7. Chiesa particolare

La teologia della Chiesa particolare si è posta in questo ultimo trentennio come proposta alternativa alla teologia della Chiesa universale, dominante nella Chiesa latina dal Medioevo al Vaticano II Se si deve constatare che non esiste, contrariamente a quanto l’ecclesiologia occidentale ha per troppo tempo affermato, una priorità della Chiesa universale su quella particolare, sarebbe altrettanto scorretto sostenere la priorità di quest’ultima sulla Chiesa universale.

Dal profilo costituzionale Cristo non ha fondato né la Chiesa universale, né quella particolare, ma un’unica Chiesa, con una duplice dimensione, universale e particolare. Senza voler sottovalutare altre eventuali matrici, come la riscoperta in Occidente della teologia orientale, sembra accertato che l’impulso primario alla cosiddetta teologia della Chiesa particolare provenga, sia dalla riflessione dottrinale sulle missioni, che dalle istanze di democratizzazione delle strutture ecclesiali.

Il riconoscimento del valore delle culture non occidentali, strappato magari a forza dai risvegli nazionalistici, e il progressivo affievolirsi della mentalità colonialista, hanno provocato un ripensamento teologico dell’azione missionaria della Chiesa. Da una missione intesa, nell’orizzonte di una teologia della Chiesa universale, come propagazione della fede per la salvezza degli infedeli, si è passati ad una missione intesa come «plantatio Ecclesiae». Questa concezione ha posto in modo irreversibile il problema della Chiesa particolare.

Mentre in un primo tempo l’impegno prioritario fu quello di smantellare le sovrastrutture occidentali (lingua latina, diritto comune, ecc.) per valorizzare la cultura e il diritto consuetudinario indigeni, in un secondo tempo la revisione dottrinale ha intaccato più in profondità la questione. Oltre all’immagine socio-culturale europea della Chiesa, è stata ridiscussa anche quella ecclesiologica – ad essa legata – della Chiesa universale, che per sua natura non teneva sufficientemente conto delle nuove culture.

Caratterizzando però la Chiesa locale non a partire dalle sue proprietà teologiche essenziali, bensì dall’ambiente culturale in cui essa esisteva, la nuova teologia della Chiesa particolare riproponeva lo stesso equivoco, in cui era già incappata la teologia della Chiesa universale, di saldare il cristianesimo, malgrado la sua trascendenza escatologica, con una cultura determinata, di cui le espressioni, Chiesa latina o orientale, non sono meno ambigue di quelle di Chiesa africana, americana o italiana, spesso appena camuffate da espressioni ecclesiologiche più corrette, come quelle di Chiesa in Europa, in Africa o in Italia [1].

Il secondo motivo che ha dato origine ad una ecclesiologia della Chiesa particolare è quello della istanza di democratizzazione. Le sue matrici sono, dal profilo culturale, l’esperienza della democrazia moderna e, dal profilo teologico, senza dubbio prevalente, la riscoperta, ad opera del Vaticano II, del sacerdozio comune di tutti i fedeli e, per riflesso, del laicato. Evidentemente, il discorso sulla democratizzazione della Chiesa non è stato fatto in rapporto alla Chiesa universale, dove la collegialità episcopale erige un ostacolo insormontabile, ma in rapporto alla Chiesa particolare, quasi che la struttura costituzionale di quest’ultima fosse essenzialmente diversa da quella della Chiesa universale. Le strutture di partecipazione «sinodale», direttamente o indirettamente promosse dal Vaticano II per la Chiesa particolare, furono sovente equivocate e vissute come strutture democratiche parallele a quelle statuali e, conseguentemente, pensate in funzione di una ridistribuzione del potere dall’alto verso il basso. Ciò, nella speranza di attenuare il principio gerarchico con quello maggioritario, dimenticando che solo il ministro ordinato, investito dell’ufficio ecclesiale, può svolgere la funzione di rappresentare tutta la comunità e garantire l’unità della Chiesa [2].

Il punto di riferimento per una ecclesiologia atta a rivalutare la Chiesa particolare nella pienezza della sua funzione costituzionale, senza ricadere nelle unilateralità della teologia della Chiesa universale, è la formula ecclesiologica di LG 23,1, secondo cui la Chiesa universale si realizza nelle e dalle Chiese particolari «in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia catholica exsistit» [3]; formula ripresa dal CIC nel can. 368. I risvolti di questa formula sono molteplici dal momento che essa significa: a) che la Chiesa universale non esiste in se stessa, quasi possedesse una consistenza e un luogo di esistenza propri, ma esiste solo laddove essa si realizza in una Chiesa particolare. Essa esiste solo in modo concomitante ad una Chiesa particolare «in quibus»; b) che la Chiesa universale è formata da tutte le Chiese particolari, per cui non è una realtà astratta, ma storicamente concreta che coincide di fatto con tutte le Chiese particolari. E un «corpus Ecclesiarum» (LG 23,2), nozione non recepita dal CIC, o una «Communio Ecclesiarum». Anzi, la stessa Chiesa universale che si realizza in quelle particolari, è quella medesima realtà che si costituisce da tutte le Chiese particolari «ex quibus»; c) ne consegue, che in ogni Chiesa particolare sono ontologicamente presenti tutte le altre Chiese particolari, attraverso la mediazione della Chiesa universale, di cui esse sono gli elementi costitutivi. La Chiesa particolare è Chiesa solo nella misura in cui realizza in se stessa tutti i valori e tutti gli elementi essenziali e comuni, propri a tutte le Chiese particolari, la cui comunione con la Chiesa romana è «piena». La struttura profonda del ministero della Chiesa è perciò essenzialmente una struttura di immanenza: immanenza reciproca e totale della Chiesa universale e particolare «universalia in rebus»

Solo quando questa immanenza si realizza con tutta la sua totalità si realizza anche la nota della «communio piena», prerogativa della Chiesa cattolica, dal momento che in essa, per definizione «sussiste» l’unica Chiesa di Cristo (can. 204 § 2) in tutta la sua verità strutturale e costituzionale e, in particolare, secondo l’immanenza perfetta che in essa si realizza tra la dimensione universale e quella particolare. Tutte le altre soluzioni sono ecclesiologicamente fuorvianti, perché elidono il primo o il secondo elemento. La tradizione ortodossa tende infatti a concepire la Chiesa universale platonicamente «universalia ante res», come un modello o archetipo trascendente, che non esiste concretamente nella storia, ma che si realizza nelle singole Chiese particolari in modo sempre uguale. Enfatizzando l’«in quibus», l’ortodossia orientale non riesce perciò a concepire l’unità della «Communio Ecclesiarum» attorno ad un fatto istituzionale [4]. L’unità è garantita solo dal modello trascendente, comune a tutte le Chiese autocefale. La tradizione protestante enfatizza per contro, nominalisticamente «universalia post res», il secondo elemento, cioè l’«ex quibus». Esistono solo le Chiese particolari, non la Chiesa universale. L’unità tra le singole Chiese particolari può trovare espressione, nel segno di una soluzione volontaristica, solo secondo il modello della federazione delle Chiese particolari. L’ostacolo principale ad una concezione corretta della formula ecclesiologica dell’«in quibus et ex quibus» sta nel fatto che Chiesa universale e particolare sono generalmente concepite come due entità materiali diverse, che in forza della loro concretezza storica tendono a rapportarsi secondo una dinamica di potenziale contrapposizione o concorrenzialità reciproca. In realtà non sono due realtà materiali, ma solo due dimensioni formali di un’unica realtà, quella dell’unica Chiesa di Cristo. Ne consegue che la Chiesa particolare, in quanto dimensione locale o concreta imprescindibile dell’unica Chiesa di Cristo che si realizza solo laddove la Parola e il Sacramento si inverano concretamente nel tempo e nello spazio, ha una legittimità costituzionale altrettanto grande della Chiesa universale. Quest’ultima non coincide neppure con il suo organo istituzionale specifico, il collegio dei vescovi con il primato. Il collegio, infatti, nella sua essenza, emerge come duplice risultanza delle Chiese particolari: quella della comunione gerarchica esistente tra i vescovi diocesani con il papa e quella del papa che a sua volta è vescovo di una Chiesa particolare, cioè della Chiesa di Roma.

Questa dottrina è soggiacente al CIC, sia pure in modo molto sintetico, grazie soprattutto alla ricezione, nel can. 368, della formula conciliare «in quibus et ex quibus», parzialmente ripresa nel can. 369 (cfr. CD 11,1). Invece di definire la Chiesa particolare, il CIC, seguendo il Vaticano II, ha formulato una definizione legale della diocesi (can. 369), provocando così una sovrapposizione tra la nozione di quest’ultima e quella della Chiesa particolare. La diocesi è solo una delle possibili forme giuridiche della Chiesa particolare, anche se è quella più strutturata e completa dal profilo istituzionale. In effetti non esiste identità tra Chiesa particolare e diocesi, come lascia intrawe- dere chiaramente anche il can. 372, § 1. A norma del can. 369, gli elementi istituzionali costitutivi della Chiesa particolare sono: l’esistenza di una porzione del Popolo di Dio, di un vescovo e di un presbiterio. Questi tre elementi possono realizzarsi anche in altre figure giuridiche, come nelle prelature e abbazie territoriali, o nelle amministrazioni apostoliche, quando i loro ordinari godessero della dignità episcopale; figure enumerate e definite (per altro tautologicamente), assieme a quelle dei vicariati e delle prefetture apostoliche, nei can. 370- 371. Quando queste circoscrizioni sono rette da un vescovo, il clero in esse presente si costituisce ontologicamente come parte di un presbiterio, di cui il vescovo è il capo. La ragione d’essere del clero, infatti, non è solo funzionale – quella cioè di aiutare il vescovo nello svolgimento del suo ufficio -, ma è di ordine ecclesiologico. Secondo il Vaticano II (PO 7,1) i presbiteri (e forse anche i diaconi) non sono semplici collaboratori utili del vescovo, ma collaboratori necessari. Per queste e per altre ragioni derivanti dalla struttura ontologica stessa del presbiterio, si deve concludere che la figura teologica del vescovo (non titolare) si realizza sempre e inevitabilmente come figura di capo di un presbiterio. La nozione di «vescovo diocesano» utilizzata dal can. 376 per designare tutti i vescovi non titolari, è riduttiva, perché anche un prelato territoriale vescovo (come del resto un abate o un amministratore) realizza, dal profilo teologico, la stessa figura ecclesiologica del vescovo diocesano, pur non essendolo dal profilo giuridico. Ne consegue che l’istituto della «assimilazione», utilizzato dal can. 368 per equiparare le prelature e le abbazie territoriali, i vicariati, le prefetture e le amministrazioni apostoliche alle diocesi, non può essere in nessun modo applicato in relazione alle Chiese particolari, come invece potrebbe suggerire l’ambigua formulazione del testo. Mentre è possibile attribuire la stessa rilevanza giuridica, «ex parte» o «in toto», a due realtà di estrazione istituzionale positiva (per esempio, prelatura personale e diocesi) non è possibile applicare l’istituto giuridico dell’assimilazione a due realtà ecclesiologicamente differenti (per esempio, prefettura apostolica e Chiesa particolare). Il CIC non risolve correttamente neppure il caso della amministrazione apostolica. Nell’ipotesi che questa sia retta da un vescovo, non è ecclesiologicamente esatto affermare, come fa il can. 371, § 2, 9, che essa è retta dal suo ordinario, non «nomine proprio», ma «nomine Summi Pon- tificis», alla stessa stregua dei vicariati e delle prefetture. Le amministrazioni apostoliche rette da un vescovo, come del resto le prelature e le abbazie territoriali, sono vere e proprie Chiese particolari anche se non sono costituite giuridicamente come diocesi.

Queste precisazioni sono fondamentali per comprendere le implicazioni profonde della natura della Chiesa particolare, che, a differenza di ogni altra realtà o figura giuridica, è Chiesa nel senso proprio del termine, grazie al fatto che in essa – e in essa sola – si realizza l’unica Chiesa di Cristo con tutta la sua dimensione universale. Ne consegue che una Chiesa particolare non può essere manipolata dal profilo giuridico ispirandosi a criteri legislativi puramente positivistici. Analoghe imprecisioni del CIC nel cogliere a livello legislativo la struttura della Chiesa particolare emergono anche in altri settori vitali dell’ordinamento, come in quello delle dispense e in quello delle persone giuridiche. In ordine all’istituto della dispensa, il can. 87 tratta i vescovi diocesani alla stessa stregua di tutti gli altri ordinari, senza lasciare affiorare la specificità che li contraddistingue dal profilo ecclesiologico e giuridico. Mentre i primi posseggono la facoltà di dispensare dal diritto universale «ex sese», cioè in forza del fatto di possedere l’ordine episcopale e di essere pastori di una Chiesa particolare, i secondi, come i prelati e gli abati territoriali, i vicari, i prefetti e gli amministratori apostolici, oltre a tutti i vicari generali non vescovi o vescovi solo titolari, posseggono queste facoltà solo in forza di una delega «ex iure». Anche nell’ambito delle persone giuridiche la posizione della Chiesa particolare non è stata diversificata con sufficiente preoccupazione ecclesiologica dagli altri enti canonici pubblici. Il can. 113 distingue tra le persone morali e quelle giuridiche, per sottolineare il fatto che queste ultime sono istituti creati «ex iure» o «ex concessione». La Chiesa cattolica e la Santa Sede, non essendo erette in forza del diritto positivo, sono qualificate invece come persone morali. Le Chiese particolari, pur essendo poste in essere storicamente grazie a un intervento amministrativo dell’autorità, non sono sussumibili tra le persone giuridiche pubbliche come gli altri enti di diritto positivo, che non affondano le radici della loro esistenza nello «ius divi- num». Come la Chiesa di Cristo e la Santa Sede, anche le Chiese particolari sono necessarie «ex ipsa ordinatione divina», pur non essendo da essa determinate nella concretezza storica della loro esistenza. Sono, infatti, elementi costitutivi della stessa Chiesa di Cristo, che, nella sua universalità, si realizza in esse e da esse. La loro erezione concreta è perciò un fatto solo contingente e determinativo rispetto alla loro necessarietà costituzionale. Anche a voler prescindere dal fatto che il diritto divino non conosce persone morali e giuridiche, il CIC avrebbe colto meglio l’identità ecclesiologica delle Chiese particolari se le avesse qualificate come persone morali alla stessa stregua della Chiesa cattolica e della Santa Sede (cfr. anche il can. 1257, § 1).

Da queste considerazioni si deve concludere che anche la nozione di «autonomia», sovente utilizzata dalla canonistica per definire la posizione costituzionale della Chiesa particolare in seno a quella universale, non è corretta. Essa connota l’incorporazione di una parte in un tutto ritenuto superiore, come per esempio le province e i comuni nello Stato. Nella nozione di autonomia viene a mancare sia l’elemento dell’«in quibus» che quello dell’«ex quibus», poiché la parte non si costituisce come una realtà in cui si realizza il tutto e il tutto non risulta costituito da parti aventi un’esistenza propria. Se non fosse anch’essa culturalmente e giuridicamente legata all’idea di indipendenza da altre realtà, la nozione di sovranità esprimerebbe con maggiore approssimazione almeno l’idea che il tutto, come in una confederazione di Stati, è formato da parti in possesso di una consistenza ontologica propria, che può essere parzialmente limitata in favore di un’unità più grande. Tuttavia anche in questo caso viene a mancare per lo meno l’«in quibus». Ne consegue che la posizione costituzionale della Chiesa particolare in seno alla Chiesa di Cristo, proprio perché è solo una dimensione formale della stessa, non è definibile con categorie politicogiuridiche derivate dal sistema statuale moderno. Il mistero della «Communio Ecclesiae et Ecclesiarum», che è il mistero dell’immanenza reciproca e della inseparabilità di tutti gli elementi costitutivi della Chiesa (Parola e Sacramento, Sacerdozio comune e ministeriale, fedele e comunità ecclesiale, ecc.), non è traducibile adeguatamente con categorie razionali mondane. Lo sforzo comunque compiuto dal CIC per esprimere il rapporto tra Chiesa universale e particolare, più che a livello teorico è visibile a livello delle opzioni positive, come nella ripartizione delle competenze tra i due aspetti della Chiesa. La sua preoccupazione non è più quella universalistica del CIC del 1917, che aveva cercato di unificare tutta la disciplina ecclesiale applicando il principio medioevale «unum imperium, unum et ius», ma quello di garantire un maggiore equilibrio costituzionale tra la Chiesa universale e quella particolare [5]. In effetti, il rinvio alla legislazione della Chiesa particolare non sembra più essere, come nel 1971, una contingenza sulla quale il legislatore decide volta per volta, bensì un principio coessenziale allo spirito del nuovo ordinamento giuridico [6].

 

 

[1] Cfr. G. Colombo, La teologia della Chiesa locale, in: La Chiesa locale, cit., 17-38.

[2] Cfr. E. Corecco, Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale?, SILT «Communio» 1 (1972), 32-44.

[3] Cfr. W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung, München 1970, 318-330.

[4] Cfr. Y. Congar, De la communion des Églises à une ecclésiologie de l’Église universelle, in: L’Épiscopat et l’Église Universelle, cit., 227-260.

[5] Cfr. E. Coeecco, I presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo «Codex», in: Il nuovo codice di diritto canonico, a cura di S. Ferrari, Bologna 1983, 39-43.

[6] Cfr. H. Schmitz, Gesetzgebungsbefugnis und Gesetzgebungskompetenzen des Diö- zesanbischofs nach dem neuen CIC von 1983, AfkKR 152 (1983), 62-75.

 


 

Bibliografia

Aa.Vv., L’Episcopat et l’Eglise Universelle, Ouvrage publiée sous la direction de Y. Congar et B.-D. Dupuy, Paris 1964; E. Corecco, Il Vescovo, capo della Chiesa locale, protettore e promotore della disciplina locale, «Concilium» 4 (1968), 106-121; Aa.Vv., La Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970; W. Aymans, Die “Communio Ecclesiarum” als Gestaltgesetz der einen Kirche, AfkKR 139 (1970), 69-70; P. Chouinard, Les expressions “Eglise locale” et “Eglise particulière” dans Vatican II, Stud. Can. 6 (1972), 115-161; K. Mörsdorf, Eautonomia della Chiesa locale, in: La Chiesa dopo il Concilio, Milano 1972, vol. I, 165-185; W. Beinert, Dogmenhistorische Anmerkungen zum Begriff “Partikularkirche”, Th. Ph. 50 (1975), 38-69; J. Beyer, Chiesa universale e Chiesa particolare, «Vita Consacrata» 18 (1982), 73-87; A. Rouco Varela, Iglesia universal – Igle- sia particular, lus Can. 22 (1982), 221-239; H. Müller, Diözesane und quasidiözesane Teilkirchen, in: Handbuch des katholischen Kirchenrechts, hrsg. von J. Listl-H. Müller-H. Schmitz, Regensburg 1983,329-335; Commission Théologique Internationale, Emique Eglise du Christ, Rapport rédigé pour le Synode par Mgr P. Eyt, Paris 1985.

Legislazione

CIC cann. 368-374.