3. La verginità del presbitero

Lettera ai membri del Presbiterio Diocesano, Giovedì Santo 1988

Carissimi con fratelli nel sacerdozio,
in questo Giovedì Santo, in cui facciamo memoria dell’istituzione del sacerdozio ministeri aIe della «nuova ed eterna alleanza», è mio vivo desiderio esprimervi una parola di sostegno e di ringraziamento. Ogni vescovo svizzero è stato invitato a fare altrettanto dai vescovi, vicari generali ed episcopali svizzeri, assieme a un gruppo di sacerdoti in rappresentanza dei diversi presbitèri diocesani, riuniti nell’aprile del 1987 a pregare e riflettere sul modo di aiutarsi ed aiutare i propri confratelli a vivere la verginità nell’ esercizio del ministero sacerdotale.
Come ben sapete, la Chiesa latina ha progressivamente abbinato il sacerdozio ministeriaIe con l’impegno di rinunciare allo stato matrimoniale e di assumere, conseguentemente, quello della castità perfetta 13.
Ciò si è tradotto nella prassi di scegliere, tra i candidati al sacerdozio, solo quelli disposti ad abbracciare liberamente la verginità «per il regno di Dio».14 In questa chiamata oggettiva del Vescovo si è configurato e precisato concretamente, anche per tutti noi, il desiderio personale di accedere al ministero sacerdotale.
Tanto la disciplina ecclesiale di legare il ministero sacerdotale alla scelta del celibato, quanto la vocazione personale alla verginità nell’esercizio di tale ministero, sono oggi travagliate da una crisi diffusa. Le ragioni sono molteplici ed è perciò opportuno analizzare brevemente quelle d’ordine dottrinale e quelle d’ordine esistenziale.

I – Le ragioni dottrinali dell’abbinamento del sacerdozio alla verginità

1) Il significato teologico della tradizione ecclesiale latina

I motivi che hanno indotto la Chiesa latina a fare questo abbinamento tra sacerdozio e verginità e ad imporlo, dal secolo XII in poi, come imprescindibile nei confronti di tutti i candidati al sacerdozio ministeriale, furono di natura e di valore diversi. 15 Non v’è dubbio tuttavia che, anche se in modo non sempre lineare, su tutte le motivazioni storiche, sociologiche, ascetiche e pratiche, è prevalsa la convinzione dell’esistenza di un rapporto di reciprocità profonda tra il sacerdozio ministeriale e lo stato della verginità, comunemente definito «celibato», anche se non senza qualche rischio riduttivo.
Il fatto che non tutte le grandi tradizioni ecclesiali, in Oriente come in Occidente, siano arrivate in merito alla stessa conclusione e alla stessa disciplina non deve sorprendere.  Anche su molte altre questioni dottrinali, presupposti culturali diversi hanno favorito il formarsi di tradizioni teologiche differenti. All’interno di queste ultime, sia a proposito del sacerdozio del clero diocesano, sia a proposito del matrimonio, si sono sviluppate sensibilità teologiche ed ascetiche diversamente accentuate, che hanno in seguito determinato in concreto l’esperienza cristiana dei rispettivi fedeli, chierici e laici.
Per noi cattolici latini, il binomio sacerdozio-verginità rappresenta uno di quei settori della conoscenza del mistero cristiano in cui è avvenuto un approfondimento specifico della fede. In quanto conoscenza rimane perciò irreversibile.  In effetti, anche guardando alla nostra vita sacerdotale, nella misura in cui la nostra scelta è stata libera, ci accorgiamo come la verginità sia stata, ed è, un dono di Dio, al quale non potremmo più rinunciare senza mettere profondamente in discussione il nostro destino personale;16 destino dal quale ci siamo lasciati determinare e al quale vorremmo poter sempre essere in grado di corrispondere in modo responsabile.
È a partire da questa riflessione sulla modalità concreta secondo cui ha avuto origine la nostra vocazione personale al sacerdozio ministeriale, che dobbiamo contare per superare e vincere, con l’aiuto della Grazia, le difficoltà di ordine dottrinale e pratico con le quali siamo costantemente confrontati.
Tra le più importanti difficoltà, la prima è di natura teorica. Deriva dal fatto che l’accettazione coerente della reciprocità inerente al sacerdozio ministeriale e alla verginità, affermata progressivamente dalla Chiesa latina, senza essere riuscita fino ad oggi a giustificarne in modo teologico compiuto la necessarietà intrinseca ed assoluta, implica la disponibilità di far credito alla intuizione di natura carismatica del Magistero. Ciò è tanto più difficile in quanto sembra sminuire in qualche modo il valore, ecclesiale della tradizione orientale, ortodossa e cattolica.
E tuttavia un fatto che su questo problema specifico, come su molti altri, diversamente recepiti e approfonditi nelle due Tradizioni, è avvenuta in Occidente una evoluzione, sfociata in una comprensione dottrinale sempre più organica, come dimostrano i più recenti e sempre più frequenti documenti del magistero papale 17. L’universalità implicita di questa dottrina cattolica è già stata ampiamente documentata dal fatto che, in Oriente come in Occidente, è riconosciuta la imprescindibilità della verginità nel ministero episcopale, che, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, è l’espressione più totale del sacerdozio stesso 18.
Inoltre, non va dimenticato come non siano poche le verità teologiche, come per esempio i dogmi mariani, la cui formulazione dottrinale è avvenuta, sia a partire dall’affermazione della loro convenienza intrinseca all’interno del Nexus mysteriorum, sia a partire dal fatto che la devozione e il sensus fidei dei fedeli hanno anticipato la loro evoluzione dottrinale definitiva.

2) La verginità di Cristo: fondamento della verginità del presbitero

Se il secolo XVIII ha assistito al tentativo massiccio dell’illuminismo di smantellare il celibato dei preti, tradottosi in una produzione di almeno 1000 pubblicazioni pro e contro, non deve sorprenderci il fatto che anche oggi la questione della soppressione del carattere obbligatorio del celibato venga di nuovo apertamente discussa.
I motivi possono essere in parte diversi da quelli emersi nel secolo dei lumi, perché ricavati da un’esigenza non solo naturalistica, ma anche pastorale e perciò, presumibilmente, di origine ecclesiologica. Tuttavia, è innegabile che anche oggi assistiamo ad una flessione nell’opinione pubblica ecclesiale, in cui si è insinuata la mentalità pragmatistica contemporanea. Essa tende a ridurre il sacerdozio ministeriale a semplice funzione.  Questa mentalità, purtroppo sempre più diffusa anche nei nostri ambienti, dimentica che il sacerdozio ministeriale si costituisce prima di tutto come configurazione ontologica, e non solo etica, del soggetto alla persona di Cristo. Questa configurazione a Cristo è essenzialmente diversa da quella conferita dal sacerdozio comune 19. Infatti, il presbitero partecipa al mistero della persona di Cristo non solo come tutti i fedeli laici, attraverso il sacerdozio comune conferito dal battesimo, ma anche attraverso Il sacramento dell’ordine .L’ordine sacro, a sua volta, conferisce una nuova configurazione a Cristo che per sua natura postula una adeguazione strutturale ed esistenziale sempre più profondatra la persona del sacerdote e la persona stessa di Cristo.  Se la partecipazione ontologica del presbitero al mistero della persona di Cristo è totale dal profilo sacramentale, ne deriva che anche la sua testimonianza, non solo soggettiva, ma anche oggettiva, dipendente cioè dal ministero ecclesiale ricevuto e legata al suo statuto strutturale di vita, dovrebbe essere totale.
La verginità di Cristo tocca l’essere stesso della Sua persona. Egli è una cosa sola col Padre e con lo Spirito.  La Sua esistenza umana è tutta informata da questa verità ontologica, anche nei suoi aspetti morali; da essa emerge con particolare evidenza la logica della «kénosi», che trova nel «non possesso», o donazione totale e verginale della propria vita, la sua massima espressione. La verginità di Cristo consiste perciò sostanzialmente nella Sua donazione totale e diretta al Padre, senza alcuna mediazione creata. Come tale dovrebbe riflettersi anche nella verginità del sacerdozio ministeriale.
Il significato ecclesiologico di questa verità cristologica risulta più chiaro nel paragone con quello del sacramento del Matrimonio.

3) La specificità ecclesiologica dei sacramenti dell’ ordine e del matrimonio

La comprensione teologica del sacramento del matrimonio ha assunto in questo ultimo secolo un approfondimento tale, da parte della teologia latina, che supera di gran lunga lo sviluppo avvenuto nei quasi due millenni precedenti. Ha infatti messo in evidenza con determinazione sempre più penetrante, non solo il fatto che il sacramento del matrimonio consiste in una partecipazione ontologica al mistero dell’amore di Cristo per l’umanità, ma anche che esso possiede un suo significato ecclesiologico specifico.20 Grazie alla assunzione del matrimonio naturale nell’ambito sacramentale, specifico della Chiesa in quanto tale, il matrimonio rappresenta il punto in cui avviene il nesso più penetrante tra la Chiesa e la storia, la cui sopravvivenza e la cui evoluzione sono legate al rapporto tra l’uomo e la donna nel matrimonio.21 Se il sacramento del matrimonio rappresenta l’espressione più compiuta della secolarità del cristiano, conferitagli già con il sacramento del battesimo, ci si deve domandare in che misura il significato e !’impegno del fedele laico sposato possa essere compatibile con il significato e l’impegno inerente alla ministerialità sacerdotale, tutta tesa a garantire l’unità sacramentale della comunità cristiana. Di conseguenza una domanda si impone immediatamente: è possibile che nella stessa persona si realizzino entrambe le vocazioni ecclesiologiche e a pari titolo di impegno prioritario? Da una parte, il significato ecclesiologico totale del sacramento del matrimonio che – proprio perché in esso l’economia della grazia si manifesta come indissolubilmente vincolata a quella della natura – è totalmente orientato verso la realizzazione della presenza missionaria della Chiesa nel mondo, dall’altra, la ministerialità propria del sacerdozio, la cui specificità ecclesiologica è invece quella di predicare la Parola e celebrare l’Eucaristia, affinché i fedeli laici possano costituirsi come presenza di Chiesa nel mondo.
Dal profilo esistenziale, tuttavia, decisiva non è l’assoluta stringenza delle argomentazioni teoriche, cui ricorrere per giustificare l’abbinamento tra sacerdozio e verginità, bensì il dato di fatto che all’inizio della nostra vocazione abbiamo assunto liberamente nella nostra persona questo stato di vita cristiana. Con questa scelta libera è coincisa, storicamente e concretamente, la nostra vocazione ecclesiale al sacerdozio ministeriale.

II – Le ragioni della fedeltà alla nostra vocazione personale

1) La memoria della vocazione personale originaria

Il problema ultimo è e rimarrà sempre quello della nostra fedeltà alla vocazione, originaria e personale, rivoltaci da Cristo attraverso la chiamata oggettiva della Chiesa.  E di fronte a questa esigenza di fedeltà concreta alla nostra vocazione, più che sul piano della giustificazione teorica, che spesso emergono le nostre vere difficoltà di fronte allo statuto di verginità assunto con il sacerdozio ministeriale.
La società moderna, con la sua diffusa permissività, non ci viene certo in aiuto nell’affrontare le difficoltà intrinseche al nostro stato di vita. Tutti sappiamo quanto sia difficile vivere senza scompensi una vocazione come la nostra, in un ambiente culturale e sociale dove essa è tanto meno capita, quanto meno è valorizzato, dal profilo teorico e pratico, lo statuto stesso del matrimonio.
Il supporto culturale è evidentemente diventato minimo, in un ambiente socio-culturale in cui, malgrado la forte e quasi esasperata personalizzazione del matrimonio, la tendenza inequivocabile è quella di scindere l’esercizio della sessualità dal rapporto determinato da un amore totalmente vincolante. Un amore, la cui nozione dovrebbe, per definizione stessa, essere molto più forte e totalizzante, anche dal profilo affettivo, di quello superficialmente propinato dalla pubblicità e dalla prassi, di cui anche noi, sebbene critici, siamo diventati in qualche modo, come tutti gli altri, consumatori forzati.
L’effetto disgregatore, nel profondo della nostra persona, di questa immagine di sessualità umana, giustapposta o scissa dall’amore, è inevitabile. Ciò rende più difficile capire come anche la personale fedeltà alla nostra vocazione originaria non può essere realizzata prescindendo da un’adesione e da un amore personale per Cristo, che riassuma in sé stesso anche le energie immanenti alla nostra sessualità.
Anche in noi, infatti, potrebbe avvenire una giustapposizione tra la sessualità e l’amore. Quando l’amore per Cristo e per la Chiesa non è totalmente vincolante, non riesce a garantire l’unità in noi stessi. Saremmo divisi nel-la nostra persona, perché nella sessualità e nell’affettività troveremmo l’impedimento ad una donazione totale di noi stessi, attraverso l’esercizio del nostro ministero, alla persona di Cristo e alla comunità dei fedeli.

2) L ‘irrevocabilità del nostro «sì» a Cristo

L’aiuto più grande per non cedere alla tentazione del compromesso e della divisione, o a quella di vincolare la nostra sessualità ad un amore umano affettivamente totalizzante, o con una riduzione equivoca del medesimo, al punto da farci rinunciare alla stessa vocazione sacerdotale, lo possiamo, e lo dobbiamo trovare, ritornando costantemente all’origine di noi stessi e della nostra identità personale, segnata irreversibilmente dal sacerdozio che abbiamo ricevuto. Quanto più riusciamo a ritornare alla profondità di noi stessi per riscoprire con la chiarezza originale il significato della nostra vocazione, tanto più sapremo riudire in noi quel «tu» che Cristo ha pronunciato rivolgendosi alla nostra persona. Scopriremo così sempre di nuovo che il «sì» pronunciato il giorno dell’ ordinazione sacerdotale, in cui !’intuizione e la certezza di essere chiamati al sacerdozio era grande, era un «sì» che comprendeva come contenuto essenziale anche l’assunzione della verginità. Infatti, quanto più riaccade in noi l’inizio, tanto più è vicino il compimento.
Questo «sì» vissuto responsabilmente nell’esercizio quotidiano del ministero pastorale, anche se non senza fatica, ma con una consapevolezza sempre più grande, è stato, ed è, un dono elargitoci dallo Spirito Santo. Un «sì» che la nostra persona ha pronunciato e può ripetere solo perché mossa dallo Spirito Santo. E un dono dello Spirito Santo, di cui, nella nostra esistenza quotidiana, abbiamo spesso potuto sperimentare tutta la grandezza e la magnificenza.
E alla verità profonda di questa nostra esperienza personale, emersa in noi tante volte con tutta la sua forza e la sua sensazione liberante, che dobbiamo ricorre re ogni qualvolta non riusciamo più a cogliere e valutare lucidamente, non tanto le giustificazioni teoriche dell’abbinamento sacerdozio-verginità, quanto piuttosto le motivazioni concrete e personali per non cedere di fronte alla tentazione di re n d ere reversibile il «sì» che abbiamo detto a Cristo. Un « sì » pronunciato nello Spirito Santo e deposto, assieme a Maria di Nazareth,22 nelle mani della Chiesa, in cui era immanente tutta quella comunità di fedeli che ci sarebbe stata affidata più tardi, nel corso del nostro ministero.
Di fronte a questa comunità di fedeli e alle loro aspettative – che solo in superficie si atteggiano secondo una noncurante tolleranza di fronte al prete che lascia il proprio ministero, oppure che è diviso e in difficoltà a vivere la propria vocazione – dobbiamo saper sviluppare una affettività umana carica di responsabilità, a partire dalla nostra adesione personale a Cristo e dal nostro amore indiviso per Lui.
Questo affetto vissuto nella fede, ricco di vibrazioni umane e di senso di responsabilità nei confronti di tutte le persone che il Signore ci ha affidato nel ministero, come membra vive del nostro corpo, è in grado di sostenerci nella lotta quotidiana per mantenere e sviluppare la nostra identità sacerdotale originaria.

3) L’irreversibilità del nostro «sì» al presbiterio diocesano

Esiste, tuttavia, un secondo ambito di persone, che nella misura in cui diventano veramente punto di riferimento reale della nostra esistenza, possono rivelarsi di aiuto incalcolabile per conservare in noi intatta la verità della nostra vocazione sacerdotale, che implica un’esperienza affettiva, in nome del Signore, capace di trascendere ogni limitatezza insita in ogni «tu» particolare, rivolto ad una sola persona. Mi riferisco all’ambito del presbiterio diocesano, costituito da tutti quei sacerdoti che, insieme al Vescovo, sono chiamati ad assumere in comune la responsabilità pastorale di una Chiesa particolare. Il presbiterio diocesano è quella realtà sacramentale ed ecclesiale che definisce la natura della nostra vocazione sacerdotale stessa. Non siamo stati, infatti, chiamati al ministero per un destino solo individuale, ma per essere inseriti in una comunione, costituita da tutti gli altri confratelli nel sacerdozio, partecipi allo stesso modo della pienezza del ministero del Vescovo.23
Il presbiterio è il primo ambito destinato per sua natura a garantire al singolo sacerdote quella compagnia umana e quella solidarietà ministeriale, necessarie per superare l’esperienza della solitudine nell’esercizio del ministero.
Il fatto che la coscienza della nostra appartenenza al presbiterio, per mancata o non adeguata educazione, non incida realmente sulla nostra identità sacerdotale, è la ragione ultima della nostra incapacità di sentirei responsabili «in solidum», non solo nella pastorale diocesana o regionale, ma anche, e soprattutto, del destino personale di ogni singolo nostro fratello del sacerdozio.
Il problema, evidentemente, non è prima di tutto quello di creare strutture di vita comunitaria, il più delle volte poco realistiche nella organizzazione attuale di una diocesi, incorrendo facilmente nel rischio di illuderei di poter scaricare sulla loro mancanza la responsabilità della nostra incapacità interiore a vivere la comunione; il primo reale problema è quello di recuperare alla radice la vera identità della nostra vocazione sacerdotale, la quale, per sua natura, implica un coinvolgimento globale della nostra persona con tutti gli altri membri del presbiterio.
L’esatta coscienza della nostra comune appartenenza a questa realtà sacramentale ed ecclesiologica, in cui emerge a livello della Chiesa particolare la struttura sinodale della Chiesa universale, oltre ad infondere un respiro ecclesiale più vasto e meno individualistico alla nostra persona, ci assicura una compagnia e un’amicizia umana generata dalla comunione vicendevole con Cristo.
La chiara consapevolezza psicologica di appartenere irreversibilmente a un presbiterio ci aiuta oltretutto a capire, più in profondità, le ragioni teologiche ultime della nostra vocazione ad una esistenza vissuta nella verginità radicale. Lo aveva perfettamente intuito S. Agostino quando ha raggruppato attorno a sé in vita comunitaria i presbiteri della sua Chiesa particolare.
Il matrimonio e la famiglia del sacerdote costituirebbero un impedimento strutturale alla realizzazione di un presbiterio, non concepito in chiave puramente funzionale, ma secondo tutta la sua potenzialità ecclesiologica. Anco-ra una volta si verifica il fatto, già precedentemente sottolineato, che non è possibile ad una stessa persona realizzare un’appartenenza totale, e a pari titolo, a due ambiti sacramentali e a due vocazioni ecclesiali diverse.

III La preghiera: risorsa fondamentale della vocazione e della comunione

Cari confratelli nel sacerdozio:
sia il senso di responsabilità nella comunione nei confronti dei fedeli assegnatici di volta in volta dal Signore attraverso la Chiesa – fedeli che dobbiamo saper amare profondamente con tutto l’accento della nostra affezione umana -, sia la consapevolezza dottrinale e psicologica della nostra appartenenza sacramentale a tutti i confratelli del presbiterio diocesano, sono il presupposto naturale per vivere il nostro sacerdozio secondo la sua duplice dimensione: quella ministeriale e quella profetica, costituita dalla verginità in quanto criterio fondamentale del nostro rapportarci con le persone.
Tuttavia non sarà possibile superare la solitudine ultima, insita nella nostra anima, come nel cuore di qualsiasi persona, se non cercassimo la nostra compagnia e il nostro abbandono nel seno stesso di Dio. È ancora S.  Agostino a ricordarci che il nostro cuore è inquieto fino a quando non trova in Dio il suo riposo.24
Posso esortarvi, in questo contesto, a riscoprire la preghiera quale dimensione essenziale dell’esistenza? Una preghiera, tanto più vera quanto più nasce da un bisogno profondo di rapporto con il mistero della Trinità e quanto più è libera dall’assillo di adempiere formalmente un dovere di stato, impostoci dalla disciplina ecclesiale.  La preghiera è il respiro più liberante della nostra persona e la modalità più profonda per entrare in contatto con tutti i membri del Corpo Mistico di Cristo, di cui il presbiterio diocesano rappresenta una emergenza particolare e per molti aspetti prioritaria della nostra esistenza sacerdotale.

IV – Carattere escatologico della verginità

Prima di terminare questa mia esortazione, fatta nel desiderio di parlarvi da fratello a fratello, consapevole del bisogno presente in tutti voi, perché vive in se stesso tutte le precari età dell’esperienza cristiana e sacerdotale, permettetemi un’ultima osservazione sulla verginità.
Ho intenzionalmente privilegiato questo termine rispetto a quello di celibato, connotato da una valenza primariamente negativa. Non mi sembrerebbe giusto non riproporvi il valore della verginità, in quanto tale, in questo Anno Mariano, in cui Maria di Nazareth, nella sua perfetta verginità, è posta dal Papa come modello di ogni credente.25
quanto consiglio evangelico, la verginità è vivibile da tutti i fedeli, anche nel matrimonio, perché si definisce come distacco e come non possessività nei confronti quelle cose e delle persone con le quali entriamo in rapporto.
E un ‘possesso in Cristo che implica il distacco secondo la «forma» della Croce. Diventa stato, o struttura, di vita cristiana quando assume la forma radicale della rinuncia al matrimonio, per il regno di Dio. Ciò avviene nella vita religiosa e nel ministero sacerdotale; stati di vita che nella Chiesa esplicano una funzione profetica nei confronti di tutti i fedeli.
Proprio perché, in modo diverso da Maria, Vergine e Madre di Dio, la verginità, come consiglio evangelico, non è imprescindibilmente legata ad un fatto fisiologico, essa può essere continuamente rivissuta e riconquistata. Nessuno deve sentirsi preclusa questa possibilità, perché Cristo, che ci ha chiamati agli albori della nostra storia personale, ci richiama ogni giorno, offrendo a tutti la Grazia di rispondergli secondo ritmi e tempi personali, da Lui solo accolti e giudicati nella Sua infinita misericordia verso di noi. Noi presbiteri siamo chiamati a vivere in modo eminente, vale a dire, secondo lo statuto della rinuncia al matrimonio, ciò che l’Apostolo Paolo raccomandava a tutti i cristiani in quel testo, così vibrante di prospettiva escatologica, che noi tutti rileggiamo sempre tanto volentieri: «Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo…questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni».
Come S. Paolo, desidero solo che «viviate in modo conveniente », perché la vostra gioia nell’esercizio del ministero sacerdotale sia grande.27
E quanto ci augura, del resto, Papa Giovanni Paolo II nella sua Lettera a tutti i sacerdoti in questo Giovedì Santo.  Mi auguro possiate trovare il tempo di leggerla, malgrado tutti gli impegni di questa Settimana Santa.
I Vescovi svizzeri indirizzeranno oggi una lettera a tutti i loro presbiteri per ringraziarli di essere rimasti e di rimanere fedeli alla loro vocazione: quella di vivere nella verginità, dello spirito e nel corpo, il loro ministero. Anch’io vi ringrazio, a nome di tutta la Chiesa, ben sapendo quanta forza d’animo è a tutti richiesta.

13 Cfr. Optamam totius, 10 e Presbyterorum Ordinis, 16
14 Cfr. Mt 19, 12
15 Presbyterorum Ordinis, pp. 16, 1-2
16 Ordinamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale, 1974, n.16
17 Cfr. Paolo VI, enciclica Sacerdotalis Coelibatus; il documento Sinodo dei vescovi del 1971 de Sacerdotio ministerialis; le lettere ai Sacerdoti, del Giovedì Santo, di Giovanni Paolo II.
18 Lumen gentium 21-22.
19 Lumen gentium 10, 2
20 Gaudium et spes, 47-52
21Cfr. Gen.1,28
22 Cfr. Lc. 1,26-38
23 Lumen gentium, 28
24 Cfr. Confessioni I,1
25 Giovanni Paolo II, enciclica Redemptoris Mater, n. 42 e 44
26 Cfr. 1 Cor. 7,29-31.35
27 Cfr. Gv 15, 11