1. Spiritualità per il presbitero

 

Le intenzioni del Sinodo, ora che tutti i Vescovi hanno parlato, non sono ancora chiare. La parola magica, pronunciata al Sinodo, in tut­te le accezioni, è la parola “spiritualità”. Tutti hanno spezzato una lancia in favore di una maggiore spiritualità del prete, ma, a dire il vero, non si è ancora capito se si tratta di intensificare la spiritualità di prima o se, invece, si è alla ricerca di una spiritualità nuova.

E poi, quale spiritualità è quella specifica del presbitero? Qualche volta i discorsi rasentano le assolutizzazioni. Non sono pochi i Vesco­vi intervenuti con discorsi di questo tipo: la vera spiritualità del prete è quella dell’umiltà, oppure quella dell’obbedienza, della povertà, del­la verginità, della paternità, della preghiera, e via dicendo.

Ma come si fa a dire, per fare un solo esempio, che per rafforzare la spiritualità del clero bisogna che il prete diventi più umile, più obbediente, più povero! E chi tra i fedeli non deve diventare più umi­le e più povero? Chi non deve pregare di più?

Il fatto è, che i Vescovi sono impressionati da certi fenomeni, come quello delle critiche feroci e tapageuses, come ha detto un confratello del Togo, che i preti, non solo perciò in Svizzera, ma un po’ su tutta la terra, si permettono, a quanto pare di lanciare nei confronti dei loro Vescovi.

Il fatto è, che oggi, uno se si prescinde dai salotti o dalle capanne di bambù, dove può farla franca, può andare anche alla TV e dirne di tutti i colori. Se poi il Vescovo ha la brutta idea di reagire, la prossi­ma volta quello si ripresenta in TV con la faccia del martire. Ed anche se fosse vero, che cosa ha ottenuto? Non certo una fede più pura nel cuore dei fedeli, ma un millimetro di fede in meno in tutti quelli che lo hanno ascoltato, perché anche lui, probabilmente, una bella figura non l’ha proprio fatta.

Mi sembra che la strada imboccata da molti, per rinnovare la spi­ritualità del clero non sia quella buona, perché il prete non è prete solo per essere un cristiano migliore degli altri. Per tanto così, cioè per dare solo il buon esempio, basta qualsiasi fedele, con una personalità cristiana vera e propria, oppure bastano i monaci e le monache.

Il prete deve essere prima di tutto una persona, che nella sua vita realizza le ragioni per cui gli è stato affidato il ministero sacerdotale.

La sua spiritualità specifica deve trovare alimento nel fatto oggettivo del Sacramento dell’Ordine, che ha ricevuto e che lo distingue da tutti gli altri fedeli. Anche se è vero che tutti i fedeli, indistintamente, sono chiamati alla santità, ma secondo modalità ed itinerari diversi.

Non sto dicendo che il prete non debba dare il buon esempio, mancherebbe altro, ma che il buon esempio, di per sé, lo dovreb­bero dare tutti, chi più, chi meno. Chi non va in chiesa o non vuol più credere, perché il prete sbaglia, o pensa abbia sbagliato, sba­glia a sua volta. Nell’ipotesi che non sia rimasto psicologicamente un bambino, di attenuanti, un adulto, in questo caso ne ha pro­prio poche.

Certo, c’è il Santo Curato d’Ars, il cui esempio è stato sventolato più di una volta nell’aula sinodale. Era, manco a dirlo, un uomo di grande preghiera e di grande umiltà, ma è stato soprattutto un gran­de prete. Se è stato proclamato patrono di tutti i parroci, non è tanto perché pregava e digiunava e se la vedeva con il diavolo, che, per non dargli tregua, gli sfasciava il letto anche di notte, ma perché passava la sua giornata in confessionale.

E diventato Santo perché ha esercitato fino all’eroismo il suo mini­stero sacerdotale; cioè, la missione apostolica ricevuta con il Sacra­mento dell’Ordine. Se non fosse stato per questo non sarebbe diven­tato il patrono dei preti, ma di un’altra categoria di persone, suppo­niamo degli anacoreti. Il suo essere prete non era, malgrado certa agiografia, un contorno della sua persona.

Il prete non è un monaco chiamato a fare anche un po’ di ministe­ro. Il sacerdozio ministeriale, infatti, non è conferito primariamente in vista della santità personale, bensì perché uno diventi apostolo. Deve perciò perseguire e rincorrere la propria santificazione persona­le, attraverso l’esercizio del sacerdozio ministeriale.

Ciò che il prete deve salvare ad ogni costo, per diventare una per­sona capace di affrontare la grande sfida della nuova evangelizzazio­ne della società contemporanea, senza andare in crisi, è l’unità tra la sua spiritualità e la missione apostolica.

Una spiritualità fondata sull’idea di una santificazione personale soggettiva, più che sulla necessità di santificarsi attraverso l’esercizio del sacerdozio ministeriale, ingenera un dualismo pernicioso. La pre­occupazione di proteggere e salvaguardare da ogni macchia il proprio stato di vita, per quanto giusta, diventerebbe più importante dell’im­pegno missionario stesso ed ingenererebbe, inevitabilmente, inflessio­ni di natura clericale.

È nella fedeltà alla vocazione apostolica e missionaria, e non a lato di essa, con tutte le sue implicanze umane, psicologiche ed affettive, che il presbitero deve trovare gli spunti della sua interiorità religiosa ed autorealizzarsi nella fede, come uomo.

La preghiera, le pratiche di pietà, l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, sono necessari per tutti i fedeli, poiché in essi tutti devono attingere le risorse spirituali necessarie a vivere, in modo specifico, il loro stato di vita, anche quello laicale e matrimoniale. Non c’è dubbio che, con i tempi che corrono, la preghiera e tutte le altre virtù le deve intensifica­re anche il prete, se vuol essere capace di resistere come una quercia.

Prescindiamo pure dal fatto, non controverso, che il Curato d’Ars fosse un confessore così d’eccezione, da attirare attorno al suo confes­sionale tutta la Francia, ma se noi preti oggi dovessimo stare in con­fessionale tutto il giorno, staremmo freschi; non potremmo neppure più fare i Santi, per mancanza di penitenti, perfino sotto Pasqua. I fedeli, infatti, hanno ormai imparato, con la nostra evidente compli­cità, oltre a molte altre cose, anche a non più confessarsi ed a presen­tarsi alla Santa Comunione freschi come rose.

Ciò significa che oggi, se vogliamo ancora trovare penitenti attor­no al confessionale, come al tempo del Curato d’Ars, dobbiamo met­terci in una posizione dinamica di rievangelizzazione. Abbiamo rice­vuto il ministero per questo e in questo impegno dobbiamo trovare la realizzazione della nostra vita spirituale.

Prima (si tratta, evidentemente, di una priorità logica e non crono­logica) d’invitare i fedeli a confessarsi ed a ricevere gli altri Sacramen­ti, dobbiamo far riscoprire loro la fede. Renderli di nuovo consapevo­li di appartenere a Cristo ed alla Chiesa, come nei bei tempi antichi, quando i cristiani erano peccatori tanto quanto noi uomini del vente­simo secolo, ma con la differenza che sapevano ancora di esserlo.

Evangelizzando nuovamente le nostre comunità e riaccendendo il lumicino di fede ancora palpitante dentro il cuore della stragrande maggioranza della nostra popolazione, rievangelizzeremo anche la società in quanto tale, o almeno parte di essa.

L’identità specifica del prete è dentro la fedeltà a questo impegno di missione, ricevuto da Cristo attraverso la Chiesa. Un impegno, ha detto il Cardinale Daneels di Bruxelles, che esige di cambiare registro e non più indulgere alla scappatoia della predicazione omeopatica.

Non possiamo più lasciare il monopolio dell’annuncio del kerigma alla stravaganza delle sette. Il kerigma è l’annuncio, chiaro e tondo, che Cristo è l’unica salvezza dell’uomo e del mondo. Dobbiamo impa­rare di nuovo a parlare ai cristiani e ai non credenti nello stesso modo diretto di San Paolo, quando scriveva ai Corinzi. Quando, invece, ha tentato discorsi più suadenti, come ha fatto con gli Ateniesi, ha dovu­to andarsene con le pive nel sacco.

Al Sinodo, questo episodio dell’Acropoli l’ha ricordato proprio Nico­laos Foscolos, l’Arcivescovo di Atene. Ha pensato anche di far ridere tut­ti, ricordando che il Papa, la sera prima, con un mezzo sorriso sulle lab­bra, aveva affermato, in chiusura dei lavori, che il Sinodo graviter pec­cai contra linguam latinam. Ha pensato così di tenere alto il prestigio delle lingue antiche e di misurare il nostro q.i. (quoziente intellettuale) esprimendosi in greco, per almeno un minuto. Il bello fu che non tutti hanno capito se avesse parlato in greco antico o in quello moderno.

Sempre a proposito di spiritualità apostolica, il Cardinale Giaco­mo Biffi, di Bologna, ha lamentato che la cultura ecclesiastica con­temporanea è preoccupata soprattutto del come parlare, cioè del come farsi capire, affidandosi spesso in modo sconsiderato alle scien­ze psicologiche. In realtà, ha detto, ciò che più conta non è il «come», bensì il «che cosa» diciamo alla gente. Il Cardinale di Bologna, che, già quando studiava con il sottoscritto al Seminario Lombardo di Roma, era un cervellone, tanto che aveva inventato una macchina piena di lampadine per trovare i numeri primi, ha sostenuto che il problema più grave del nostro tempo è quello del non-linguaggio, cioè del nostro essere muti e reticenti su Gesù Cristo.

Il prete, in sostanza, oltre che dare ragione a se stesso, deve saper dare ragione agli altri della propria fede. Non possiamo «uccidere il desiderio religioso del popolo, anche quando ci sembra distratto», ha gridato con enfasi un giovane Vescovo ausiliare della Nigeria, dall’al­to della sua statura impressionante, di quelle che capita di vedere alla

TV durante le Olimpiadi. Noi dobbiamo credere pili che mai alla for­za ed al potere della Parola di Dio. Così come è annunciata spesso dai Movimenti, ha tenuto a precisare assieme ad altri, ma con un registro soave e cantilenato, il Vescovo giapponese Fukadori.

Il prete deve ridiventare profeta. Non perché, in un mondo di maghi e di stregoni come il nostro, debba anche lui far credere di pre­vedere il futuro, ma perché dando un giudizio chiaro e preciso, in nome di Cristo, sul bene e sul male del tempo presente, anticipa ine­vitabilmente anche l’esito di quello futuro. Questa affermazione lapi­daria, che ha scosso la sala sinodale, è stata fatta dal Cardinale Mei- sner; quello che il Capitolo della Cattedrale, puntando i piedi per resi­stere meglio, e per la gioia dei mass-media, non voleva fosse trasferi­to dal Papa, da Berlino, dove era Vescovo, a Colonia.

Il primo, fondamentale problema del Sinodo è quello di definire l’identità teologica del presbitero e perciò quella della sua spiritualità specifica, rispetto a quella di tutti gli altri fedeli. Stiamo ancora oscillan­do tra due poli: quello della pratica soggettiva dei consigli evangelici e quello della santificazione attraverso l’impegno oggettivo dell’apostola­to, iscritto nel Sacramento dell’Ordine, senza arrivare ad una sintesi.

Evidentemente, altri problemi agitano i nostri spiriti, ma di quelli vi informerò nella prossima lettera.

Ora non posso non raccontarvi che giovedì è arrivato anche Ale- xandru Todea, l’Arcivescovo metropolita greco cattolico di Fagaras ed Alba Julia. Ffa fatto una testimonianza agghiacciante sui cinquan­tanni di persecuzione della Chiesa cattolica in Romania. Nove Vesco­vi morti in prigionia, dove si sono dati da fare per formare alla fede nuovi seminaristi, insegnando loro la teologia, a memoria. I preti ed i laici martiri non si contano. Hanno realizzato la quinta nota della Chiesa, perché la Chiesa non è solo una, santa, cattolica ed apostoli­ca, ma sempre anche martire, in qualche parte della terra.

Ai primi cristiani i giudici romani domandavano di bruciare l’in­censo alla statua dell’Imperatore; ai cristiani rumeni l’unica doman­da, quella decisiva per la vita o per la morte, era: “Sei disposto ad abbandonare il Papa?”.

Trattenendo a stento il singhiozzo l’Arcivescovo ha confessato che la Madonna ha concesso la grazia del martirio solo ai migliori, lasciando indietro quelli come lui (scampato però per puro caso alla condanna a morte), poi si è alzato a salutare ed a benedirci tutti, in mezzo alla sala sinodale, alto e robusto, un po’ ricurvo: sembrava la copia del Papa. Noi l’abbiamo applaudito a lungo, ma ci siamo sen­titi un po’ più piccoli nelle nostre poltrone.

A Roma ormai tira aria di Concistoro. Nelle bische clandestine dei pettegolezzi, piazzate un po’ in tutti gli uffici dei palazzi vaticani, i brokers lo danno dieci ad uno per la porpora: è il colore del sangue, quello dei martiri e dei confessori della fede.

 

* Seconda lettera dal Sinodo dei Vescovi, Roma 15 ottobre 1990