8. Legge e coscienza per l’uomo del terzo millennio

 

I. Gli orizzonti culturali preesistenti all’esperienza cristiana

La specificità delle diverse risposte date dal pensiero giuridico occidentale alla questione della natura del diritto e della sua forza vincolante in rapporto alla coscienza dei «subditi legum», può essere colta solo tenendo conto delle opzioni culturali di fondo in cui i vari movimenti di pensiero si iscrivono storicamente.
Due sono stati gli sbocchi ricorrenti, pur nella varietà delle forme e dei contenuti, del tentativo dell’uomo di eludere «il circolo diabolico delle apparenze cosmiche», senza indugiarvi «come il serpente che si morde la coda».
La prima via, secondo Hans Urs von Balthasar, è quella orientale che, di fronte all’assolutezza dell’essere, accetta l’assoluta relatività della realtà e della storia e tenta perciò un’uscita dalla contingenza della storia verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del «divino», concepito come realtà indistinta, omogenea e infinita, trascendente tutto ciò che è umano.
Questa elevazione filosofica, perpendicolare alla direzione orizzontale della storia, permette platonicamente di superare le contraddizioni terrene, ma tradisce ultimamente il destino dell’uomo di appropriarsi il mondo, vivendo un’escatologia senza storia.
La seconda via, quella occidentale, fa leva invece sulla volontà dell’uomo di cogliere nel concreto della propria storia il destino ultimo di sé e della realtà. Essa tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto messo in atto dall’uomo, all’interno del quale esso vive un’esistenza priva di escatologia.  Questo tentativo, iniziato con il messianismo giudaico, è stato ripreso in Occidente da Marx, il quale, radicalizzando l’idea del progresso, ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico.
Il cristianesimo preclude, con il principio dell’«incarnazione», qualsiasi possibilità di fuga dal mondo verso l’alto e verso l’avanti. Il cristiano è chiamato ad assumere il mandato mondano, senza soggiacere alla tentazione di procurarsi la salvezza con la propria forza, ma inserendosi nel piano di salvezza del Dio incarnato.
Ciò non esclude che, all’interno della stessa tradizione cristiana, l’approccio teologico e, di conseguenza, anche quello riguardante la valenza assiologica da attribuire ai sistemi normativi, abbia subito fino ad oggi l’influsso delle posizioni fìlosofiche e teologiche fondamentali emerse nel pensiero occidentale. Non tanto per identificarvisi, perché il fatto filosofico e teologico rimane trascendente ad esse, ma per trovare in essi uno strumento interpretativo razionale e unificante.
tentativi compiuti dalla filosofia del diritto per risolvere il problema dell’unità del diritto sono stati molteplici e tutti devono essere letti all’interno del sistema filosofico costruito dai singoli pensatori o da intere scuole, per dare una risposta alle questioni fondamentali della vita dell’uomo, della società e della storia.
In effetti, il problema fondamentale posto nel pensiero occidentale a partire dagli albori della filosofia greca è stato proprio quello dell’unità del diritto; problema che si è riproposto quando è iniziata, in tempi più recenti, una riflessione teologica consapevole sull’esistenza e sulla natura di quel peculiare complesso normativo costituito dal diritto ecclesiale, cioè da una  teologia del Diritto canonico. La domanda alla quale la filosofìa e la teologia, hanno dovuto e devono rispondere è la seguente: esiste un nesso di dipendenza ontologica tra le norme umane, contingenti e mutevoli, ed un’eventuale forma superiore di diritto, naturale o divino, che, pur trascendendole, le giustifica, conferendo loro una forza vincolante per l’esperienza sociale umana o ecclesiale, fino a toccare le coscienze individuali?Di fronte al fenomeno giuridico civile o ecclesiale, sia l’uomo che il cristiano, da sempre, hanno fatto, come ha osservato Erik Wolf, un’esperienza paradossale, poiché hanno incontrato valori apparentemente contraddittori, ma inscindibili tra di loro. Se la legge dello Stato ha come funzione sociale quella di garantire la libertà, essa si manifesta anche come elemento di coercizione. Allo stesso modo anche la legge canonica, la cui funzione è quella di garantire l’unità dell’esperienza cristiana, si rivela spesso come ostacolo ingombrante per il dinamico manifestarsi del carisma e dello Spirito.
Il rifiuto della persona umana di accettare gli elementi negativi del fenomeno giuridico ha continuamente suscitato, sia pure con effetti sporadici, il fenomeno dell’anarchia, e ha dato esca, nell’esperienza ecclesiale, al sorgere di tutti quei movimenti spiritualistici, che hanno anticipato le tensioni esplose poi con la riforma protestante.
Il conflitto tra il relativo e l’assoluto, il contingente e il trascendente, il particolare e l’universale, come tra la storia e l’escatologia, ha caratterizzato l’esperienza giuridica dell’uomo, sia nella società civile che in quella ecclesiastica. Era dunque inevitabile che questa esperienza umana paradossale stimolasse, per la sua eterogeneità, la riflessione, sia filosofìca che teologica, a interrogarsi non solo sull’origine e la natura, ma anche sull’unità intrinseca del fenomeno giuridico e, di conseguenza, sulla forza eticamente vincolante delle sue norme positive.  Quello dell’unità del diritto è sempre stato, infatti, il problema centrale della filosofia greca e cristiana e, in seguito, della teologia del Diritto canonico. Secondo la tradizione cattolica, alla norma canonica, in modo eminente, è sempre stato riconosciuto un valore vincolante per la salvezza solo a condizione che essa derivasse ontologicamente la sua esistenza da una norma superiore, quella del diritto divino, sia naturale che positivo.

II.  I Modelli filosofici fondamentali adottati dal pensiero cristiano

In ambito cristiano si possono delineare, senza volerne escludere altri, tre modelli filosofici fondamentali, di cui la teologia, in modo implicito o esplicito, si è servita per dare una infrastruttura fìlosofica, con valenza ontologica variabile, ai propri sistemi.
Questi modelli si sono sviluppati sull’humus delle rispettive matrici culturali, quella orientale e quella occidentale, cui ho accennato in precedenza.

1) Il modello platonico – II primo modello è quello platonico, riassumibile nel principio «universalia ante res». La metafisica platonica si costituisce sull’identificazione dell’idea trascendente del bene con l’essere. Le singole cose partecipano in modo precario o imperfetto ali essere assoluto delle idee o essenze universali e trascendenti, di cui non sono che una debole traccia.
L’archetipo, infatti, non è immanente alle cose sensibili, per cui il giusto e la giustizia non si realizzano nelle singole decisioni storiche, ma solo nell’idea trascendente di diritto di giustizia e di etica. Ne consegue che alla legge umana, così come ha tatto osservare il Fassò, più che una funzione giuridica, è stato attribuito un compito di natura prevalentemente etico-pedagogica.
Questo profilo si riflette con particolare evidenza nell’istituto dell «epikeia», considerato nell’accezione platonica come un divergere dal valore assoluto, cioè dall’archetipo, tollerato come concessione alla precarietà dell’agire umano. Sul piano teologico il luogo parallelo è quello dell’istituto dell’economia, specifico della teologia ortodosso-orientale.
Anch’essa lascia trasparire una concezione dei canoni come sovrastrutture socio-ecclesiali la cui verità risiede altrove, cioè nel dogma. La verità salvifica non è considerata dall’ortodossia come intrinseca alle norme canoniche, ma come esistente al di fuori di esse, cioè nel dogma. Alla legge, che il Concilio Costantinopolitano III (680-1) definisce solo come «ordinanza terapeutica», è assegnata perciò un’autorità solo condizionata.

2) II modello nominalista-francescano – II secondo modello culturale soggiacente al pensiero occidentale è quello nominalista, riassumibile nel principio «universalia posi res». Nel solco di Boezio (t 524) che, incline a un rigido realismo di estrazione neoplatonica, aveva negato ogni contenuto reale alle categorie aristoteliche, la scuola francescana affermava nel Medioevo che solo gli individui esistono realmente e che, di conseguenza, le idee universali sono solo«nomina», cioè semplici nozioni convenzionali e astratte dell’intelletto, prive di identità e contenuto metafìsico reale.
Al posto della metafisica subentra così un sistema in cui l’essenza delle cose non è più presente nelle categorie universali, ma è stabilita volta per volta dalla volontà di Dio. Questa inevitabile svolta volontarista del nominalismo lo ha condotto ad affermare che, dal profilo etico, ciò che conta non è la realizzazione del «telos», o finalità intrinseca alla natura delle cose, bensì l’obbedienza alla volontà di Dio. Un atto è buono non perché lo è intrinsecamente, ma perché è voluto da Dio.  Se esistono solo cose singole, prive di contenuto metafisico, diventa impossibile per la ragione umana risalire, con la forza dell’astrazione, dalla conoscenza empirica alla conoscenza dell’essenza delle cose, con la conseguenza che Dio e le verità soprannaturali sfuggono all’indagine filosofica e possono essere conosciute solo con la fede. Rompendosi il nesso ontologico tra la trascendenza e l’immanenza si rompe anche il nesso intrinseco tra il diritto divino e quello umano.
Il nominalismo, di cui Duns Scoto e Ockham furono gli autori eminenti, sfocerà in un volontarismo e positivismo giuridico ancora più rigido e radicale del loro con la filosofia moderna, che sostituirà la volontà di Dio, in quanto fonte immediata e normativa dell’etica e del diritto, con la volontà dello Stato.

3) II modello aristotelico-tomista – II terzo modello è quello ilemorfìsta, riassumibile nel principio«universalia in rebus». Aristotele attribuisce la realtà dell’essere – conosciuto attraverso l’elaborazione concettuale dell’esperienza empirica, operata dall’intelletto -, non alle idee astratte trascendenti, ma alla forza sostanziale, immanente alle singole cose. È la forma immanente che determina i singoli enti, facendoli passare dalla potenza all’atto.
L’«epikeia» assume così la funzione di applicare la norma positiva generale al caso particolare concreto. Essa non è più l’esito di un processo negativo, ma positivo, poiché permette di realizzare il valore universale, cioè la forma, in modo più perfetto al caso particolare.
Ne consegue che anche la norma legislativa non ha più solo forza etico-pedagogica, ma diventa fondamento reale dello Stato. Essa è chiamata a declinare storicamente il diritto naturale, dedotto dall’intelletto, osservando la natura razionale dell’uomo.
In quanto espressione della natura razionale, essenzialmente sociale, dell’uomo, il diritto naturale esercita una funzione di norma, cioè di forma, rispetto al diritto positivo. Questo diritto umano, per essere valido e vincolante, deve essere intrinsecamente razionale, dedotto, cioè, razionalmente, dal diritto naturale, «per modum condusionis, determinationis vel additionis».
La tradizione cattolica ha trovato nella metafisica ilemorfistica una struttura ontologica e uno strumento logico particolarmente congeniali per conferire plausibilità razionale al proprio modo di credere e pensare il mistero della salvezza; mistero cui soggiace come principio fondamentale quello dell’incarnazione, realizzatesi nella sua pienezza paradigmatica in Cristo.  L’assunzione definitiva nel pensiero cristiano del sistema ilemorfìstico è avvenuta ad opera di San Tommaso d’Aquino.  Egli ha recepito nel pensiero cristiano, sia l’apporto centrale dato dalla filosofìa greca alla cultura occidentale, con l’idea dell’esistenza di un diritto naturale razionale, sia l’apporto, non meno importante, del pensiero biblico.
La tradizione veterotestamentaria ha dato infatti tré contributi fondamentali, rimasti indelebilmente iscritti nel pensiero cristiano, che ha peraltro saputo integrare profondamente nel proprio sistema anche l’apporto della tradizione germanica, accogliendo la consuetudine quale fonte di diritto.
La legge ebraica, infatti, non è il logos greco eterno, immutabile e nascosto nella natura cosmica o in quella razionale dell’uomo, ma una legge voluta e rivelata direttamente da Dio.
Nella concezione ebraica non c’è posto per l’idea di un fondalento razionale del diritto e, conseguentemente, per una distinzione tra diritto naturale e diritto divino positivo. Esiste solo un diritto divino rivelato.
Il secondo apporto del pensiero biblico è stato quello del valore pedagogico della legge. Il decalogo è la sintesi dell’ordine immanente alla Creazione per il comportamento dell’uomo verso Dio e verso gli altri uomini. Non è solo fonte di conoscenza dei principi etici, ma è, in modo eminente, anche fonte i diritto. Nei dieci comandamenti norma giuridica e morale si identificano.
Il terzo elemento è quello della interiorizzazione del diritto, già preannunciato nel nono e decimo comandamento, ma ulteriormente sviluppato dall’intervento dei profeti, che hanno approfondito il carattere religioso-sociale della legge ebraica, offuscato dalle sovrapposizioni legalistiche dei rabbini.
Predicando la conversione del cuore e la santità, i profeti lanno smantellato il ruolo della pratica solo esteriore della legge, provocando un approfondimento interiore dell’esperienza etico-giuridica del Popolo ebraico.
Questo approfondimento, in cui è awenuta un’identificazione della pratica della legge con l’obbedienza alla volontà di Dio, ha evidentemente accentuato l’elemento volontarista, ripreso filosofìcamente e messo a tema solo più tardi, dalla scuola francescana nominalista e volontarista.
Se il problema dell’unità del diritto per la filosofia greca e,in particolare,  per  lo  stoicismo,   era  stato  quello  di  stabilire  un apporto ontologico tra il diritto naturale razionale e il diritto mano, per la tradizione cristiana, invece, fu quello di garantire in nesso ontologico anche tra il diritto naturale razionale e quello rivelato dalle Sacre Scritture.
Per compiere questa sintesi l’Aquinate riprende da Cicerole, attraverso Sant’Agostino, l’idea dell’esistenza di una «lex aeterna», intesa da San Tommaso, dopo averla purgata da ogni valenza panteistica, come piano razionale, con cui Dio conduce I mondo verso il suo fine.
All’interno della trilogia «lex aeterna – lex naturalis – lex hunana» venutasi a creare dopo gli interventi di Cicerone e Sant’Agostino, San Tommaso crea un rapporto di unità metafisica, che ha come fulcro la capacità conoscitiva della ragione umana.  L’uomo conosce la «lex aeterna»attraverso l’irradiazione onto-logica che di essa egli trova nella propria natura razionale. Interpretando le inclinazioni fondamentali inerenti a questa sua natura razionale, l’uomo formula la «lex naturalis». Dalla legge naturale, la retta ragione pratica, che è precisamente ciò per cui l’uomo partecipa all’essenza divina, deriva la legge umana.
Ne consegue che una legge umana, contraria a quella naturale, è contraria anche alla «lex aeterna» e perde ogni forza vincolante in coscienza: cessa di esistere come legge, perché diventa una «corruptio legis», posta al di fuori della stessa sfera giuridica.
Il rigore assoluto con il quale San Tommaso fissa metafisicamente l’unità ontologica della legge umana, sia con quella naturale che con quella eterna, lo porta a ribadire con determinazione una dei principi fondamentali del pensiero cristiano antecedente: quello che le norme umane, quando sono giuste, non regolano solo le azioni esteriori dell’uomo, ma obbligano i sudditi anche «in forum conscientiae». Questo principio sancisce anche, sia pur nella loro distinzione, l’unità tra il diritto e la morale.  La sintesi del pensiero giuridico cristiano è stata elaborata da Francisco Suàrez (+ 1617) nel suo poderoso Tractatus de Legibus ac Deo Legislatore, tre secoli e mezzo dopo la morte di San Tommaso.
Il titolo dell’opera, in cui non a caso Dio appare come legislatore, lascia chiaramente intravedere la svolta nominalista-volontarista occamiana, che, dopo San Tommaso, era avvenuta in seno alla teologia cattolica. Nel sistema del «Doctor eximius» non solo il diritto positivo è rivelato, ma anche il diritto natura-le è dichiarato divino. Il principio dell’unità intrinseca di tutte le espressioni del diritto raggiunge con Suàrez la sua più stringente realizzazione ontologica.
In effetti, nel sistema suaresiano, mentre il diritto civile umano ha come ascendente il diritto divino naturale, il Diritto canonico trova la sua fonte immediata di derivazione nel diritto divino positivo. In forza della dipendenza ontologica del diritto civile umano dal diritto divino naturale, San Tommaso aveva affermato che il legislatore umano può vincolare i suoi sudditi non solo esternamente, ma anche in coscienza. Dalladipendenza ontologica specifica della legge canonica dal «ius ìivinum positivum», conoscibile solo per fede, il «Doctor eximius» arriva a concludere che il legislatore ecclesiastico ha anche il potere di esigere dai propri sudditi addirittura il compimento di atti umani solo interni, portando alle estreme conseguenze il processo di interiorizzazione del diritto, affermato dalla tradizione biblica, nel nono e decimo comandamento del Decalogo.
Il pensiero giuridico cristiano, che da sempre aveva affrontato il problema del diritto secolare e canonico servendosi dello stesso concetto formale di diritto e applicando lo stesso procedimento metodologico, ha raggiunto così l’apice del suo sviluppo. Da allora in poi non ha subito sostanziali modificazioni, malgrado la neoscolastica abbia tentato di riproporre lo stesso spunto secondo forme più consone al pensiero moderno.
Con san Tommaso, da una parte, ha affermato che la legge umana statale, quando è giusta, vincola non solo esteriormente, ma anche in coscienza; con Suàrez dall’altra, che la legge canonica può esigere dai fedeli addirittura il compimento di atti umani solo interni, come per esempio il dovere di tendere verso la santità per i religiosi (can. 593 del CIC del 1917) o quello, esteso a tutti i fedeli chierici, religiosi e laici, di conservare sempre la comunione anche interiore con la Chiesa (can. 209 § 1del nuovo CIC).
Ne consegue, sotto un profilo di ordine generale, che anche il Diritto canonico diventa essenziale all’esperienza cristiana, ne più ne meno del dogma, essendo parimenti ordinato al disegno salvifico.

III. Lo svilupppo del rapporto legge-coscienza nell’eopoca moderna

Quando Suàrez, nel 1612, pubblicava il suo trattato De Legibus, facendo l’ultima grande sintesi del pensiero giuridico cristiano, antico e medioevale, l’epoca moderna era già iniziata, sia con il Rinascimento, che con la Riforma protestante.
La rottura con la concezione scolastica del diritto, rimasta sempre integrata in una concezione teologica globale, si è consumata seguendo due direzioni reciprocamente contrapposte.
Mentre la riforma si qualifica per il suo spunto profondamente religioso e per il suo spiccato senso della trascendenza, il Rinascimento ha posto le condizioni per lo sviluppo di un diritto immanente e secolare fondato esclusivamente sulla ragione umana.
Elemento comune di questi due movimenti di pensiero fu l’individualismo, perseguito dal nominalismo e dal volontarismo, che si smaschererà come rottura radicale con la concezione medioevale oggettivistica del mondo e dell’uomo e perciò come posizione soggettivistica. Da questo spunto filosofico comune, che aveva una radice religiosa e una areligiosa, è nata una nuova concezione culturale in cui la filosofìa del diritto e la dottrina giuridica si sono secolarizzate, separandosi dalla morale.

1) L’ascendenza genealogica protestante – L’accentuazione medioevale della trascendenza si è dissolta, nel protestantesimo, in una concezione escatologica radicale della storia. Il mondo diventa il luogo dove Dio, che giustifica l’uomo solo estrinsecamente, esercita il suo dominio attraverso la sua legge positiva.
L’idea luterana della giustificazione, concepita solo come una «non imputatio peccati» estrinseca, ha creato un rapporto di libertà che sottrae l’uomo da ogni mediazione dell’autorità umana, ecclesiale e secolare.
L’uomo religioso, cioè l’«homo interior», gode della libertà «coram Deo». E tenuto ad obbedire alla «lex caritatis» o «lex Christi», preposta al Regno della mano destra, nel quale sta il credente, solo quando in forza della fede la riconosce come vincolante nell’intimo del suo cuore. In forza del principio della libertà cristiana questa «lex Chrisfi», o legge spirituale, esige solo una conversione inferiore, non un comportamento esterno. L’atto esteriore è semplicemente la derivazione spontanea della conversione interiore.
Nel Regno della mano sinistra, dove stanno invece gli increduli, vige il diritto dello Stato, fondato non più sull’amore, ma solo sul potere. Esso è rivolto all’«homo exterior» ed esige da lui solo un comportamento esteriore, prescindendo dalla coscienza.
Il potere secolare che si occupa solo dell’ordine esterno della comunità, fondato esclusivamente nella volontà del legislatore e non nella razionalità della norma, non raggiunge i credenti che vivono nel Regno di Cristo o Regno spirituale. Essi sono esenti. Tuttavia si sottomettono liberamente alla legge dello Stato, in obbedienza al precetto di Cristo dell’amore per il prossimo, per aiutare i non credenti a gestire la società. Mentre Hobbes dirà: «auctoritas, non veritas, facit ius», per Lutero bisognerebbe dire: «caritas, non auctoritas, facit ius».
Se, da una parte, la morale viene a coincidere con l’amore del prossimo e non più con l’adesione a valori positivi immanenti alla norma etica o giuridica, dall’altra, la posizione centrale assunta dalla libertà di coscienza «coram Deo», ha avuto in seno al protestantesimo una duplice e contraddittoria conseguenza. Da una parte la tentazione pietista di sottrarsi dall’impegno politico-morale, per coltivare esclusivamente un’interiorità soggettiva in un’attesa escatologica; dall’altra, l’abbandono progressivo del mondo alla sua dinamica di secolarizzazione, consumato dal protestantesimo liberale.

2) L’ascendenza genealogica rinascimentale – II Rinascimento pone l’uomo, con la sua ragione autonoma e la sua libertà sovrana, al centro dell’universo, quale «Deus in terra», come aveva affermato l’umanista Marsilio Ficino (1499). Grazie ai presupposti nominalistici, tuttavia, l’uomo non è più considerato, come invece nell’antichità, prioritariamente quale membro della città-Stato o, come dopo Alessandro Magno, quale membro della cosmopolis. Non è più considerato neppure quale soggetto del «Corpus mysticum» di Cristo e del «Sacrum Imperium», bensì come semplice individuo, dalla cui somma risulta lo Stato. All’interno di questo orizzonte individualista generale la filosofia del diritto si muove seguendo alcuni assi di sviluppo.
La maggioranza dei teorici dello Stato dei primi tre secoli dell’epoca moderna considera lo Stato, non come realtà risultante organicamente dalla natura sociale dell’uomo, bensì come una sovrastruttura posta in essere da un contratto sociale stipulato tra gli individui.
Il primo asse di sviluppo avviene sostituendo al metodo deduttivo della metafìsica il metodo empirico induttivo del nominalismo, coniugandolo con la scienza matematica, considerata quale scienza universale da Descartes e applicata alla dottrina dello Stato per la prima volta da Francis Bacon, nel suo Novum organum (1620).
In questa concezione meccanicistica il diritto è considerato come semplice tecnica, cioè quale strumento per perseguire qualsiasi scopo utile prefissato all’interno dell’organizzazione del potere. Quale oggetto di ricerca il diritto è sottratto così alla ricerca filosofìca, fino ad essere considerato, assieme alla morale, solo come espressione del potere, oppure come sovrastruttura rispetto al mondo reale.
Il secondo asse di sviluppo è quello che cerca di ricuperare, sempre nel solco della filosofìa greca, la natura sociale dell’uomo quale fonte del diritto; prima nel suo aspetto razionale, come in Grotius; poi nella sua dimensione istintiva, come in Hobbes, Spinoza, Locke e Rousseau.  Secondo lo sviluppo razionale, il diritto non è tuttavia considerato, a differenza della scolastica, come frutto della ragione illuminata dalla rivelazione, ma di una ragione autonoma ed immanente a se stessa. Come per san Tommaso, il diritto è, tuttavia, restituito da Leibniz alla dignità di essere oggetto della giustizia, di cui la fonte non è la volontà ma la giustizia di Dio.  Dopo l’esperienza del nominalismo si arriva così a riaffermare che il diritto non è diritto perché Dio lo vuole, ma che Dio lo vuole perché è giusto.
Questo superamento del nominalismo volontarista, tuttavia, non sfocia in una riabilitazione del pensiero scolastico, poiché autori appartenenti alla corrente protestante pietista, come Christian Thomasius (1728) e Samuel Pufendorf (1694) lo sottraggono definitivamente alla teologia. La«lex divina», quale fonte di diritto, è da loro eliminata definitivamente dalla storia del pensiero giuridico, provocando un’irreparabile rottura del rapporto della legge con la coscienza.
Secondo lo sviluppo naturalista il diritto cessa di essere un’ordine di norme etiche naturali, per diventare espressione dell’istinto, controllabile solo da un potere più forte, che, nella meccanica delle forze sociali, tende a costituirsi come dittatura della maggioranza. È proprio paradossalmente in Jean-Jacques Rousseau che l’idea di libertà totale si trasforma in potere dello Stato totale, che controlla tutta la vita dell’uomo.  Il terzo asse di sviluppo è quello del recupero, come fonte di diritto, non tanto della natura umana in quanto tale, ma della sua struttura comunitaria. La comunità non è più, per Hegel una limitazione, ma un potenziamento della libertà del singolo.’ Lo Stato non è subordinato nella sua sovranità, ne al diritto divino, ne a quello naturale: è una totalità etica che riunisce in sé diritto e morale. E un universo morale che assorbe in sé l’individuo, per il quale il dovere supremo è quello di essere membro dello Stato.
Non esistono più norme giuridiche immutabili, perché il diritto è solo storico e positivo e coincide con lo spirito oggettivo di un popolo determinato, in cui prende corpo lo spirito universale immanente al mondo. Lo Stato è l’interprete di questo spirito e si costituisce come l’unica fonte del diritto.  Un certo recupero fondamentale del rapporto diritto e coscienza è avvenuto, evidentemente, con Immanuel Kant, il quale, in polemica contro ogni forma di diritto naturalistico meccanicistico, ha esercitato senza dubbio un enorme influsso sulla concezione contemporanea del diritto e dello Stato.  Pilastro della sua costruzione filosofìca è la necessità di salvare la libertà dell’uomo, per conservarne intatta la capacità morale. La moralità, tuttavia, non è determinata dal contenuto buono della norma morale o giuridica, bensì solo dalla intenzione soggettiva.
Poiché è possibile costringere un altro a volere un fine buono con una buona intenzione, ne consegue, per Kant, che la forza vincolante della legge civile, la quale in se stessa deve essere morale, non è legata alla sua capacità di vincolare l’uomo in coscienza.
Se, da una parte, Kant esclude l’esistenza di una teoria del diritto di carattere solo empirico e positivista, dall’altra, però, non riesce a stabilire una relazione intrinseca, vincolante e ne-‘ cessarla, tra la legge statuale e la coscienza. Ciò che conta ultimamente, non è la possibilità di determinare la moralità dell’uomo, vincolando la sua coscienza attraverso il contenuto buono della legge, ma di garantire la realizzazione della legge in quanto tale, attraverso la forza.
3) Gli ultimi sviluppi – Da queste premesse è dato constatare come la legge abbia perso nel corso della modernità la sua connotazione pedagogica e morale, presente sia nella tradizione greca, specialmente platonica, sia in quella giudeo-cristiana, mantenendo solo quella ordinatoria. In tempi recentissimi la situazione si è ulteriormente aggravata, grazie alla complicità, prima di Max Weber, poi di Hans Kelsen.
Il primo, perché affida alla norma il compito di fissare in termini giuridici i comportamenti umani rilevati dalla sociologia, senza pretesa di riferimento ai valori morali; il secondo, perché identifica il concetto di diritto con la sua struttura puramente formale, cioè con il concetto della pura relazionalità, prescindendo totalmente dal contenuto, non solo economico, enfatizzato in precedenza da Karl Marx, ma anche sociologico ed ideologico.
La validità della norma, e di conseguenza la sua forza vincolante, che evidentemente prescinde da ogni pretesa sulla coscienza dell’individuo, non discende dal suo contenuto etico, ma solo dal fatto di essere emanata con atto particolare di volontà dello Stato – che si identifica con l’ordinamento giuridico – in conformità alla norma fondamentale, cioè alla Costituzione votata dall’assemblea dei cittadini.
Questa forma, ultima e più pura di positivismo giuridico, rinuncia così in modo definitivo ad affermare in assoluto cosa è giusto o ingiusto: rinuncia cioè al concetto stesso di giustizia, lasciando la coscienza del cittadino totalmente libera di fronte alla norma giuridica.
Questa linea di sviluppo sembra essere contrastata, ma forse solo temporaneamente, dalla riscoperta del diritto naturale dopo la seconda guerra mondiale, sia con la «Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo» del 1948 e la «Costituzione di Bonn», della Germania federale, ma anche dalla filosofia e dalla dottrina giuridica germanica. Quest’ultima ha stabilito, infatti, un chiaro rapporto tra i diritti fondamentali del cittadino e i valori fondamentali del sistema costituzionale.
A titolo di esempio possiamo enucleare una fattispecie particolare in cui l’estraneità tra il diritto e l’etica si manifesta attualmente con particolare evidenza: quello dell’obiezione di coscienza.
L’obiezione di coscienza, infatti, per definizione stessa, ha un ruolo paradigmatico nel rapporto tra legge e coscienza.  Le varie forme moderne di obiezioni, se dal profilo individuale sono determinate da un’opzione ideologica o etica, sono assecondate dalla norma statuale, non in tale loro intrinseco valore, ma solo perché giustificate in ragione di una libertà, che lo Stato e la norma statuiscono ai singoli, ritenendola compatibile con il sistema giuridico complessivo. Pertanto si può dire che le obiezioni di coscienza sono dal punto di vista dell’ordinamento una sempre più evidente espressione di una carenza di fondamenti ontologici ed etici.
In sostanza mi sembra di poter rilevare, nella dinamica in cui si realizzano concretamente le forme di obiezione, una prevalenza dell’aspetto ordinatorio e politico su quello etico. Si tende, cioè, ad ammettere l’obiezione come manifestazione di libertà, purché sia compatibile con l’ordinamento complessivo o di settore, anziché come espressione riconosciuta di valori etici oggettivi, come tali e nella loro efficacia derogatoria, ammessi ad una protezione da parte dell’ordinamento.
Per essere più esplicito vorrei portare l’esempio dell’ordinamento elvetico nel quale l’obiezione di coscienza al servizio militare, attualmente non ammessa, si pensa potrà esserlo in futuro per motivi religiosi e umanitari, ma non per motivi politici. Ciò denota per un verso il declassamento dell’elemento etico-religioso, e per altro verso e specularmente, la sopravvalutazione del profilo politico, che in sostanza coincide con esigenze di autoconservazione dello Stato, come ordine costituito.

IV. CONCLUSIONE

Le considerazioni sin qui svolte meriterebbero un più ampio sviluppo.
Nonostante ciò, credo possa facilmente individuarsi, come dato tendenziale dell’esperienza giuridica contemporanea, la progressiva affermazione della libertà – nelle sue innumerevoli estrinsecazioni – non in ragione dei valori di cui consente l’inveramento, ma come – e se – risultante di un bilanciamento di volizioni contrapposte e potenzialmente confliggenti.
Da un lato, la volontà statuale che si manifesta nel momento normativo; dall’altro, la volizione individuale che tende a sottrarsi a quel comando, in omaggio – e questo è il punto centrale – ad una libertà soggettiva, che tende ad autogiustificarsi, vale a dire, a non giustificarsi ne a motivarsi eticamente.
Il dato centrale di questa dialettica finisce così per essere non un confronto di valori, ma un equilibrio tra libertà, che si disconoscono nelle loro peculiari motivazioni.
Questa, a mio avviso, è la risultante di un processo involutivo avviato a partire dal divorzio avvenuto tra il diritto e la morale, iniziatesi con il nominalismo volontarista. A questo fattore, che ha condizionato profondamente tutta la cultura moderna, non solo quella giuridica e legislativa, si deve aggiungere, oggi, un altro fattore molto rilevante: quello del carattere pluralistico, se non addirittura cosmopolita, assunto dalla società democratica.  Anche se fosse ipotizzabile – ma lo si può fare solo con grande idealismo – un ritorno a lungo termine della metafisica, con una concezione del diritto più orientata verso la morale e perciò con la pretesa di essere più vincolante per le coscienze, non si può prescindere dal fatto che la legge di uno Stato pluralista post-moderno, di fatto, difficilmente potrà rivendicare di essere apportatrice di valori etici, se non universalmente riconosciuti, sostenuti almeno da un ampio consenso.
Di fronte a questa prevedibile, ulteriore perdita di valori e contenuti etici della legge, il cittadino può reagire in modo diverso, a dipendenza della sua posizione culturale. Da una parte, rivendicare in modo sempre più determinato il diritto all’obiezione di coscienza, quando constatasse che il contenuto etico (o non etico) della legge non coincide con le convinzioni della sua coscienza; dall’altra, impegnarsi democraticamente per un recupero etico nell’ordinamento giuridico statuale.  Ogni cittadino, e perciò anche il cristiano, ha il diritto e il dovere di porsi nella società democratica, qualificandosi secondo la propria identità. In particolare, il cristiano non può dimenticare che nella propria tradizione culturale è indelebilmente iscritta la convinzione che la legge, anche statuale, non solo deve essere giusta, ma svolge, per sua natura e di fatto, una funzione pedagogica, positiva o negativa, nei confronti della coscienza dei cittadini.
Il primo rimedio di fronte alla situazione attuale è senza dubbio quello di ricostruire le coscienze dei cristiani stessi, attraverso un impegno di rievangelizzazione, sia della comunità cristiana, che della società. Questo sforzo non può avere come conseguenza immediata se non quella di accentuare il fenomeno dell’obiezione di coscienza e di sottolineare contemporaneamente il suo diritto all’esistenza.
Il secondo rimedio, il cui esito, evidentemente, non dipende solo da chi lo pone in atto, ma anche dalle altre forze sociali e culturali presenti nella compagine democratica dello Stato, è quello di riproporre alla società, per il bene comune della stessa, una concezione della legge che non abdichi di fronte alla sua funzione pedagogica.
In questa convinzione, il cristiano è sorretto dalla propria esperienza ecclesiale. Nel corso di questo esposto ho fatto spesso riferimento al diritto canonico, sia perché dobbiamo rimanere consapevoli del fatto che l’ordinamento giuridico ecclesiale, non solo è l’unico diritto internazionale codificato, ma ha come referente almeno un sesto dell’umanità; sia perché è veicolo della tradizione della Chiesa nel senso proprio della parola. Una tradizione che ha la sua fonte nella rivelazione, la quale ha fatto conoscere all’uomo, non solo l’esistenzà di un diritto divino positivo, ma anche il carattere vincolante interiore della legge sulla coscienza dell’uomo e, di conseguenza, la sua funzione pedagogica. Il Diritto canonico ha perciò carattere profetico nei confronti della società e il cattolico non può misconoscerlo.
Karl Barth, pur partendo da presupposti dottrinali diversi da quelli della teologia cattolica, non ha esitato ad affermare che la Chiesa, essendo più vicina a Cristo dello Stato, conosce meglio lo Stato di quanto esso non conosca se stesso. Conosce perciò meglio anche la natura e la funzione della legge di quanto non la conoscano lo Stato e la società. E un’affermazione che non posso non condividere profondamente.