. Come se fosse lo svanire nel nulla di una dimensione spirituale che ci permetteva di vedere in lui un “tu”, una persona, un conoscente, un amico con il quale potevamo in­trattenere conversazioni pacate, profonde e perfino gioiose. Quasi un affondare nel nulla: in un orrido nulla che ci lascia sgomenti e atterriti.
Da un’altra parte, non possiamo dimenticare che fino a qualche giorno fa parlavamo con il Defunto. E il cuore si ribella alla sola immaginazione che don Eugenio non ci sia più. Quando Dio crea un’anima, non la vuole – forse non la può – distruggere. La fa esi­stere per l’eternità. Gli stolti pensano che con il morire la partita si chiuda e non rimanga se non una rimembranza struggente. Ciò che il morto ha detto. Ciò che il morto ha fatto. E il vagare di senti­menti che durano nell’animo come un rifarci alle conversazioni avute, all’amicizia coltivata e ormai troncata.
E, tuttavia, i defunti vivono e sono nella pace di Dio, se hanno creduto alla dilezione crocifissa di Dio, e risorgente e vivente, e si sono lasciati amare dal Signore e usare misericordia e accogliere da Lui con affetto ammutolito, arreso e sorpreso.
È quanto ci insegna il Libro della Sapienza, con l’aggiunta della risurrezione dei corpi che troviamo nel Libro dei Maccabei e nel Signore Gesù che libera il sepolcro dalla pietra tombale e si manife­sta ai discepoli e rimane – ed è – tra noi.
E il destino è la beatitudine. Il raggiungere l’apice dell’esistenza in un’estasi che ci concentra mente e affetto in Cristo e dilata in noi gli spazi della carità, rendendoci fratelli di tutti i fratelli. Poiché il ritornello che abbiamo ascoltato: “Beati, beati, beati…” non è soltanto quello sprazzo di felicità che possiamo cogliere durante l’esi­stenza terrena. É la promessa che vale soprattutto per il domani: per l’oltre tempo: per la beatitudine, appunto.
E la locuzione di Dio ci lenisce il dolore dello strappo, ci dona una consolazione certa per la quale un rapporto bruscamente inter­rotto si continua anche nell’aldilà. E il Vescovo Eugenio esiste an­cora. E, se i morti nella fede sono uniti a Cristo, ebbene il Vescovo Eugenio è qui tra noi nell’Eucaristia conservata e perché ci siamo radunati nel nome del Signore Gesù.
Non è mia intenzione tessere un panegirico, e nemmeno abboz­zare un bilancio di un episcopato pur breve e tanto intenso.
Vorrei soltanto rammentare che un Vescovo insegna non sol­tanto quando predica, ma anche quando vive e quando muore. Sì, poiché c’è pure un Magistero episcopale del come un credente deve morire.
Don Eugenio, soltanto qualche giorno fa ci siamo rivisti e parla­to a lungo, mentre Tu mi stringevi la mano e io per tre volte avevo chiesto di interrompere il dialogo, poiché vedevo che Ti stancavi; ma Tu insistevi perché rimanessi.
Mi avevi, antecedentemente, descritto con impietosa crudezza la Tua malattia. Ma quel giorno era l’approdo di una revisione che in Te si era compiuta. Mi parlasti di morte a cui Ti preparavi, mentre le lacrime, soltanto accennate – ma lacrime -, Ti rigavano le guance.
Poi parlammo della Confessione che avevi fatto, dell’Olio degli infermi che avevi ricevuto, della Messa che si celebrava nella stanza. E di altro. Poi mi sussurrasti che ormai eri pronto e che ti affidavi alla bontà del Signore. E io a chiederTi di salutarmi il Signore che avresti visto guardandolo negli occhi e ad assicurarlo che gli volevo bene anch’Io; e a salutarmi la Madonna.
E poi, a supplicarTi, di aiutarmi dall’altra parte del nostro mondo e ad aspettarmi, quando sarei arrivato. Vi sono momenti nella vita, in cui ci prende una nostalgia dolce e inorridita; un desiderio strano ma concretissimo di essere con Cristo e con i fratelli di fede e di episcopato. Ti chiesi di aspettarmi. Poi, ab­bracciandoti, Ti confidai con un filo di voce: “Buona Pasqua”: vale a dire buon passaggio, buon abbandono in Dio, buona con­formazione in Cristo, buona beatitudine irrivedibile, buona pienezza di pace. E mi rispondesti assentendo con gli occhi e con un cenno di sorriso.
Così muore un Vescovo. Così un Vescovo insegna a morire.
Grazie, don Eugenio.
A Dio!