3. «Siate vigilanti con le lampade accese»*

Omelia per le esequie delle sei vittime di Locarno 22 ottobre 1986.

Tutto il Ticino e tutta la comunità diocesana guarda a voi, cari congiunti, e a queste sei bare con profonda emozione.
Una tragedia quasi concomitante ad un’ altra che ha appena avuto il suo epilogo in altre tre chiese e cimiteri della nostra terra.
Nove persone il cui destino è stato repentinamente cambiato, infrangendo, ad un tempo, il cuore delle persone più intimamente ad esse legate, ma anche l’incanto di tutto un Ticino che vive progettando nel lavoro un’esistenza possibilmente vissuta senza sofferenze e dolori.
Non è facile parlare al cuore di persone in cui, il dolore e lo smarrimento si sono insediati come l’ombra della notte quando prende possesso e si installa sulle opere umane, allontanando la luce del giorno.
Se vi rivolgo la parola, per insinuare nel vostro cuore un raggio di speranza e di luce, lo faccio nella certezza che quanto Cristo ci dice nel Vangelo di questa liturgia dei defunti è rivolto a tutti. Non è solo un monito a chi vive, affinché vigili nei confronti della morte, ma è un’esortazione rivolta anche a chi, come noi tutti, è colpito dal dolore e magari dalla tentazione della disperazione.
«Siate vigilanti e tenete le vostre lampade accese», il cuore aperto, per capire, quando la morte e il dolore ci chiamano inesorabilmente il significato dell’esistenza e ella presenza del mistero di Dio nel nostro destino.
Essere vigilanti, significa prendere coscienza del senso della nostra vita umana. Significa renderci conto di noi stessi, di quello che siamo, della nostra appartenenza a qualcuno che è altro rispetto a noi, infinitamente Altro.
Essere vigilanti dei momenti di gioia, vuoI dire che la vita per quanto piena e ricca di ricompense non ci appartiene, al punto di poter disporre in modo autonomo del suo possesso.
Essere vigilanti nel dolore, vuol dire che dobbiamo vivere la sofferenza senza credere che essa possa soffocare, o estinguere in noi, il significato della nostra vita e della nostra fondamentale dipendenza da Dio, al punto da poterci ribellare di fronte ad un repentino distacco fisico, alla rottura affettiva, alla fine di un dialogo nell’amore e nella responsabilità reciproca.
Anche nel dolore dobbiamo cercare di tenere accese le lampade della consapevolezza, che il destino della nostra persona, come quello dei nostri morti, no ci appartiene.
La verità ultima sull’uomo è data dal fatto della appartenenza della nostra persona a Dio, nella vita e nella morte.
La vigilanza cui Cristo ci richiama sta nel non permettere che si estingua questa consapevolezza, per saper intravedere, anche nel dolore, la presenza di Dio nel nostro destino, come Cristo stesso ha saputo riconoscere la presenza del Padre e ha saputo incontrarlo sulla Croce.
«Nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito». Cristo è il primogenito, l’emblema di tutti gli uomini, che dalla croce ci mostra come dobbiamo vivere nel momento dell’abbandono, della sofferenza e del dolore. Non perdere la consapevolezza della nostra appartenenza, della appartenenza della nostra persona a Dio. Questa è verità fondamentale della nostra fede. E’ per questo che professiamo di credere nella risurrezione dei morti.
Se la nostra persona, con il suo destino, non appartenesse a Dio, non avrebbe senso credere alla risurrezione dei morti.
Una tragedia vissuta censurando la consapevolezza della presenza del Padre che ci ha creati e del Cristo che ci ha redenti dalla colpa – anche se fosse difficile avvertirne immediatamente le implicanze – una disgrazia che estinguesse in noi la certezza della appartenenza della nostra vita al mistero di Dio, che si è rivelato attraverso il mistero della croce, si risolve in tragedia umana senza significato.
Non possiamo accettare come cristiani la posizione del Foscolo, benché tocchi i vertici della poesia, e ha contaminato tutta la cultura funeraria moderna, quando afferma che anche «la speme (la speranza), ultima Dea fugge i sepolcri e involve tutte cose l’oblio della sua notte». Il cristiano crede che non c’è oblio per se stesso, perché nella vita terrena e nella morte l’uomo sussiste nella forza, che Dio ha partecipato al suo essere e alla sua persona, fatta a immagine e somiglianza di Dio. Essere vigilanti significa perciò saper aprire il cuore a Dio per recuperare la coscienza della appartenenza della nostra persona e della nostra vita, proprio nel momento in cui è difficile capire o comprendere il senso e l’origine della tragedia che si abbatte sulla nostra esistenza.
Nessuno può avere la pretesa di capire, da subito, il significato e l’origine di una disgrazia, la ragione di un dolore, che sconvolge l’esistenza delle persone scomparse e di quelle rimaste.
Il senso può emergere solo più tardi, quando una persona riesce a capire il cambiamento che il Signore le ha chiesto, permettendo l’avverarsi di circostanze in ultima analisi inevitabili.
Se Cristo ci richiama ad essere vigilanti nei momenti di vita, gioia e soddisfazione, perché la morte non ci sorprenda nella distrazione rispetto al nostro destino ultimo, lo stesso Cristo ci richiama oggi in un momento di immenso dolore, personale e collettivo, a capire meglio noi stessi, a riflettere su quello che nella nostra vita può e deve ancora cambiare, perché il dolore che accompagnerà tutti, a lungo, e la disgrazia che turberà tenacemente la nostra memoria, non rimangano fatti stravolgenti, tragedia senza significato positivo per la nostra vita.
Scoprire Dio è il primo significato dell’uomo.
La solidarietà umana e la tenerezza della comunione cristiana con la quale tutti intendiamo accompagnare voi congiunti, in questo momento di smarrimento negli affetti, sono il pegno di quella risurrezione che ci auguriamo possa farsi strada poco a poco nel vostro cuore.