4. Sacerdozio e Presbiterio nel CIC

 

 

I. Premessa

Non è priva di fondamento la tesi di coloro che, all’indomani del Vaticano II, hanno creduto poter constatare, non senza una punta di delusione, che il Concilio, a differenza di quanto aveva fatto per i vescovi e per i laici, non è riuscito ad affrontare con la stessa organicità il problema dei presbiteri.

Questo scompenso dottrinale, i cui profili diventano ancora più evidenti nel contesto della ristrutturazione ecclesiologica globale operata dal Vaticano II, ha senza dubbio contribuito al dilagare della crisi attraversata dal clero diocesano dopo il Concilio.

Non sono bastati infatti i due Decreti conciliari sulla Formazione del sacerdote «Optatam totius» (OT) e quello sul Ministero e la vita dei presbiteri «Presbyterorum ordinisi (PO) ad evitare al clero questo disorientamento. Il primo perché rimasto troppo legato dal profilo educativo all’immagine tridentina del sacerdozio [1]; il secondo perché non ha osato avventurarsi oltre l’orizzonte dottrinale fissato molto sinteticamente dalla LG 28 [2]. D’altra parte, gli elementi riguardanti i presbiteri contenuti nei nn. 28-32 del Decreto sull’Ufficio pastorale dei vescovi «Christus Dominus» (CD) hanno una notevole portata disciplinare, ma lasciano implicite le coordinate dottrinali. In particolare il Decreto OT non ha ripensato a fondo le trasformazioni avvenute non solo nel contesto ecclesiale attuale, ma soprattutto in quello socio-culturale, profondamente mutato in questi ultimi decenni, per essere in grado di offrire un modello educativo capace di conferire ai presbiteri un’identità nuova, atta ad affrontare senza tergiversazioni le esigenze pastorali e culturali moderne.

E sintomatico ad ogni buon conto il fatto che questo documento si ispira prevalentemente a fonti preconciliari, in modo particolare al magistero di Papa Pio XII, mentre il Decreto PO ha tenuto come punto di riferimento costante, oltre che la Lumen gentium (LG 28), anche la tradizione più antica della Chiesa, cioè quella patristica.

 

II. L’educazione del clero

1. Nel settore della formazione dei presbiteri il CIC (can. 232-264) ha sostanzialmente tradotto in norme giuridiche le direttive del Decreto OT. A dire il vero, si sarebbe potuto pensare che il CIC elaborasse una normativa più sobria, aprendo spazi maggiori per l’inserimento di elementi più concretamente aderenti alle diverse situazioni sociali e culturali nazionali nelle «Sacerdotali rationes», che le Conferenze dei Vescovi dovranno promulgare (can. 242). Comunque, «post factum», cioè, dopo la promulgazione del CIC, l’unico interrogativo concreto ancora possibile è quello di sapere in che misura le Conferenze dei Vescovi riusciranno a sfruttare i pochi spazi reali rimasti, senza dover ricorrere all’introduzione di elementi eterogenei rispetto al sistema.

La dipendenza dei cann. 232-264 dal Decreto OT è comunque così stretta da affiorare con evidenza anche a livello terminologico. Come nel documento conciliare, anche in questi canoni la categoria unilateralmente dominante è quella di «sacer- dos» [3]. Ciò è un indice preciso del taglio educativo di fondo con il quale è stato affrontato il problema della formazione del clero. L’unilateralità dell’uso del sostantivo «sacerdos» contrasta con il fatto che in tutti gli altri documenti del Concilio, come del resto negli altri canoni del CIC in cui il discorso verte sul ministero sacerdotale, l’alternarsi del termine «sacerdos» con «presbyter» è costante.

2. Questo indice terminologico trova conferma nella tendenza immanente alla normativa contenuta nei can. 232-264 a privilegiare lo «status vitae», quello sacerdotale, rispetto alla funzione apostolica in quanto tale, messa invece meglio in evidenza dal sostantivo «presbyter». E vero che l’ufficio sacerdotale, da solo, rappresenta all’interno della dottrina dei tre uffici di Cristo, l’elemento teologico che ricomprende tutti gli altri, quello profetico e quello regale, ma è altrettanto vero che la categoria «presbyter», per sua natura, trascende la problematica dei tre (o più uffici) di cui i ministri diventano partecipi con il sacramento dell’ordine, senza così dar adito all’equivoco, radicato forse più nella prassi che nella dottrina, che sia possibile ridurre la funzione ecclesiale del presbitero a quella cultuale [4].

A comprovare questa impressione basta l’analisi di alcuni canoni e in particolare quella del can. 245, in connessione con il 255, del can. 258 e del can. 276 § 2 n. 1-2.

Il tenore della dichiarazione programmatica del Decreto OT 4,1 circa lo scopo dell’educazione nei Seminari maggiori è di una chiarezza inequivocabile. «In essi (nei Seminari) tutta l’educazione degli alunni deve tendere allo scopo di formare dei veri pastori d’anime, sull’esempio di Nostro Signore Gesù Cristo, maestro, sacerdote e pastore». La corrispondente norma del can. 245 § 1 risulta invece molto più blanda, poiché sposta l’accento dalla formazione oggettiva al ministero pastorale a quella soggettiva dell’attitudine spirituale per esercitarlo in modo fruttuoso.

Attraverso la formazione spirituale e attraverso l’acquisizione della capacità di conciliare «i beni umani con quelli soprannaturali», gli alunni devono essere resi idonei ad esercitare in modo fruttuoso il proprio ministero pastorale e missionario dato che queste attività apostoliche, esercitate nella fede e nella carità, contribuiscono alla santificazione dei presbiteri. La fruttuosità dell’apostolato è vista prima di tutto in funzione della santificazione soggettiva. Evidentemente l’aspetto soggettivo e quello oggettivo sono interdipendenti, ma l’accento messo sul primo piuttosto che sul secondo è un’indicazione chiara del fatto che il CIC affronta il problema prima di tutto con la preoccupazione di formare gli alunni a vivere bene il proprio «status vitae», quello clericale, piuttosto che la loro funzione apostolica, rimanendo legato ad una prospettiva più vicina a quella tridentina che a quella della ecclesiologia scaturita dal Vaticano II.

Anche in sede di orientamento degli studi è possibile constatare uno slittamento di prospettiva, dalla funzione verso lo «status». Mentre OT 21 prevede che gli alunni debbano imparare ad agire «nell’arte dell’apostolato» con responsabilità propria e in collaborazione con gli altri già durante il tempo dell’anno dedicato allo studio, senza trascurare il periodo di vacanza («feriarum quoque tempore»), il can. 258 inverte i valori, mettendo l’accento sul periodo delle vacanze («studiorum curriculum decurrente, praesertim vero feriarum tempore, praxi pastorali initientur»), come se l’iniziazione all’apostolato in quanto tale fosse un elemento meno costitutivo degli altri per la formazione, così da poter essere preferibilmente spostato nel tempo libero.

Un ultimo indizio dell’orientamento sopra indicato può essere reperito anche nel can. 276 § 2. Il Decreto PO 13,1 afferma in modo inequivocabile che l’esercizio dei tre uffici «do- cendi, sanctificandi et regendi», vale a dire l’esercizio globale della funzione presbiterale, costituisce la fonte primaria e specifica della santificazione dei presbiteri [5]. Di conseguenza mette l’accento sulla verità intrinseca {«sincere») con la quale i presbiteri devono svolgere le loro funzioni pastorali {«muñera»). Secondo lo stesso documento questa verità si realizza grazie al fatto che il presbitero, nell’atto di predicare agli altri, rivolge la parola anche a se stesso (13, 2), che nella celebrazione dell’Eucaristia, offerta per la Chiesa, il presbitero offre anche il sacrificio della propria vita (13, 3), e che nello svolgimento della funzione di «reggitore della comunità» egli pratica l’ascesi rinunciando a perseguire i propri interessi personali (13, 4).

Il can. 276 § 2 procede invece ad una duplice sostituzione di parola, che solo ad uno sguardo superficiale potrebbe apparire come priva di significato. All’avverbio «sincere» sostituisce «fi- deliter» e al sostantivo «muñera» sostituisce «officia», termine che in questo contesto non può essere sinonimo di ufficio ecclesiastico – perché sarebbe riduttivo – ma di dovere. Questa duplice correzione conferisce un significato diverso al testo del canone, rispetto a quello del documento conciliare. Fa dipendere infatti la santificazione del presbitero dalla fedeltà morale nella pratica dei suoi doveri di stato {«officia») più che dall’autenticità {«sincere») nell’esercizio delle funzioni presbiterali in quanto tali.

La conseguenza di quest’inversione di tendenza si fa sentire nel § 2 n. 2 dello stesso canone, dove la Scrittura e l’Eucaristia {«duplici mensa Scripturae et Eucharistiae») assumono unilateralmente la caratteristica di essere più pratiche di pietà soggettive che azioni oggettive della Chiesa per la santificazione di tutto il popolo di Dio. L’aspetto soggettivo evidentemente non può essere escluso e il documento conciliare stesso ne tiene conto (PO 18), ma solo dopo aver insistito in modo inconfondibile (n. 13) sul fatto che il presbitero si santifica prima di tutto compiendo con sincerità la sua missione pastorale.

Questo aspetto oggettivo, anche se falsificato nel suo vero significato dal can. 276 § 2, emerge comunque, sia pure timidamente nel can. 245 § 1 già citato, il cui testo recita: «… (alumni) discentes ministerium expletum semper in fide viva et in cantate ad propriam sanctificationem conferve». Tuttavia, affermato così, «in obliquo», questo principio fondamentale per la comprensione della spiritualità e dell’identità del clero diocesano, viene privato della sua forza programmatica.

 

III. L’istituto del Presbiterio

1. Nell’ambito della riflessione sulla natura sinodale della Chiesa [6], il Vaticano II, operando una piccola rivoluzione copernicana, ha riscoperto l’istituto del Presbiterio. Si tratta senza dubbio di una realtà ecclesiologica e giuridica fondamentale per la comprensione della struttura costituzionale della Chiesa particolare e della Chiesa universale stessa.

E sintomatico che un’opera, così rappresentativa dal profilo teologico, come il «Lexikon für Theologie und Kirche» non abbia saputo definire il Presbiterio alla vigilia del Vaticano II, se non come lo spazio architettonico di una chiesa destinato al clero nella celebrazione della liturgia [7].

In effetti l’idea di Presbiterio, così viva nel primo millennio, si è progressivamente affievolita fino a scomparire [8]. Essa è stata in un certo senso confiscata dall’istituto del Capitolo cattedrale che, sia pure con inadeguatezza di strumenti giuridici, ha garantito la sopravvivenza della coscienza sinodale nell’ambito della Chiesa particolare [9].

2. Il recupero del Presbiterio da parte del Concilio, comunque, non è avvenuto senza incertezze e scompensi. Il Concilio non è riuscito a decantare con sufficiente precisione i diversi elementi ecclesiologici del rapporto vescovi-presbiteri da cui è determinato anche il Presbiterio, lasciando di conseguenza fluttuare la terminologia. Ciò ha permesso il formarsi di tre modelli differenti di Presbiterio [10].

L’idea che i presbiteri nella loro totalità sono i cooperatori dell’Ordine dei vescovi, presente in LG 28, 2 e in altri testi conciliari [11], ha permesso ad un autorevole commentatore del Concilio, come Grillmeier, di sostenere che, parallelamente al collegio dei vescovi, esiste un collegio presbiterale della Chiesa universale e che questa doppia realtà forma un unico Presbiterio [12]. Il «Textus emendatus» del «De Ecclesia» del 3 luglio 1964, che l’autore prende ancora di fatto come punto di riferimento interpretativo per il suo commento alla LG 28, non parla di un unico Presbiterio comprendente i vescovi e i sacerdoti, bensì di un unico Presbiterio formato da tutti i presbiteri della Chiesa [13]. Le modifiche apportate al «Textus emendatus» apparentemente non sono però bastate ad eliminare ogni possibilità di confusione.

Quando il Concilio parla al plurale, di vescovi e dei presbiteri, per affermare che questi ultimi sono i collaboratori dell’Ordine dei vescovi, non intende affrontare il problema del Presbiterio, ma piuttosto quello più a monte della responsabilità e della sollecitudine che tutti i presbiteri, analogamente ai vescovi, devono sentire per la Chiesa universale, oltre che per la loro Chiesa particolare.

Nel Decreto PO 7, 1 il Concilio esige la costituzione di un Consiglio di presbiteri che rappresentino il Presbiterio [14]. In questo testo il Presbiterio appare come una comunità di preti esistente ed operante nella Chiesa particolare con una funzione di alterità rispetto al vescovo diocesano. Questa medesima concezione corporativistica del Presbiterio, simile a quella che sorregge l’istituto del Capitolo cattedrale, affiora chiaramente anche nel Decreto CD 11, 1 che definisce la diocesi come una porzione del Popolo di Dio affidata alla cura pastorale del vescovo «cum cooperatione presbyterii». Altre formule simili, tecnicamente improprie, ricorrono nella Costituzione sulla Liturgia al n. 41,2 (SC): «Episcopus suo presbyterio et ministris circumdatus» e nel Decreto sull’Attività missionaria della Chiesa al n. 19, 3 {AG): «Episcopi…una cum suo quisque presbyterio».

LG 28 usa il termine «Presbiterio» una sola volta, ma in modo da non lasciar dubbi sulla natura dell’istituto. Afferma infatti che «Presbyteri… unum presbyterium cum suo Episcopo constituunt». Si tratta del testo conciliare più centrale sul problema, sia in ragione del suo «cursus» definitorio, che coglie la struttura ontologica dell’istituto senza sovrapporre altri elementi, come per esempio quello dello scopo del Presbiterio, sia perché esso è contenuto nel documento in cui il Concilio ha sviluppato gli elementi fondamentali della sua ecclesiologia.

Di conseguenza, non i preti globalmente e posti come comunità sacerdotale della Chiesa universale al servizio del Collegio dei vescovi e neppure presbiteri in quanto corporazione diocesana, collocata in posizione estrinseca rispetto al vescovo, formano il Presbiterio, bensì i presbiteri assieme al vescovo loro capo.
Questo stesso concetto di Presbiterio ricorre anche nei Decreti PO 8, 1 [15], CD 28, 1, dove il vescovo è qualificato, perfino, seguendo il modello della famiglia, come padre dei suoi presbiteri [16], e AG 19, 3 [17].

Si deve concludere perciò, con la stragrande maggioranza della dottrina [18], che il «locus theologicus» del Presbiterio non è la Chiesa universale, ma quella particolare.

3. Malgrado abbia riscoperto l’istituto del Presbiterio come elemento costituzionale fondamentale della Chiesa particolare, il Vaticano II non si è preoccupato però di cercare la ragione teologica della sua esistenza. Dal semplice fatto che tra i presbiteri e il vescovo esiste un rapporto di comunione gerarchica [19], non è infatti possibile dedurre l’esistenza del Presbiterio. Tanto più che un rapporto di comunione gerarchica intercorre anche tra i presbiteri di tutta la Chiesa universale e il Collegio dei vescovi [20].

Evidentemente esiste una ragione funzionale e pratica dell’esistenza del Presbiterio. Il Vaticano II non esita infatti ad asserire che i presbiteri sono collaboratori necessari del vescovo [21]. Questa necessarietà tuttavia non appare sufficientemente fondata a partire dalla constatazione che il vescovo, da solo, non è in grado di svolgere tutte le attività pastorali che incombono alla sua missione, anche se questa inadeguatezza pratica diventa sempre più evidente. Comunque se si trattasse di una necessità di ordine puramente razionale e funzionale bisognerebbe concludere che il ministero del vescovo sarebbe in se stesso incompleto, non possedendo tutti i mezzi necessari per auto-realizzarsi.

Oltre a questa motivazione funzionale deve esistere perciò una ragione più profonda di ordine teologico. Se è vero infatti che un istituto è determinato nella sua esistenza anche dallo scopo che gli è proprio, il problema allora è, nella fattispecie, quello di individuare con precisione la natura di questo scopo. Si può ritenere «a priori» che la ragione dell’esistenza di questa realtà sinodale collocata al cuore della Chiesa particolare, al cui centro sta il vescovo diocesano, così da determinare la struttura costituzionale stessa della diocesi, non possa essere di ordine puramente razionale-pratico, ma appartenga all’ordine dei contenuti della rivelazione, cioè della fede.

La Chiesa particolare è il luogo concreto in cui si realizza la Chiesa universale, la cui struttura sinodale (o collegiale) nasce proprio dal fatto che quest’ultima non solo si realizza nella Chiesa particolare, ma è anche costituita dalle Chiese particolari [22]. Sarebbe impensabile che la Chiesa universale possa realizzarsi nella Chiesa particolare secondo la dimensione sinodale che le è propria, se la Chiesa particolare non avesse a sua volta carattere sinodale, ma fosse strutturata monisticamente. In questo caso bisognerebbe ammettere che nel momento stesso in cui la Chiesa universale si «incarna» nella Chiesa particolare, diventandole immanente, cesserebbe di esistere come realtà sinodale, perché verrebbe espropriata della sua stessa struttura.

Per essere in grado di accogliere la Chiesa universale e permetterne la sua realizzazione, la Chiesa particolare deve essere in grado di offrire una struttura non eterogenea rispetto a quella sinodale della Chiesa universale [23].

Evidentemente la struttura sinodale della Chiesa particolare può essere solo analogica rispetto a quella della Chiesa universale. Se fosse identica significherebbe che la Chiesa particolare avrebbe la stessa forma costituzionale di quella universale; sarebbe a sua volta Chiesa universale e il processo andrebbe aH’infinito. In realtà la Chiesa particolare non si realizza in altre e da altre realtà ecclesiali come la Chiesa universale. Né la comunità eucaristica locale, né quella giuridicamente più strutturata e stabile della parrocchia, sono realtà da cui si costituisce la Chiesa particolare. Né Tuna né l’altra sono entità ecclesiologiche necessarie. Si diversificano rispetto alla concelebrazione dell’Eucaristia presieduta dal vescovo solo per ragioni pratiche, non potendo il vescovo raggiungere, come forse poteva avvenire nella Chiesa antica, prima che si costituissero le parrocchie rurali, tutti i fedeli della sua diocesi [24].

L’analogia tra le due realtà sinodali si impone per il fatto che il rapporto esistente all’interno del Presbiterio tra il vescovo e i sacerdoti, non è uguale, dal profilo sacramentale e giurisdizionale, a quello esistente nel Collegio tra il papa e i vescovi. Non è identico dal profilo sacramentale perché tutti i membri del Collegio dei vescovi, a differenza dei membri non vescovi [25] del Presbiterio, sono investiti dalla pienezza del sacramento dell’ordine. Non è uguale dal profilo giurisdizionale perché i vescovi, a differenza dei presbiteri, sono in possesso, in forza del loro stesso ministero, di tutti i poteri necessari per guidare il loro popolo verso la salvezza [26]. Il primato del papa consiste nel fatto di potersi riservare alcune competenze, sottraendole ai vescovi, in vista dell’unità della Chiesa. Il vescovo nel Presbiterio, invece, gode poteri giurisdizionali che i presbiteri non hanno in forza del loro ministero e del sacramento dell’ordine.

Risulta perciò evidente che la ragione ontologica primaria dell’esistenza del Presbiterio è di natura ecclesiologica. Si può affermare che come la responsabilità della Chiesa universale è affidata al Collegio dei vescovi con il papa in quanto capo, così la responsabilità della Chiesa particolare non è affidata personalmente solo al vescovo ma sinodalmente a tutto il Presbiterio come tale. Ciò avviene però in modo solo analogico poiché il vescovo emerge come capo dei presbiteri in una posizione più forte del papa rispetto agli altri membri del Collegio, dato che i presupposti sacramentali e giurisdizionali nei due tipi di rapporto sono diversi.

4. Come in altri settori della normativa, il CIC non ha compiuto lo sforzo di rifondere in una sintesi organica le indicazioni dottrinali date dal Vaticano II sul Presbiterio, ma si è limitato a riprendere pragmatisticamente i contenuti, veicolandone le incongruenze.

In effetti, non solo non si preoccupa di dare una giustificazione ecclesiologica esplicita dell’esistenza del Presbiterio, operazione che non è stata compiuta neppure dal Concilio, ma lascia emergere, nei sette canoni in cui ricorre l’istituto del Presbiterio, molto delle incertezze terminologiche e concettuali del Concilio stesso.

Il testo principale del Concilio, quello di LG 28,2, che definisce il Presbiterio come realtà diocesana formata dal vescovo e dai presbiteri, non è stato utilizzato in nessuno dei due canoni centrali del CIC: nel can. 369 dove il Presbiterio è enumerato tra gli elementi fondamentali della costituzione della diocesi e nel can. 495 § 1 dove si statuisce la costituzione obbligatoria del Consiglio presbiteriale.

Tuttavia l’idea che il Presbiterio sia una realtà unica, cui appartengono il vescovo diocesano e i presbiteri, affiora, anche se in modo non del tutto concludente, in due canoni marginali. Nel can. 713 § 3, infatti, si esortano i chierici membri di un Istituto secolare a dare la loro testimonianza di carità apostolica «praesertim in presbyterio». Pur lasciando apparire il carattere diocesano del Presbiterio, questa formula non dà un’indicazione precisa, a sapere se il vescovo sia membro dello stesso o se il Presbiterio comprenda solo i preti, come il capitolo cattedrale comprende solo i canonici. Anche nel can. 400 § 2 sorge un problema terminologico, malgrado si debba riconoscere che la sua formulazione potrebbe fare allusione ad un Presbiterio concepito come realtà unitaria, cui fanno parte vescovo e presbiteri. In essa si prescrive che il vescovo può farsi rappresentare, nella visita «ad limina», da un sacerdote «sui presbyterii». La stessa formula potrebbe tuttavia essere usata anche per designare un Presbiterio concepito come realtà autonoma, di cui il vescovo non sarebbe membro.

Se si prescinde da questi due canoni (713 § 3 e 400 § 2) tutte le formulazioni degli altri cinque canoni risultano imprecise, poiché trasmettono un’immagine dualistica dell’Istituto, quasi si trattasse di una corporazione di sacerdoti che opera in posizione estrinseca rispetto al vescovo. Ciò è particolarmente evidente nei due canoni centrali già citati sopra (369 e 495 § 1). Nel can. 369 infatti la diocesi è descritta come una «populiDei portio, quae Episcopo cum cooperatione presbyterii pascertela con- creditur». Una formulazione più esatta, avrebbe potuto essere «cum cooperatione sacerdotum sui presbyterii». Nel can. 495 § 1 invece, si afferma che il Consiglio presbiterale è un corpo «pre- sbyterium repraesentans».

Il verbo rappresentare ha due significati: uno teologico ed uno sociologico. In senso teologico solo il vescovo rappresenta il Presbiterio, dal momento che questo tipo di rappresentazione è fondata sul possesso del sacramento dell’ordine. Ciò spiega perché solo il vescovo, in forza del sacramento dell’ordine (e non il Presbiterio in quanto tale) può rappresentare la Chiesa particolare in seno al Collegio dei vescovi. Il consiglio presbiterale per contro, in quanto ente corporativo, ha forza rappresentativa solo in senso sociologico. Ne consegue che il verbo «repraesentare» del can. 495 § 1 ha valore solo sociologico, con la stessa accezione del can. 499, che fissa i criteri per la scelta dei membri del Presbiterio. In realtà esso non rappresenta il Presbiterio preso nella sua globalità (con il vescovo e i presbiteri), ma solo i presbiteri appartenenti al Presbiterio diocesano. La formula più corretta avrebbe perciò potuto essere «sacerdotes presbyterii repraesentans».

Negli altri tre canoni il problema è analogo. Secondo il can. 245 § 2 gli alunni del seminario devono essere preparati «ad fraternam unionem cum dioecesano presbyterio». Avendo lo stesso paragrafo affermato nella frase precedente che gli alunni devono essere preparati ad aderire al loro vescovo «tamquam fidi cooperatores», sarebbe stato più esatto usare nella frase seguente la formula «ad fraternam unionem cum sacerdotibus dioecesa- ni presbyterii». Nel can. 529 § 2 si raccomanda al parroco di cooperare «cum proprio Episcopo et cum dioecesis presbyterio», invece di dire «cum Episcopo et sacerdotibus eiusdem presbyterii». Anche nel can. 754, in cui si statuisce che il compito dei diaconi è di servire la Chiesa nell’esercizio del ministero della Parola, la formula «in comunione cum Episcopo eiusque presbyterio» risulta dualistica come quelle usate nei due canoni precedenti.

5. L’equivoco secondo cui esisterebbe un Presbiterio a livello della Chiesa universale non trova per contro nessun fondamento nel CIC, poiché i testi del Concilio in cui si afferma genericamente che i presbiteri sono cooperatori dell’ordine episcopale non vi sono utilizzati. Il can. 257 § 1 raccoglie invece l’idea teologica della responsabilità di tutti verso la Chiesa universale, soggiacente a questi testi, precisandone il contenuto. Prescrive infatti che gli alunni del seminario devono essere educati ad una sollecitudine non solo nei confronti della Chiesa particolare in cui sono incardinati, ma anche nei confronti della Chiesa universale, così da essere disposti a trasmigrare in altre Chiese che avessero bisogno del loro ministero.

6. Al di là dei problemi posti dalle formulazioni prese fin qui in esame, che comunque non hanno carattere solo tecnico-giuridico, Fimmagine sull’identità del presbitero che si delinea nel CIC è inequivocabile. Esso risulta definito non solo a partire dal sacramento dell’ordine e dalla missione apostolica di cui è investito personalmente, ma anche dal rapporto di dipendenza e di collaborazione strutturali cui, in forza dello stesso sacramento e della stessa missione, è legato al proprio vescovo. Il can. 245 definisce, infatti, i presbiteri come «fidi cooperatores» del vescovo e il can. 384 come «adiutores et consiliarios» che il vescovo è tenuto ad ascoltare («audiat»).

Tra i vari testi, in cui il Concilio sottolinea questa dipendenza dei presbiteri nella collaborazione con il vescovo [27], ne emerge tuttavia uno, in cui i presbiteri sono definiti quali «ne-cessarli adiutores et consiliarii» del vescovo (PO 7,1) che il CIC avrebbe potuto utilizzare (per esempio nel can. 384). Si tratta evidentemente di un testo denso di significato teologico, poiché «in nuce» contiene anche la giustificazione ecclesiologica dell’esistenza del Presbiterio. In questo testo il Decreto PO fa dipendere l’ascolto, che i vescovi devono prestare ai loro presbiteri, non tanto da un’obbligo morale e giuridico, quasi fosse loro imposto in forza della legge o magari anche in nome del principio della comunione, ma da un fatto ontologico, che oltretutto è il fondamento della «communio» stessa.

Secondo PO 7, 1, l’identità stessa dei vescovi è determinata dal fatto di avere necessariamente alcuni presbiteri come collaboratori. L’ascolto che il vescovo deve prestare ai presbiteri deriva sia dalla natura del ministero di quest’ultimi, sia dalla natura del ministero stesso del vescovo.

Questa dinamica di reciprocità necessaria, che sarebbe stato importante fosse emersa con tutta la sua forza programmatica anche nel CIC, affiora però indirettamente nel can. 495 § 1, in forza del fatto che esso rende obbligatoria la costituzione del Consiglio presbiterale diocesano. La ragione del carattere obbligatorio dell’istituto del Consiglio presbiterale, sta nel carattere di necessarietà del ministero dei presbiteri rispetto a quello del vescovo diocesano.

Il fondamento dottrinale di quest’interdipendenza attiva e passiva, dei presbiteri nei confronti del vescovo e del vescovo nei confronti dei suoi presbiteri, sta nella teologia espressa dal Vaticano II, da una parte, circa la comune, anche se diversa, partecipazione sacramentale dei presbiteri e del vescovo allo stesso sacerdozio di Cristo, dall’altra, in quella della partecipazione dei presbiteri al ministero stesso del vescovo.

Il Concilio ha definito la natura della diversa partecipazione sacramentale al sacerdozio di Cristo, solo dal profilo formale, affermando, da una parte, che il vescovo è investito della pienezza del sacramento dell’ordine (LG 21,2), dall’altra, che il presbitero vi partecipa in grado «subordinato» (PO 2,2), non avendo l’«apice» dello stesso sacramento (LG 28, 1). Poiché il potere consacratorio del presbitero e del vescovo, rispetto all’eucarestia, è identico, la differenza nel grado dell’ordine sacro sembra essere solo quantitativa e non qualitativa. Il Concilio ha, comunque, evitato di entrare dal profilo materiale in merito alla questione, rinunciando a spingere l’analisi sul problema dei contenuti. Anzi ha espressamente voluto lasciare aperta la discussione su quelle questioni teologiche di cui la dottrina si è sempre occupata, come quella di sapere se i presbiteri possono consacrare altri presbiteri, o se non possono conferire anche il grado episcopale dell’ordine. Rimane comunque acquisito, ad opera del Concilio, il fatto che la partecipazione del presbitero al sacramento dell’ordine non può essere intesa come trasmissione da parte del vescovo di una porzione del proprio sacramento. La fonte del sacramento presbiterale non è il vescovo, ma Cristo, che opera nel sacramento, servendosi strumentalmente del segno [28].

La partecipazione dei presbiteri al ministero del vescovo sembra, d’altra parte, implicare un ulteriore elemento rispetto a quello sacramentale. La dottrina tradizionale di cui anche il Concilio si serve in questo contesto identifica nell’elemento giurisdizionale questo ulteriore elemento. La partecipazione al ministero del vescovo da parte del Presbiterio non sarebbe di ordine puramente sacramentale, ma anche giurisdizionale e si realizza attraverso la «missio canonica» [29]. Quale significato ecclesiologico debba essere attribuito alla «missio canonica» rimane però, a sua volta, una questione aperta alla discussione teologica [30].

7. L’unità esistente a livello sacramentale e ministeriale tra il vescovo e i presbiteri, che si struttura come «communio hierar-chica», ha un risvolto preciso anche sul rapporto esistente tra i presbiteri dello stesso Presbiterio. Il Concilio, come abbiamo visto, parla a più riprese dell’unità che intercorre tra i presbiteri di tutta la Chiesa universale e ne identifica il fondamento nella comune partecipazione al sacramento dell’ordine sacro (PO 3-4; 8, 1-2; 12,3; 15,2).

Il fatto però di essere membri dello stesso Presbiterio conferisce a questa unità uno spessore ancora più grande e più concreto, poiché l’appartenenza al Presbiterio deriva ai presbiteri dalla loro partecipazione al ministero stesso del vescovo. Ciò permette di affermare che tutti i sacerdoti del Presbiterio partecipano «in solidum» – sia pure secondo un’accezione non tecnica del termine – non solo al ministero pastorale del vescovo, ma di conseguenza anche al compito globale del Presbiterio stesso, di cui il vescovo è il capo.

Tutti i testi del CIC concernenti il Presbiterio, già citati sopra, veicolano questa idea, espressa comunque nei termini più espliciti dal can. 275 § 1, che enumera appunto come uno dei primi obblighi dei chierici, quello di stare uniti tra di loro nel vincolo della fraternità, della preghiera e della collaborazione reciproca, poiché tutti operano per un unico fine: l’edificazione del Corpo di Cristo.

 

IV. Vari istituti che convergono a rafforzare il Presbiterio

Oltre a questa dottrina generale sul Presbiterio il CIC riprende dal Concilio – positivizzandoli in norme giuridiche vincolanti – molti altri istituti ed elementi (anche se non tutti) che in modo più o meno diretto convergono a rendere più organico l’istituto stesso del Presbiterio come elemento centrale della costituzione della Chiesa particolare.

1. Il primo di questi elementi, che tendono a favorire l’unità dei sacerdoti all’interno del Presbiterio e di conseguenza a rafforzare l’istituto stesso, è quello della vita comune. Il Vaticano II non la considera elemento imprescindibile dello stato clericale [31], ma il CIC risulta sulla questione forse ancora meno rigoroso del Concilio stesso, benché ritorni sull’argomento a più riprese.

Anzitutto nel quadro della normativa concernente la formatone del clero nei Seminari maggiori. Svolgendo un’indicazione del Decreto OT 11, 2 in cui la vita comune è considerata come lo scopo verso cui deve tendere tutta la disciplina dell’Istituto [32], il can. 245 § 2, a sua volta – e contrariamente agli equivoci nati in molti seminari soprattutto prima del Concilio – concepisce la disciplina del seminario solo come funzionale alla vita comune, attraverso la quale i presbiteri devono essere preparati a vivere l’unione fraterna in seno al Presbiterio

Un’altra norma parallela è quella del can. 280 in cui si raccomanda vivamente («valde») ai chierici di praticare una «certa» vita comune [34]. Evidentemente, mancando nel CIC indicazioni più dettagliate in merito, la vita comune deve essere interpretata e intesa nella sua concretizzazione pratica secondo le indicazioni date da PO 8, 3, che non la fa coincidere necessariamente con il fatto di vivere sotto lo stesso tetto, e ammette diverse modalità e diversi gradi di realizzazione [35].

In modo ancora più specifico il can. 550 § 2 impone all’Ordinario di provvedere perché sia instaurata, nella misura del possibile, la vita comune tra i parroci e i vicari parrocchiali. Neppure in questo contesto però, il principio della vita comune è imposto in modo perentorio. Il CIC considera infatti gli impegni pastorali parrocchiali dei presbiteri, prevalenti sull’idea della vita comune. Questa priorità emerge chiaramente in due dispositivi: quello del can. 533 § 1 in cui l’obbligo del parroco di risiedere nella casa parrocchiale appare come prevalente sulla possibilità di vivere in comune con altri presbiteri, e quello del can. 550 § 1 in cui l’obbligo dei vicari parrocchiali di risiedere in parrocchia è fatto prevalere sulla possibilità di vivere in comune con altri presbiteri fuori dal territorio della parrocchia. In ambo i casi il CIC ammette che il principio della residenza possa essere infranto solo con il consenso del vescovo.

2. Un secondo elemento, tradizionalmente connesso con la vita comune, sul quale PO ritorna due volte facendo esplicito riferimento agli Atti degli Apostoli ed alla prassi della Chiesa primitiva, è quello della comunione dei beni. Mentre la formulazione del n. 8, 3 del Decreto PO è categorica: «Presbyte- ri… colant… communionem honorum», nel n. 17, 4 essa è raccomandata solo come pratica per abbracciare volontariamente la povertà.

Il CIC, per contro, tace sorprendentemente su questo argomento. Rivolgendosi a tutti i presbiteri, nel can. 282 § 2, si limita a riprendere sommariamente le indicazioni di CD 28, 3 e di PO 17, 3 circa l’uso dei beni acquisiti in occasione dell’esercizio del ministero pastorale, mentre nel can. 286 ribadisce semplicemente il principio, affermato nello stesso contesto da PO, della proibizione dell’attività commerciale dei presbiteri, attenuando per di più il rigore del testo conciliare stesso, con la clausola secondo cui l’attività commerciale {«mercatura») potrebbe essere praticata qualora intervenisse il permesso dell’autorità competente.

3. Quasi a controbilanciare questo atteggiamento meno rigoroso del codice nel settore dell’uso dei beni rispetto al Concilio, il can. 1274 § 1 – contrariamente al Decreto PO 21, 1 – ha reso obbligatoria la costituzione del fondo comune diocesano per il sostentamento del clero, nel caso non fosse possibile provvedere in altro modo. Per quanto riguarda l’assistenza sociale del clero e la cassa comune in favore delle altre persone che operano al servizio della diocesi i §§ 2 e 3 dello stesso canone traducono sinteticamente in norme giuridiche le indicazioni date da PO 21,1.

4. Un altro istituto di cui bisogna tener conto nell’analisi del rapporto presbiteri-Presbiterio è quello delle associazioni.

Nel quadro generale del diritto associativo, valevole per tutti i fedeli, laici, chierici e membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica – la cui base legislativa è posta dal can. 215, e la cui articolazione normativa è svolta nei can. 298-329 – , il CIC circoscrive il diritto specifico dei chierici nel can. 278. Mentre dal § 1 risulta che i chierici possono associarsi anche a livello di Chiesa universale, il § 2, in cui la finalità specifica delle associazioni dei chierici è ulteriormente precisata, statuisce che essi devono dare importanza soprattutto a quelle associazioni che tendono a favorire una più grande unione dei chierici tra di loro e con il loro vescovo. Da ciò si può concludere che il CIC privilegia, sia pure discretamente, il costituirsi di associazioni all’interno del Presbiterio.

5. Per completare questa panoramica non si possono trascurare alcuni altri istituti di capitale importanza per la struttura costituzionale della Chiesa e l’amministrazione della diocesi, la cui incidenza sull’immagine globale del rapporto presbiteri- Presbiterio è inconfondibile.

Prima di tutto il principio della territorialità che il CIC esclude dalla definizione o descrizione teologica, sia della Chiesa particolare che della diocesi (can. 368-369 e 374 § 1), sia della parrocchia (can. 515 § 1 e 518). Sull’importanza di questa svolta coraggiosa data dal CIC alla dottrina tradizionale non è possibile soffermarsi in questa sede. Tuttavia, tenendo conto anche del fatto che il CIC ha definitivamente fissato l’esistenza delle Prelature personali (can. 294-297), il cui scopo è di raggruppare i presbiteri su base personale, permettendo così anche il formarsi di un Presbiterio personale, qualora il prelato avesse la dignità episcopale, si deve prendere atto che l’aver privato il principio della territorialità da qualsiasi valenza teologica contribuisce in modo radicale a smantellare nel clero ogni pretesa di godere un’autonomia di fatto e di principio nei confronti del vescovo. Ciò vale prima di tutto per i parroci, che nella sopravvalutazione teologica del principio territoriale hanno sempre trovato il fondamento teorico più efficace della loro autonomia pastorale, articolatosi soprattutto nell’istituto dei cosiddetti diritti parrocchiali.

6. Nella stessa direzione opera l’abolizione del sistema beneficiale almeno a livello di diritto comune (can. 1272), e la conseguente soppressione dell’istituto deH’inamovibilità (can. 252), già postulate da PO 20, 2 e, rispettivamente, da CD 31,3.

Il sistema beneficiale, profondamente radicato nella concezione – non astratta come quella romana ma reificante e concreta propria – alla cultura dei popoli germanici, ha largamente contribuito a disgregare la diocesi in tante piccole entità parrocchiali e beneficiali garantendo al clero le condizioni materiali indispensabili della loro autosufficienza economica, presupposto della loro autonomia giuridica e pastorale. Anche nel caso in cui l’istituto beneficiale in quanto tale non dovesse essere soppresso dalle Conferenze dei vescovi, ma semplicemente trasformato, il fatto di sottrarre il clero al regime beneficiale privatistico di sostentamento economico per sottoporlo al regime di diritto pubblico del nuovo fondo diocesano, previsto dal can. 1274, avrà come conseguenza quella di far prendere maggiormente coscienza ai presbiteri della solidarietà totale che li lega tra di loro e con il vescovo.

All’abolizione del regime beneficiale risulta collegata, almeno di fatto, sia la soppressione dei diritti di presentazione, di nomina, di elezione popolare, oltre che dell’istituto del concorso, statuita dai Decreti CD 28, 1 ed Eccl. Sanct. I, 18, in base ai quali va interpretato il can. 523 che stabilisce una chiara presunzione giuridica in favore della libera collazione degli uffici parrocchiali da parte del vescovo diocesano.

7. Le conseguenze positive per il formarsi di un senso più globale dell’unità del Presbiterio dell’abolizione dell’istituto della inamovibilità postulata da CD 31,3, ribadita da Eccl.

Sanct. I, 20 § 1-2, e recepita dal can. 522, sono facilmente prevedibili. In rapporto con essa sta evidentemente, oltre che la normativa circa le dimissioni dei parroci per limiti d’età, regolata dal can. 538 § 3 nella scia di CD 31,4 ed Eccl. Sanct., 20 § 3, anche la nuova normativa del CIC sull’amozione e il trasferimento dei parroci dei can. 1740-1752, già preconizzata da CD 31 ed Eccl. Sanct., 20 § 1.

8. Tutti questi nuovi elementi hanno evidentemente un nesso con la nuova regolamentazione dell’Istituto dell’incardina- zione dei can. 265-272 prevista da PO 10, 2 e da Eccl. Sanct. I, art. 3. La maggiore mobilità impressa al clero, alla quale deve già essere preparato attraverso l’educazione nei Seminari (can. 257), contribuisce a creare un’immagine diversa del presbitero, rispetto a quella del regime codificatorio piano-benedettino. Da una parte sottolinea la responsabilità di tutti i presbiteri verso la Chiesa universale, fino al punto da lasciarsi determinare anche il proprio campo di lavoro, senza rimanere attaccato definitivamente alla propria attività pastorale in una Chiesa particolare, dall’altra insegna che il presbitero rimane strutturalmente determinato nella sua missione apostolica dal suo costante riferimento al vescovo.

9. Nel quadro di questa metamorfosi dell’identità del clero diocesano vanno iscritti due ultimi istituti: quello del conferimento «in solidum» di una o più parrocchie a più presbiteri (can. 517 § 1) e quello dei consultori diocesani (can. 502). Il primo istituto introdotto dal CIC tende a realizzare a livello parrocchiale una struttura che rispecchia in miniatura il modello stesso del Presbiterio. Infatti pur restando vero che l’istituto della responsabilità solidale è applicabile dal profilo tecnico con tutto il suo rigore giuridico solo nel caso previsto dal can. 517 § 1, è anche vero che, in senso lato e per analogia, esso offre una categoria per comprendere la natura della responsabilità, diversificata, ma nondimeno collettiva, di tutti i membri del Presbiterio di una Chiesa particolare.

Il Presbiterio è senza dubbio l’istituto del CIC che ha determinato inoltre, in modo più o meno esplicito, anche la relativizzazione del potere di governo nella diocesi dell’antico istituto del Capitolo cattedrale, nella misura in cui le singole Conferenze episcopali dovessero trasferire, sulla base del can. 502 § 3, le competenze non liturgiche del Capitolo al Collegio dei consultori, i cui membri provengono dal Consiglio presbiterale.

 

V. Conclusioni

Passando in rassegna tutti questi istituti del CIC, in parte nuovi, come quello della vita comune, del fondo diocesano comune, delle associazioni sacerdotali, delle dimissioni per limite di età, delle parrocchie affidate «in solidum», oltre che il fatto dell’abolizione del sistema beneficiale; oppure quelli largamente rimaneggiati, come l’istituto della territorialità, dell’inamovibilità, dell’amozione e trasferimento dei parroci, della incardinazione, del Collegio dei consultori e del Capitolo cattedrale, si deve constatare che essi sono stati introdotti nel CIC, e sottoposti a una profonda trasformazione, per garantire una convergenza più grande di tutti i presbiteri verso l’istituto fondamentale del Presbiterio. In rapporto a quest’ultimo, dal momento che determina centralmente tutta la struttura costituzionale della Chiesa particolare, tutti gli altri istituti acquistano una valenza di subordinazione funzionale.

La Chiesa particolare non è immaginabile senza il suo capo naturale, il vescovo; il vescovo diocesano, a sua volta, non è concepibile senza i presbiteri che con lui formano la realtà sinodale del Presbiterio. Tutti i rapporti esistenti tra il vescovo e i suoi presbiteri e tutti gli istituti in cui questi rapporti si articolano giuridicamente hanno un senso nella misura in cui lasciano emergere con trasparenza la priorità del Presbiterio e favoriscono la coesione interna di quest’ultimo.

Non è possibile dissolvere la responsabilità personale del vescovo in una responsabilità collettiva di tutti i presbiteri, quantunque il Presbiterio sia investito di una responsabilità sinodale. La diversità fondamentale tra la responsabilità collettiva e quella sinodale è determinata dal fatto che il potere decisionale non è, in quest’ultimo caso, affidato ad una maggioranza, ma ad una persona che ne è investita in forza del sacramento. Nel Collegio dei vescovi per contro in forza del fatto che la maggioranza deve comprendere anche il papa.

Il legame ontologico di natura sacramentale e giurisdizionale esistente tra tutti i membri del Presbiterio, permette di affermare che la missione pastorale è affidata, in una Chiesa particolare, al Presbiterio in quanto tale, su una base di responsabilità personale differenziata, ma sinodalmente reciproca e, per questo, dal profilo ecclesiologico non meno stringente di qualsiasi forma di responsabilità collettiva. Ciò significa, tra molte altre cose, che la coordinazione pastorale non trova la sua giustificazione nel principio razionale della efficienza, ma nella struttura ecclesiologica del Presbiterio stesso e che di conseguenza si impone come una necessità di ordine teologico.

 

 

[1] Non sono mancati riconoscimenti positivi a OT anche dal versante ecumenico. Tuttavia a distanza di tempo il Decreto ha palesato con più evidenza i suoi limiti. Per una prima valutazione e per l’analisi dello sviluppo storico del documento cfr. J. Neu- ner, Vatikan Ronzìi III, in: LThK, Freiburg-Basel-Wien 1967, 310-313.

[2] Per una analisi storica del processo di formazione del Decreto e dei tentativi di far convergere la discussione conciliare sui punti più essenziali della problematica, cfr. J. Lécuyer, Vatikan Konzillll, in: LThK, Freiburg-Basel-Wien 1968, 128-140.

[3] Vale la pena di sottolineare che nel Decreto PO il rapporto di frequenza del sostantivo «presbyter», rispetto a «sacerdos», è di circa 100 a 20.

[4] La ragione principale fatta valere nelle discussioni conciliari per l’uso del termine «presbyter» invece di «sacerdos», nel Decreto PO, non fu di ordine dottrinale, bensì pratico, cioè quella di chiarire senza equivoci che il Concilio intendeva occuparsi in questo documento non del sacerdozio in genere, dal momento che anche il vescovo è sacerdote, ma del grado inferiore del sacerdozio, vale a dire dell’ordine presbiterale; cfr. Lécuyer, art. cit134.

[5] «Sanctitatem propria ratione consequentur Presbiteri munera sua sincere et indefesse in Spiritu Christi exercentes».

[6] II termine «sinodale» è meno compromesso dal profilo giuridico del termine «collegiale», perché può comprendere, senza creare equivoci, tutti i comportamenti dell’attività apostolica dei vescovi e non solo quelli che sfociano in un atto collegiale vero e proprio; cfr. W. Aymans, Das Synodale Element in der Kirchenverfassung, MThS 30 (1972).

[7] Freiburg-Basel-Wien 1963, Band VIII, 725.

[8] Cfr. per esempio, J. Pascher, Bischof und Presbyterium, «Concilium» 1 (1965), 83-85; G. d’Ercole, Die Priesterkollegien in der Urkirche, «Concilium» 2 (1966), 487- 492.

[9] Sulla storia dei Capitoli cattedrale, cfr. P. Torquiebiau, Chapitres de Chanoines, in: DDC, III, 530-545.

[10] Sulla questione, cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyteriums, AfkKR 136 (1967), spec. 351-360.

[11] Per esempio, CD 28, 1: «Ordinis episcopalis providi cooperatores…»\ PO 2, 2: «Ordinis episcopalis… cooperatores».

[12] Vatikan Konzil, I, in: LThK, Freiburg-Wien 1963, 725.

[13] Textus emendatus 28, al. 3: «Presbyteri, Ordinis Episcopalis providi cooperatores eiusque complementum et organum… unum preshyterium constituunt…».

[14] «… habeatur… coetus seu senatus sacerdotum, Preshyterium repraesentantium, qui Episcoporum in regimine dioeceseos suis consiliis efficaciter adiuvare possit». Questo testo, che trova il suo riscontro in CD 27, 2, è stato applicato dal profilo legislativo da Eccl. San et., I, 15.

[15] «Presbyteri per Ordinationem in Ordine presbyteratus constituti omnes inter se intima fraternitate sacramentali nectuntur; specialiter autem in dioecesi cuius servitio sub Episcopo proprio addicuntur unum Presbyterium efformant».

[16] «… quare (presbyteri) unum constituunt presbyterium, atque unam familiam, cuius pater est Episcopus».

[17] «Episcopi vero, una cum suo quisque presbyter io… cum universali Ecclesia sen- tiant atque vivant».

[18] Cfr. per esempio, K. Rahner, Handbuch der Vastoraltheologie, I, Freiburg i.Br. 1964, 179-185; K. Mörsdorf, Die hierarchische Struktur der Kirchenverfassung, «Semi- narium» 18 (1966), 403-416; L. Weber, Der Priesterrat, «Der Seelsorger» 38 (1968), 105-118.

[19] Cfr. per esempio, PO 5,1: «In omnibus autem Sacramentis conficiendis… Pre- shyteri diversis rationihus cum Episcopo hierarchice coligantur».

[20] «Presbiteri omnes, una cum Episcopis, unum idemque sacerdotium et ministrium Christi ita participant, ut ipsa unitas consecrationis missionisque requirat hierarchicam eorum communionem cum Ordine Episcoporum…».

[21] PO 1,1: «Episcopi igitur, propter donum Spiritus Sancti quod preshyteris in sacra Ordinatione datum est, illos habent ut necessarios adiutores et consiliarios in ministerio et muñere docendi, sanctificandi et pascendi plebem Dei».

[22] II testo fondamentale del Concilio su questo punto è quello di LG 23, 1: «Episcopi autem singuli, visibile principium et fundamentum sunt unitatis in suis Ecclestis particularibus, ad imaginem Ecclesiae universalis formatis, in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia catholica exsistit».

[23] Resta comunque aperta la discussione a sapere se l’universale e il particolare connotano l’esistenza di due realtà ecclesiali materialmente diverse che si compenetrano – la Chiesa universale che si realizza nelle e dalle Chiese particolari – oppure se devono essere considerate piuttosto come due dimensioni solo formali, anche se necessarie, dell’unica Chiesa di Cristo.

[24] Cfr. a questo riguardo il testo di SC 41,2: «Quare omnes vitam liturgicam dioece- seos circa Episcopum praesertim in ecclesia cathedrali, maximi faciant oportet: sibi per- suasum habentes praecipuam manifestationem Ecclesiae baberi in plenaria partecipatio- ne totius plebis sanctae Dei in eiisdem concelebrationibus liturgicis… cuipraeest Episco- pus a suo presbiterio et ministris circumdatus».

[25] Anche i vescovi coadiutori e ausiliari appartengono al presbiterio.

[26] CD 8 a-b. Questo testo conciliare ha determinato il passaggio dal sistema tridentino della concessione, in base al quale si riteneva che il papa trasmettesse per delega poteri propri ai vescovi (per esempio con le Facoltà quinquennali), al sistema della riserva, in cui il papa ritiene per sé competenze, in vista di una più grande unità disciplinare, che di per sé spetterebbero ai vescovi diocesani.

[27] Per esempio, LG 28, 2; CD 28, 1; OT 9, 1; PO 2, 2; 4, 1; 8, 1-2; 12, 1 e 3.

[28] Sulla questione cfr. H. Müller, De differentia inter Episcopatum et Presbytera- tum iuxta doctrinam Concila Vaticani Secundi, PRMCL 59 (1970), 614-618.

[29] Cfr. LG 24, 2; NExP 2, 3; PO 7, 2.

[30] II problema della «sacra potestas» è un problema centrale della costituzione della Chiesa. Nella dottrina è stato affrontato con due soluzioni diverse. Nella prima si ritiene che l’ordine e la giurisdizione, pur essendo uniti tra di loro, sono due poteri distinti aventi un contenuto proprio e diverso; quello di ordine è conferito con il sacramento, mentre quello di giurisdizione con la «missio canonica». Nella seconda soluzione il potere di giurisdizione è considerato solo come formale, quasi non avesse un contenuto proprio. Tutto il potere è conferito con il sacramento, ma resta sotto il controllo delia giurisdizione che può legare o sciogliere «ad validitatem» il potere di ordine conferito sacramentalmente. Una terza possibilità sarebbe quella di considerare ordine e giurisdizione semplicemente come due dimensioni formali diverse dell’unica «potestas», che agirebbe nella sua totalità sia secondo la modalità specifica della logica simbolica del segno sacramentale, sia secondo la modalità della logica di comunicazione propria alla parola. La validità o invalidità degli atti sacramentali e giurisdizionali sarebbe determinata dal grado di comunione ecclesiale entro il quale essi vengono posti. Sulla questione, cfr. E. Corecco, La “sacra potestas” e i laici, «Studi parmensi» 28 (1980), 3-36.

[31] CD 30, 3: «ad eandem vero animarum cura efficaciorem reddendam, vita communis sacerdotum, praesertim eidem paroecae addictorum enixe commendatur»; PO 8, 3: «Insuper, ut presbiteri in vita spirituali et intellectuali colenda mutuum iuvamen inve- niant, ut aptius in ministerio cooperari valeant utque a periculis solitudinis forte orienti- bus eripiantur, aliqua vita communis vel aliquod vitae consortium inter eos foveatur, quod tamen plures formas, iuxta diversas necessitates personales vel pastorales, induere potest, nempe coabitationem, ubi possibiles est, vel communem mensam, vel saltern frequentes ac periodicos conventus».

[32] «Vitae Seminarii disciplina aestimanda est non solum validum vitae communis caritatisque praesidium sed totius institutionis necessaria pars ad sui dominium acquirendum, ad solidam maturitatem personae promovendam ceterasque animi dispositions effermandas quae ordinatam et fructuosam Ecclesiae operositatem maxime invanì».

[33] «… per vitam in seminario communem atqueper amicitiae coniunctionisque neces- situdinem cum aliis excultam praeparentur ad fraternam unionem cum dioecesano pre- sbyterio, cuius in Ecclesiae servitio erunt consortes».

[34] II testo del can. 280 è una sintesi di CD 30, 3, in cui la vita comune è raccomandata senza alcuna relativizzazione (dove però V«enixe» del testo conciliare è sostituito con «valde») e PO 28, 3, in cui si raccomanda solo una «aliqua» vita comune (il can. sostituisce «aliqua» con «quaedam»).

[35] Cfr. nota 31.