2. Note sulla Chiesa particolare e sulle strutture della diocesi di Lugano

 

Per una valutazione critica post-conciliare delle strutture di una diocesi, il Vaticano II offre un materiale immenso. A rigore non esiste affermazione conciliare che valga esclusivamente per la Chiesa universale, senza avere delle implicazioni con la Chiesa particolare, poiché questa è il luogo dove la Chiesa si realizza concretamente. Ogni documento è carico di dimensioni e prospettive che attendono di essere tradotte sistematica- mente in movimenti religiosi, norme e strutture sul piano diocesano. Il Concilio stesso e la legislazione di applicazione susseguente hanno già dato delle direttive concrete, le quali però difettano ancora di omogeneità essendo frammentarie e sperimentali.

In ordine al presente lavoro, che a sua volta non vuole essere un esame analitico esauriente delle strutture di una diocesi, ma solo esprimere alcuni giudizi per fare proposte concrete, abbiamo scelto tra i testi conciliari due idee che ci sembrano fonda- mentali.

Prima di tutto l’idea che la Chiesa particolare è la realizzazione della Chiesa universale, nel senso pieno della parola; in secondo luogo quella, congiunta alla prima, che il principio della collegialità investe tutti i settori della vita ecclesiale.


I. La diocesi è la realizzazione della Chiesa universale

1. L’impostazione del problema

Il Concilio ha fatto l’affermazione teologica di fondo sulla Chiesa particolare nell’art. 26 cpv. 1 (348) della Lumen Genti- um (Vat. Eccl.): «Questa Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime comunità locali di fedeli, le quali, in quanto aderenti ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiesa nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, nella loro sede, il Popolo nuovo chiamato da Dio con la virtù dello Spirito Santo e con grande abbondanza di doni»[1].

Questa affermazione è stata introdotta nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa {Vat. Eccl.) in una fase avanzata dei lavori, per cui non ha potuto diventare idea portante della ecclesiologia vaticana con una forza pari a quella della Chiesa universale.

Il Vaticano II è restato ancora fondamentalmente legato alla matrice teologica latina, nella quale ha prevalso l’idea astratta della Chiesa universale. La cultura universalistica medioevale ha soffocato in Occidente la concezione ecclesiologica ecumenica che aveva dominato nel primo millennio[2]. Il Concilio ha saputo tuttavia ripescare la tradizione orientale centrata sull’esperienza concreta della Chiesa particolare. Ha così giustificato pienamente non solo un’ecclesiologia che prende le mosse dalla Chiesa universale ma anche quella che parte dal mistero della celebrazione eucaristica – concepita come luogo dell’incontro concreto tra Dio e l’uomo[3] – e di conseguenza dalla Chiesa particolare[4]. Se al livello sacramentale la Chiesa di Dio si realizza in tutta la sua perfezione simbolica nella celebrazione dell’eucaristia, la Diocesi rappresenta, a livello strutturale, la realtà paradigmatica della Chiesa. Evidentemente la Chiesa particolare è Chiesa nel vero senso della parola solo nella misura in cui realizza gli aspetti essenziali della Chiesa universale e nella misura in cui vive in comunione, il più possibile cosciente, con essa e con tutte le altre Chiese particolari.

Non fu perciò una considerazione di ordine puramente organizzativo che ha indotto il Vaticano II a dare, per la prima volta nella storia dei Concili ecumenici, una definizione descrittiva della diocesi. L’idea di fondo espressa è che la diocesi deve essere una realtà grande a sufficienza (popolo, clero, strumenti e beni sufficienti), per poter realizzare i predicati essenziali della Chiesa universale. Solo così potrebbe inserirsi nel coro pluralistico di tutte le altre Chiese particolari come entità originale, avente una fisionomia e un’autonomia propria, capace di sostenere una testimonianza ed un discorso ecclesiale proprio[5]. Questo implica una duplice conseguenza: la Chiesa particolare, pur mantenendo la sua personalità sociologica, culturale e religiosa propria, deve da una parte vivere la stessa esperienza di apertura mondiale come la Chiesa universale[6] e dall’altra deve possedere tutti quegli organismi che rendono possibile una vita ecclesiale impostata sulla natura essenzialmente comunitaria del Popolo di Dio, la quale si esprime sinteticamente nella celebrazione eucaristica.

2. L’impegno missionario come pietra di paragone

Per illustrare il primo aspetto della questione, quello dell’inserimento della Chiesa particolare nella dinamica ecclesiale universale, l’impegno missionario ha valore paradigmatico.

Nel Decreto sull’attività missionaria della Chiesa (Vai. Miss.), il cui luogo teologico è l’art. 17 della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, il Concilio ha affrontato il problema missionario con un’urgenza ed un’ampiezza dottrinale, sconosciute ai Concili precedenti[7]. La Chiesa è essenzialmente missionaria[8], per cui l’impegno missionario non può essere considerato semplicemente come uno dei tanti settori occasionali della vita ecclesiale. Ogni Chiesa, anche particolare, deve vivere proiettata in missione[9]. A scanso di equivoci, tuttavia, il Concilio ha voluto definire con precisione il significato di missione. L’attività missionaria, nel senso tecnico della parola, consiste nella predicazione della Parola di Dio là dove ancora non è stata predicata. Il Concilio ha distinto così, senza avanzare però spiegazioni, l’attività missionaria dall’attività pastorale comune e dall’impegno ecumenico.

D’altra parte ha fatto una sintesi delle due correnti missio- nologiche, quella prevalente in campo protestante e quella detta curialista, ritenendo che gli elementi essenziali dell’attività missionaria sono due: la predicazione della Parola e la «planta- tio ecclesiae». La predicazione del Vangelo deve sfociare nella formazione di una comunità cristiana.

Il principio fondamentale tuttavia, messo in rilievo dal Concilio, è che tutta la Chiesa porta la responsabilità dell’espansione missionaria[10]. Nei confronti della tradizione precedente, il Vaticano II ha effettuato così un significativo spostamento delle responsabilità e delle competenze. Mentre antecedentemente si poteva avere l’impressione che la responsabilità delle missioni cadesse in ultima analisi solo sulla S. Sede[11], il Concilio ha affermato che tale responsabilità, pur spettando «singulari modo» al papa, incombe a tutto il collegio episcopale[12]. Le più importanti conseguenze tratte da questo principio, nuovo nella sua formulazione, ma che si aggancia alla prassi della Chiesa antica, furono le seguenti: la ristrutturazione di Propaganda Fide con l’inserimento dell’episcopato di tutto il mondo[13]; il diritto delle Chiese orientali di poter esplicare l’attività missionaria nel loro rito[14]; il dovere imposto ai vescovi, non fissato per altro in termini giuridici chiari, di mettere preti della propria diocesi a disposizione delle missioni[15].

L’impegno missionario è posto dal Concilio non tanto in termini di dovere morale individuale per i singoli cristiani, ma, in prospettiva profondamente ecclesiologica, come dovere della comunità cristiana. In termini, perciò, di scambio tra le diverse comunità cristiane; tra Chiesa locale e Chiesa locale[16]. Secondo il Vaticano II ogni diocesi deve inserirsi, come espressione socio-comunitaria, nella dialettica missionaria con una responsabilità propria[17]. Il concetto ripetuto anche in questo contesto, è che la Chiesa particolare deve «riprodurre alla perfezione la Chiesa universale»[18].

Da un punto di vista teologico altri due aspetti della questione ci sembrano essenziali. Prima di tutto l’atteggiamento tipicamente cristiano nell’impegno, sia missionario che caritativo, è quello della condivisione di una situazione[19]. Cristo ha assunto la situazione umana e attraverso questa condivisione totale ha salvato il mondo[20]. Dimenticare questo principio significa correre il rischio di cadere in un processo di colonizzazione. Il movente che spinge il cristiano non è in primo luogo il fatto che in un determinato ambiente ci possano essere dei bisogni religiosi, culturali o materiali, ma il bisogno imperativo di partecipare interamente ad una situazione, condividendone le aspirazioni e le necessità. L’atteggiamento è quello di vivere davvero in comunione, «incorporati vitalmente nella comunità locale». Solo così «l’essere umanamente degli stranieri non farà che risaltare meglio l’universalità del cristianesimo e la forza della Carità, la quale crea il vincolo di totale unità fra le persone che mentalità diverse e sentimenti nazionalistici terrebbero ordinariamente divise e lontane»[21].

Il secondo aspetto da sottolineare è quello del valore edu- cativo-pedagogico dell’impegno missionario. Se una comunità non sa vivere una dimensione missionaria, arrischia di perdere l’essenza dell’esperienza ecclesiale e perciò la coscienza di se stessa[22]. Nella misura in cui una Chiesa locale non è aperta alla comunione viva con gli altri cristiani, si priva anche della «possibilità di realizzare la propria personalità, di essere propriamente e autenticamente cattolica, si impoverisce e riflette una immagine meschina dell’“insondabile ricchezza” del mistero di Dio». La comunione missionaria di una comunità con un’altra Chiesa particolare («plantatio ecclesiae»!) è condizione perché ci sia un arricchimento della comunità di origine. La rinuncia ad un impegno del genere sarebbe un impoverimento, perché preclude il contatto con la vita degli altri membri della Chiesa: fa perdere di conseguenza il senso per l’universalità, che è «lo spazio cui è destinata quella comunione che è l’essenza del cristianesimo». Il senso per l’universalità si genera nell’individuo attraverso l’esperienza del contatto diretto con i problemi della comunità universale che è la Chiesa[23].

3. L’impegno missionario nella diocesi di Lugano

La diocesi ticinese è impegnata in campo missionario in due organismi diversi. Il primo è quello delle Opere Pontificie Missionarie che sfocia nella Giornata Missionaria e nella relativa colletta. Sul piano della formazione, la Giornata Missionaria si riduce spesso al fatto di una predica o, nella migliore delle ipotesi, a quello di una conferenza a livello parrocchiale o di gruppo organizzato tenuta da un missionario di passaggio. Sul piano dell’impegno concreto, l’attenzione è assorbita dalla colletta. Il cristiano medio viene difficilmente toccato nella sua vita personale e nei suoi orizzonti religiosi. Di partecipazione concreta all’esperienza missionaria della Chiesa universale non si può veramente parlare; per lo più si tratta per il singolo di fare un gesto isolato, compiuto in una prospettiva spirituale moralistica e individualistica, che non riesce ad incidere profondamente nella sua problematica ecclesiale e che perciò, oltre ad avere un’incidenza misera da un punto di vista dell’aiuto materiale dato[24], ne ha poca anche sul piano educativo.

Il secondo settore nel quale la diocesi è impegnata è quello del Sacrificio Quaresimale dei Cattolici Svizzeri (sarebbe ora e tempo di designarlo «dei Cattolici in Svizzera»), Qui assistiamo purtroppo, e malgrado il successo relativo riscosso anche nel Ticino, ad una duplice riduzione o impoverimento del significato pedagogico-ecclesiale dello stesso. Da una parte la carica teologica che gli organi centrali cercano di imprimere all’opera, con il ricco materiale preparato dalla Commissione Teologica, viene diffuso tra la popolazione parrocchiale ticinese, su scala minore; dall’altra l’interesse viene assorbito sempre di più, nell’opinione pubblica, dal problema della rifusione dei fondi alla Diocesi per istituzioni il cui carattere diocesano offre spesso il fianco alla critica. Sarebbe troppo affermare che esiste una partecipazione della comunità cristiana ticinese alle iniziative missionarie prese dagli organi centrali e che sia nato un dialogo qualunque con le Chiese in terra di missione. Esiste perciò il pericolo che la problematica religiosa missionaria propria del Sacrificio Quaresimale si riduca ad una problematica penitenziale, di natura moralistica: ad un modo organizzato con fantasia nuova per assolvere il proprio dovere caritativo. Educa cioè a compiere la «buona azione», dandole nel confronto di un tempo una dimensione comunitaria-eucaristica più spiccata, la quale rimane però un gesto in favore di un prossimo anonimo, senza che avvenga con esso uno scambio di esperienza al livello personale ed ecclesiale, con la condivisione di una situazione.
Tutte e due le iniziative peccano di astrazione, perdendo così molto del loro valore educativo sul piano teologico-religioso. Ciò è da attribuire probabilmente anche al fatto che la diocesi è inserita in opere dirette sostanzialmente da altri, che per la loro stessa struttura sfuggono forse alla possibilità di un impegno più diretto e concreto. Almeno per quanto riguarda il Sacrificio Quaresimale, ci sembra urgente evitare di lasciarlo cadere nella «routine». Il Comitato diocesano del Sacrificio Quaresimale non dovrebbe ridursi ad essere una commissione di carattere tecnico, che assolve il suo compito nell’approvare i vari progetti di sussidio. Il MP Ecclesiae Sanctae domanda che in ogni diocesi ci sia un sacerdote incaricato di portare avanti il discorso missionario[25]. Esistendo già una commissione, niente impedirebbe di allargare il suo raggio d’azione e la sua competenza a tutto il problema delle missioni, in modo da diventare attiva, in seno alla diocesi, come altre commissioni sul piano informativo, formativo e organizzativo dell’impegno missionario. In questa prospettiva si potrebbe pensare seriamente anche alla possibilità di creare un’opera missionaria propria della diocesi, la quale sarebbe pure raccomandata dal Concilio[26]. Non si tratta di mettere in secondo ordine gli impegni ufficiali inter- diocesani già esistenti[27] e neppure di sottovalutare le numerose iniziative missionarie private. Queste hanno del resto, spesso, solo carattere occasionale e peccano facilmente di unilateralità, sia per quello che concerne le persone aiutate, sia per lo stile e i mezzi con i quali sono condotte. Non sempre sanno superare la tecnica della strumentalizzazione reclamistica, propria della civiltà dei consumi, dimenticando perciò di far emergere in primo piano i valori ecclesiali di fondo. L’impegno missionario ha un significato religioso-ecclesiologico che l’impegno umanitario per l’aiuto ai Paesi in via di sviluppo non ha necessariamente; perciò non dovrebbe andare perso.

In sostanza si dovrebbe partire dal principio che un’opera, quanto più è concreta e percepita come propria, tanto più educa a sostenere anche le iniziative più astratte, su scala nazionale e internazionale. Si potrebbe perciò pensare, senza aver paura che la moltiplicazione delle iniziative provochi un annacquamento generale – l’organizzazione dell’Adveniat dopo la Mise-reor ha dimostrato in Germania esattamente il contrario -, di fare un «gemellaggio» della diocesi con una Chiesa missionaria. E un’iniziativa molto diffusa in altri Paesi ed offre il vantaggio di concretizzare l’impegno missionario con estrema precisione, di creare un rapporto tra comunità e comunità, tra persone, tra facce concrete, tra gruppi di lavoro, tra il clero, seminaristi e laici delle due Chiese particolari; essa genera scambi culturali, una condivisione profonda di situazioni concrete, suscita vocazioni ecclesiali, preghiere per situazioni, aspirazioni, bisogni ed esperienze concrete.

Il problema missionario in una diocesi deve essere percepito come risposta ai segni dei tempi e di conseguenza come strumento efficacissimo sul piano della pastorale comune. La gioventù moderna ha dimostrato abbondantemente di lasciarsi affascinare da una problematica universale, dal problema della pace, della fame nel mondo, della giustizia sociale. Il problema missionario sta, ecclesiologicamente, allo stesso livello universale; offre perciò, da un punto di vista religioso, una risposta risolutiva alle esigenze spirituali dell’uomo moderno, perché lo tocca nella struttura più sensibile della sua coscienza. L’impostazione dello stesso, di conseguenza, non deve essere vista solo nella prospettiva del possibile e magari debole aiuto che si può offrire inizialmente agli altri, ma come possibilità pastorale di far riscoprire nella comunità di origine i valori religiosi ecclesiali di fondo, permettendo un superamento di ogni tipo di pastorale individuale moralistica, che non ha più grande incidenza, non solo per il giovane, ma anche per il cristiano maturo che capisce come la sua esperienza religiosa sia stata impostata con un’angolatura troppo stretta.

Il contributo specifico che la Chiesa deve dare alla soluzione dei problemi della pace e della fame nel mondo, che sostanzialmente sfuggono alla sua competenza e alle sue possibilità dirette e che hanno fatto saltare, però, anche ogni tipo di etica borghese, è quello di educare i cristiani ai valori universali, attraverso un’esperienza religiosa impostata sul carattere tipicamente universale, cattolico, della comunione ecclesiale. Il cristiano che ha percepito, con l’autenticità dell’esperienza concreta, il valore universale della missione, non può restare indifferente ai problemi dell’umanità, a qualsiasi livello di rapporti umani, sociali, politici e culturali essi si pongano.

Esiste un Movimento Ticinese per la fame nel Mondo che ha raccolto un vasto consenso nell’opinione pubblica; esistono missionari usciti dalle fila del clero e del laicato diocesano. Sono punti di riferimento che dovrebbero essere presi in considerazione per inserire una eventuale opera missionaria diocesana su elementi già esistenti dato che hanno già sensibilizzato larghi strati della popolazione.

L’apertura della diocesi a responsabilità dirette in seno alla Chiesa universale va di pari passo con la riscoperta della propria coscienza ecclesiale, della propria fisionomia e vitalità religiosa. Diventa perciò un problema pastorale di capitale importanza. Il Consiglio Pastorale dovrebbe dargli perciò ogni priorità, per non arrischiare di cercare la soluzione dello stagnamento della vita religiosa con soluzioni a corto metraggio. L’impostazione del problema missionario è determinante per una rinascita religiosa postconciliare, che deve risolvere su scala mondiale il problema dell’ateismo. Ha valore anche paradigmatico nei confronti degli altri problemi che si pongono, pastoralmente, sullo stesso livello universale, come quello ecumenico, per il quale si potrebbe ripetere, di conseguenza, sostanzialmente lo stesso discorso.


II. Le implicazioni diocesane del principio della collegialità

1. Limiti ed estensione del principio collegiale

a) Il collegio episcopale

Il Vaticano II ha riscoperto in modo definitivo, e con ricchezza di prospettive teologiche, il principio tradizionale della costituzione della Chiesa[28], secondo il quale tutto l’episcopato porta una responsabilità collegiale nel governo della Chiesa[29]. Il principio della collegialità è emerso come formulazione eminentemente teologico-giuridica dalla dottrina della comunione ecclesiale, la quale, malgrado non sia riuscita – sorprendentemente, se si tien conto della facile vena antigiuridica assunta talvolta dai Padri conciliari ad esprimersi con tutta la ricchezza che le sarebbe propria, lega come tenue tessuto di fondo tutta l’ecclesiologia vaticana[30].

D’altra parte, il Concilio non è riuscito ad esaurire neppure il significato del principio collegiale. Dopo aver percepito il mistero della «communio» come essenza della vita ecclesiale, ha saputo tradurre esplicitamente questa realtà in termini operativi e strutturali solo al livello supremo della piramide gerarchica della Chiesa. Terminológicamente infatti ha riconosciuto il carattere collegiale solo al corpo universale dei vescovi, uniti in comunione gerarchica con il papa. E stato questo un espediente discutibile per esprimere che solo il collegio universale di tutti i vescovi, con a capo il papa, può rivendicare un potere ed un’autorità universale e suprema su tutta la Chiesa. In realtà è fuori dubbio che anche le altre forme sinodali episcopali, al livello della Chiesa particolare, hanno carattere collegiale sia in senso teologico che giuridico[31]. Esse infatti possono rivendicare sulla Chiesa particolare loro affidata un’autorità, che non è la somma del potere dei singoli vescovi, ma un potere del collegio particolare in quanto tale: un potere collegiale.

Se la comunione è l’essenza della vita ecclesiale, il sistema collegiale deve essere considerato sul piano strutturale, e tenendo conto dell’analogia che si impone ai diversi livelli, come espressione tipica del regime ecclesiale. D’altra parte, dato che la «communio» è «kierarchica»[32], anche il regime collegiale implica necessariamente una dimensione autoritativa-personale. La collegialità trova il suo equilibrio e punto di riferimento attorno al principio gerarchico dell’unità tra Capo e Corpo[33].

Il termine collegiale non è di origine canonica ma di importazione romana[34]. Etimologicamente perciò non può esprimere con adeguatezza la realtà che è chiamato a significare, perché essa non è fondata sulla eguaglianza di funzione dei diversi membri del Popolo di Dio. Il termine sinodale, che può vantare una tradizione più forte e ininterrotta specialmente grazie alla Chiesa orientale e che non è stato confiscato dal Vaticano II per nessuna struttura particolare (il collegio universale dei vescovi), potrebbe essere usato per esprimere la struttura operativa della «communio ecclesiastica» a tutti i livelli.

Sarebbe anche urgente del resto eliminare dalla terminologia teologica (o para-teologica) ogni concetto importato dai sistemi politici statali[35], essendo questi radicalmente inadeguati ad esprimere la realtà della Chiesa[36]. L’idea di democrazia può connotare l’uguaglianza di tutti i cristiani di fronte a Dio in ordine alla salvezza, ma poiché implica in modo essenziale il concetto che il potere viene dalla base, è incompatibile con la struttura della costituzione ecclesiale. Il termine monarchia a sua volta riesce ad esprimere l’idea di subordinazione delle funzioni, ma snatura il regime proprio della Chiesa, perché le istanze ecclesiali inferiori hanno spesso una giustificazione propria, un potere canonico proprio, una competenza e una responsabilità inalienabile che non è derivata dall’alto.

b) Il presbiterio

L’autonomia originale delle diverse istanze ecclesiali inferiori è solo analogica. Il rapporto che intercorre tra il papa e il collegio dei vescovi – di cui egli è membro e capo – non è uguale a quello che intercorre tra il vescovo e il presbiterio (di cui è membro e capo)[37] o tra il presbiterio (con il vescovo) e il laicato. Il legame tra papa e vescovi non è un legame di dipendenza di potere, ma un legame di comunione[38]. I vescovi rappresentano in seno al collegio la propria Chiesa particolare, la quale ha per diritto divino un’esistenza e un’autonomia propria anche se non assoluta. I sacerdoti per contro non rappresentano in seno al presbiterio una Chiesa particolare propria, anche quando dovessero essere parroci. La parrocchia infatti non sta sullo stesso piano della diocesi perché è una realtà che ha giustificazioni e autonomie proprie fondate solo sul diritto positivo canonico. Ne consegue che la diocesi non è data dalla somma delle parrocchie, perché sono Chiese particolari solo in senso analogico rispetto alla diocesi o alla comunità eucaristica, e in ultima analisi semplici circoscrizioni amministrative, alle quali il Diritto canonico ha riconosciuto per ragioni storico-pratiche una certa autonomia (giurisdizione ordinaria propria del parroco, almeno in foro interno)[39]. La diocesi non nasce, in altre parole, dalla «communio» delle parrocchie tra di loro, ma dalla «communio» di tutto il Popolo di Dio che fa capo ad essa. E perciò la realtà prima e originale.

Seguendo questa linea di pensiero, si capisce perché il Vaticano II ha invertito, nei confronti della teologia medioevale, che si era ispirata a San Gerolamo, il modo di affrontare il problema del rapporto sacramentale tra sacerdozio ed episcopato. Come punto di partenza non ha più preso il sacerdozio ma l’episcopato. Da esso deriva l’ordine sacerdotale, nel senso che questo consiste in una partecipazione alla pienezza del sacerdozio del vescovo[40]. Ciò non significa che il presbiterato non sia necessario, di necessità divina, nella Chiesa, come qualche volta si è pensato, quasi che si sia ramificato dall’episcopato solo per pratiche ragioni di supplenza[41]. La teologia moderna si orienta ancora nel senso di ritenere il presbiterato come necessario[42].

In questa prospettiva, anche la funzione del presbiterio in seno alla diocesi assume un valore più preciso. La diocesi non è concepibile senza il suo capo naturale; il vescovo a sua volta, non è immaginabile senza il presbiterio. Vescovo e presbiteri formano un’unità sinodale, il presbiterio. I presbiteri hanno una giustificazione propria sia perché rappresentano direttamente Cristo nell’atto di amministrare i sacramenti, sia perché sono i consiglieri necessari del vescovo nel governo della diocesi: essi portano una responsabilità collettiva che non è riducibile a quella personale del vescovo, anche se è ordinata ad essa[43]. Non fa perciò meraviglia riscoprire che il regime della Chiesa particolare (diocesi), sia nato e sopravvissuto fin a Medioevo inoltrato non come regime puramente episcopale, ma sinodale. Il regime delle Chiese antiche era sinodale; avevano a capo un collegio di presbiteri[44] in mezzo ai quali, già a partire dall’inizio del il secolo, la teologia ha saputo identificare la figura del vescovo come capo del presbiterio. Esso si era staccato chiaramente dagli altri presbiteri appellandosi alla dottrina della successione apostolica[45]. Non era perciò un regime democratico presbiterale, ma gerarchico.

Il regime sinodale si è indebolito man mano che l’evangelizzazione dalla città, dove il presbiterio era riunito attorno al vescovo, si estese alla campagna creando la figura del parroco, autonomo per molti aspetti nei confronti del vescovo, ma soprattutto slegato da un rapporto di responsabilità diretta nei confronti di tutta la Diocesi[46].

Questa responsabilità restò nelle mani del clero cittadino e si concentrò a partire dal IX secolo in quelle del clero della cattedrale, il quale nel Xl-Xll secolo prese il nome di capitolo cattedrale[47]. Ad esso toccò la sorte, con mezzi sempre più ridotti e inadeguati, di conservare nella tradizione ecclesiale la dimensione sinodale propria del presbiterio.

c) Il laicato

Il terzo livello al quale si estende il principio sinodale è quello dei laici. Come per il presbiterio, anche per la partecipazione dei laici alla responsabilità ecclesiale, il Concilio non usa il termine di collegialità. Non sarebbe tuttavia estraneo al pensiero teologico vaticano parlare di responsabilità sinodale anche per i laici, visto che anche i laici, come i vescovi e i presbiteri, partecipano «suo modo et prò parte» al sacerdozio, al magistero e alla regalità di Cristo.

Se la definizione teologica del laicato dovesse prendere le mosse dalla sua competenza specifica nei confronti delle realtà terrestri, sarebbe difficile giustificare le loro corresponsabilità nell’ordine spirituale dell’apostolato della Chiesa. D’altra parte l’apostolato della Chiesa è uno e comprende sia l’ordine spirituale che quello temporale, poiché la «salvezza degli uomini abbraccia pure la instaurazione di tutto l’ordine temporale»[48]. La definizione del laico, anche in ordine alla missione temporale, può essere fatta, di conseguenza, solo tenendo conto del fatto che il laico è tale non perché è semplicemente uomo e vive nel secolo, ma perché è membro della Chiesa.

All’art. 31,1 (362) della Lumen gentium, il Concilio ha dato la definizione teologica del laico, partendo dalla sua partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. E un’affermazione di fondo che il Concilio stesso non ha sempre rispettato in modo coerente. Da una parte infatti dimentica generalmente[49], negli altri testi, che i laici partecipano anche all’ufficio regale; dall’altra, nel cpv. 2 dell’art. 31 (363) sembra definire il laico in forza anche della sua indole secolare. Se si dovesse considerare questa seconda affermazione della Lumen gentium, ripetuta con molta frequenza specialmente nel Decreto sull’apostolato dei laici ( Vat. Laic.), sullo stesso piano teologico della prima, l’antinomia sarebbe inevitabile. Questa seconda affermazione non può avere il carattere di una definizione teologica, ma semplicemente quello di una constatazione di ordine sociologico, tanto più che l’indole secolare non è esclusiva dei laici[50].

Il laico, grazie alla sua esperienza secolare, è in grado di dare un apporto specifico all’impostazione dell’apostolato della Chiesa. Questa competenza tuttavia non dà la giustificazione teologica ultima della sua funzione costituzionale e della sua responsabilità all’interno del Popolo di Dio. Il luogo teologico del laicato è dato dalla sua partecipazione diversa qualitativamente (non tanto quantitativamente) ai tre uffici di Cristo[51]. Ne consegue che anche le altre distinzioni fatte dal Concilio in merito alla partecipazione dei laici all’apostolato della Chiesa – come per esempio quella circa l’apostotato gerarchico – possono essere spiegate solo come tentativo di salvare posizioni interlocutorie del magistero e della letteratura teologica. In realtà esse hanno semplicemente un carattere descrittivo e indicativo. Esse devono essere recuperate partendo dal principio fonda- mentale della partecipazione del laico all’apostolato globale della Chiesa in forza del suo carattere sacerdotale, profetico e regale[52]. L’unità della Chiesa e l’unitarietà del suo apostolato possono essere salvati solo partendo da questa premessa.

Una teologia del laicato, che prende come spunto l’indole secolare dello stesso e di conseguenza la sua non sempre rettamente valutata autonomia nei confronti della gerarchia, conduce inevitabilmente a creare nella Chiesa una duplice gerarchia, una clericale ed una laicale[53]. L’unità di fondo dell’apostolato della Chiesa e la funzione qualitativamente diversa dei membri del Popolo di Dio, e non la loro diversa situazione sociologica, devono essere prese come base teologica per definire la funzione specifica del sacerdozio ministeriale e del laicato nelle strutture della Chiesa. Infatti la loro diversa situazione sociologica potrebbe anche scomparire, quando i presbiteri dovessero riprendere ad esercitare una professione secolare come nella Chiesa antica[54].

Da queste premesse si deve dedurre la conseguenza che all’interno degli istituti ecclesiali, ai quali è affidato il compito di rappresentare e realizzare l’apostolato della Chiesa nella totalità della sua missione (come la Diocesi e la parrocchia), la struttura unitaria gerarchico-sinodale della Chiesa deve essere rispettata fino in fondo. Ciò esclude da un punto di vista teologico che possano essere introdotti elementi strutturali essenziali che facessero capo alla situazione sociologica diversa nella quale vivono le varie categorie di persone del Popolo di Dio.

2. Le moderne strutture sinodali diocesane

Dalla coscienza sinodale del Concilio sono emersi sul piano delle strutture tre istituti fondamentali per la vita della Chiesa particolare: il Consiglio del Clero, il Consiglio Pastorale e i Consigli proposti dal Decreto sull’apostolato dei Laici (art. 26).

a) Il Consiglio del Clero (CC) e il Consiglio Pastorale (CP)

Il Consiglio del Clero ha il compito di rappresentare il presbiterio e di assistere il vescovo nel governo della diocesi[55]. Il Concilio non è andato oltre nell’analisi di questo istituto. L’orientamento della letteratura teologica in merito è duplice[56]. Il primo tende a riconoscere al CC una competenza generale in tutte le questioni che interessano la vita diocesana. Il secondo riduce il campo dello stesso agli interessi specifici del clero diocesano, cioè del presbiterio[57], superando così il problema della ripartizione delle competenze tra il CC e il CP.

Al Consiglio Pastorale il Vaticano II ha dato il compito di consigliare il vescovo, mettendo l’accento sulla sua funzione di organismo di studio e di ricerca[58].

La differenza essenziale dei due consigli sta nel fatto che solo in quello pastorale sono rappresentati i laici. In realtà una ripartizione di competenze fatta in base alla distinzione tra problemi pastorali e problemi che toccano gli interessi specifici del presbiterio non sfugge ad una certa arbitrarietà[59]. La presenza dei laici induce ad estendere le competenze del CP a tutti i settori della vita pastorale che non possano eventualmente essere qualificati strettamente come interessi di categoria. Anche questi ultimi tuttavia appartengono all’ambito generale della vita pastorale e come tali perciò non sfuggirebbero del tutto all’interesse del laicato. E inevitabile perciò che il CP diventi, con il tempo, il vero organo consultivo del vescovo per tutti i problemi pastorali diocesani. A prima vista si potrebbe pensare che sarebbe stato più logico creare un unico consiglio comprendente chierici e laici riservando gli interessi di categoria alla competenza specifica di commissioni subordinate allo stesso. È un fatto invece che il CC non potrebbe essere ridotto a gremio subordinato al CP. Ciò creerebbe uno squilibrio nella compagine gerarchica della Chiesa. Il presbiterio è direttamente unito e subordinato al vescovo di cui è la corona e a cui il vescovo stesso appartiene. Di conseguenza deve rimanere un gremio nel quale l’incontro tra il vescovo e i presbiteri è immediato[60].

b) I Consigli diocesani, vicariali e parrocchiali

Il terzo tipo di istituto creato dal Concilio per impegnare tutte le categorie di persone del Popolo di Dio a tutti i livelli strutturali in una responsabilità comunitaria o sinodale sono i consigli parrocchiali, vicariali e diocesani ecc. di cui si è fatto promotore il Decreto sull’apostolato dei laici (art. 26).

Anche in questo caso il Concilio non si è occupato a fondo della questione. Le indicazioni date sono molto sommarie e lasciano molto spazio a realizzazioni che tengono conto dei fattori storici, sociologici e religiosi di ogni singola Chiesa particolare.

Alcune indicazioni di fondo tuttavia si possono leggere anche nei testi conciliari. Prima di tutto non si tratta di consigli laicali, ma di organismi nei quali clero e religiosi collaborano con i laici. Il testo definitivo del cpv. 3 (1013) ha sostituito la congiunzione «et» con «cum», mettendo così l’accento su una prevalenza laicale[61]. Il compito assegnato dal Concilio a queste consulte dovrebbe essere quello di coordinare l’attività di tutti i gruppi di apostolato riconosciuti o di libera formazione.

Questi si diversificano inoltre nettamente da tutte le altre associazioni o gruppi di apostolato, non tanto per il fatto di avere carattere officiale, ciò che può essere comune anche ad altre associazioni come per esempio all ‘Azione Cattolica, ma perché sono gremì destinati a diventare organi strutturali della costituzione della diocesi. Sono strutture erette parallelamente e in stretta connessione con gli uffici tradizionali del Diritto canonico, come la parrocchia e il vicariato foraneo. Sono perciò destinati a diventare gli organismi sinodali dell’ufficio parrocchiale, vicariale ed episcopale, i quali tuttavia non possono sostituire il parroco o il vicario foraneo nella loro responsabilità personale gerarchica ultima, allo stesso modo che il CC non può sostituire il vescovo.

Un terzo carattere che il Concilio ha dato a questi organismi è quello di essere organi consultivi. Su questo punto le interpretazioni e la prassi sono tuttavia discordi. Infatti la tendenza di fare di questi consigli dei gremì corporativi con voce non solo consultiva ma deliberativa, dove il parroco e i vicari foranei siedono non nella loro funzione gerarchica, ma semplicemente come membri «inter pares», si è subito manifestata. In Germania, appoggiandosi al modello della preesistente organizzazione dell’Azione Cattolica che fa capo al Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi, si è fatto di questi nuovi gremì degli organismi che culminano in una gerarchia laicale contrapposta a quella clericale, spaccando così l’unità del principio gerarchico della Chiesa. Dal momento che a questi consigli è stata riconosciuta una competenza che si estende sostanzialmente a tutti i settori della vita ecclesiale, una struttura che culmini in una gerarchia, che non sia quella fondata negli uffici ecclesiali, non è teologicamente giustificabile. La Chiesa nella totalità della sua funzione pastorale, sia universale che particolare, non può essere rappresentata da una gerarchia laica[62].

La possibilità di allargare la competenza di questi organismi a tutti i problemi della vita ecclesiale, nelle rispettive delimitazioni territoriali, oltre ad essere già insinuata dal testo conciliare (cpv. 1), è insita nella natura delle cose. Infatti rispetterebbe fino in fondo il principio che anche i laici portano una responsabilità globale di fronte ai problemi della vita ecclesiale, senza dire che, in pratica, il compito di coordinare le attività degli altri gruppi (Azione Cattolica, gruppi caritativi, di formazione culturale religiosa, ecc.) farebbe inevitabilmente straboccare il loro raggio di azione in tutti i settori della vita pastorale[63]. Questi consigli vengono ad avere di conseguenza sostanzialmente lo stesso raggio d’azione pastorale del parroco e del vicario foraneo. Se fossero organizzati su base corporativa-democratica nascerebbero conflitti di competenze con coloro che sono investiti degli uffici canonici verso i quali sono ordinati (parroco, vicario foraneo). In Germania si è cercato di rimediare a questo stato di cose, originato dalla falsa impostazione data ai consigli stessi, introducendo negli statuti clausole di emergenza, come il diritto di veto del parroco[64]. Ciò non fa che mettere in evidenza l’errore democratico di fondo. Se questi consigli vogliono essere organi rappresentativi sinodali della comunità cristiana, nella totalità dei suoi interessi pastorali, non possono prescindere dalla struttura gerarchica che è propria alla stessa. Di conseguenza non possono avere nei confronti sia del parroco che del vicario foraneo, come del vescovo, che una funzione consultiva, la quale naturalmente può manifestarsi tecnicamente nella forma della votazione. Ciò che non deve essere perso di vista è che la funzione dell’ufficio ecclesiale, proprio perché è servizio, è quella di garantire l’unità della comunità cristiana. Questa responsabilità, che all’occorrenza potrebbe consistere anche nel proteggere una minoranza, è propria delle persone investite dell’ufficio canonico. E un dovere e un diritto inalienabile che non può essere esercitato da una frazione maggioritaria della comunità. Un voto deliberativamente vincolante può eventualmente essere riconosciuto a gruppi laicali o anche misti quando la loro competenza fosse limitata a determinati settori della vita ecclesiale come, per esempio, quello dell’amministrazione dei beni ecclesiastici[65]. Anche su questo punto tuttavia l’esperienza fatta nel corso della storia della Chiesa non deve essere dimenticata. Negli Stati Uniti d’America i Trustees laici hanno costantemente minacciato – grazie alla loro struttura corporativa di diritto privato – di bloccare l’azione pastorale della Chiesa, che pure, fin dall’inizio della sua storia, ha avuto una profondissima impostazione sinodale[66].

L’efficacia del voto consultivo non deve essere d’altra parte sottovalutata, soprattutto se dovesse essere riconosciuto a questi gremi un diritto di consultazione con la conseguenza giuridica di rendere invalidi gli atti posti dal titolare dell’ufficio ecclesiale (parroco, vicario foraneo) compiuti senza previa consultazione (can. 105 )[67].

3. Struttura sinodale della diocesi di Lugano

La diocesi di Lugano è stata tra le prime ad erigere in Svizzera il Consiglio del Clero[68]. Laboriosa e polemica si è dimostrata per contro la costituzione del Consiglio Pastorale[69].

A) Al CC, data la precedenza cronologica avuta, sono state riconosciute competenze generali, mentre il CP ha assunto prevalentemente la figura di un organismo di studio il quale, salvo il giudizio diverso dell’Ordinario, sottopone i suoi lavori per una deliberazione definitiva al CC. Questa clausola (CP art. 12) cerca di salvare da una parte l’unitarietà del processo consultativo nei confronti del vescovo, dall’altra di superare il difficile problema della delimitazione delle competenze tra i due Consigli. L’esperienza raccolta sarà decisiva in vista della elaborazione degli statuti definitivi.

B) Il punto critico per la costituzione del CP fu quello della procedura per la designazione dei laici[70]. Manca infatti una struttura diocesana dove i laici siano organizzati globalmente, tenendo conto delle diverse forme di apostolato, in modo da essere rappresentativa in seno alla diocesi di tutto il laicato. La necessità di avere una base elettorale per il CP, ma soprattutto quella di riconoscere al laicato una responsabilità generale nella vita della comunità cristiana, rende urgente la costituzione dei Consigli proposti all’art. 26 del Decreto sull’apostolato dei laici.

a) Sarebbe illusorio credere che la vita sinodale possa essere vissuta al livello superiore delle strutture, quando non fosse sostenuta da un’impostazione comunitaria capillare della vita di tutto il Popolo di Dio[71], a meno di degradare la prima al livello di un’attività parlamentare. Si tratta perciò prima di tutto di dare una struttura alla parrocchia che rispecchi la natura specifica della comunità cristiana. L’attuale Parrocchia creata dalla Legge sulla libertà della Chiesa cattolica e sull’amministrazione dei beni ecclesiastici del 28 gennaio 1886 (LCE), come struttura corporativa statale, è inservibile a questo scopo. Parte da presupposti filosofico-giuridici inconciliabili con le esigenze canoniche. Non fa meraviglia perciò il fatto che non sia mai riuscita neppure di fatto a sviluppare un movimento comunitario parrocchiale. I fondamenti statutari della LCE, che da un punto di vista canonico non possono essere accettati soprattutto se dovessero essere confrontati con le nuove esigenze conciliari, sono noti. Possono essere riassunti nelle voci seguenti: struttura democratico-corporativa, esclusione della donna e del cittadino non svizzero, limitazione delle competenze all’amministrazione di una parte dei beni ecclesiastici, competenza dell’assemblea parrocchiale di decidere sulla fusione o sul dismembramento delle parrocchie, soggezione al potere di vigilanza anche dello Stato, da ultimo il fatto che gli organi parrocchiali agiscono primariamente in nome dello Stato[72].

Dalle competenze della costituenda Comunità parrocchiale, il cui organo esecutivo potrebbe essere una Consulta parrocchiale, devono essere sottratte, fino al momento di una eventuale revisione della LCE, quelle proprie dell’attuale Parrocchia e del Consiglio parrocchiale. Bisognerebbe però anche evitare di delegare a quest’ultimo tutte le altre competenze finanziarie che interessano la Comunità parrocchiale. Il coordinamento e l’unità, anche su questo punto, dovrebbero essere raggiunti piuttosto incorporando nella Consulta parrocchiale il Consiglio parrocchiale stesso, almeno con la maggioranza assoluta dei suoi membri. Questi potrebbero diventare di fatto i portavoce della Consulta in seno al Consiglio parrocchiale[73].

La Consulta parrocchiale, presieduta dal parrocco, dovrebbe essere composta da membri di diritto (eventuale clero parrocchiale, rappresentanti dei religiosi residenti in parrocchia, del Consiglio parrocchiale, dei gruppi di apostolato), da membri eletti dalla Comunità parrocchiale e da membri designati (pochi) dal clero parrocchiale. La Consulta dovrebbe essere interrogata su tutte le questioni che interessano la parrocchia e potrebbe godere del voto deliberativo nel settore finanziario, che non dipende dall’Assemblea o dal Consiglio parrocchiale.

Tuttavia, visto che il vescovo è il responsabile ultimo del- l’amministrazione dei beni ecclesiastici (can. 1519) e che il Vaticano II non ha abbandonato questa posizione tradizionale, sarebbe opportuno riconoscere al parroco un diritto di ricorso in materia al CP, il quale prepara una proposta di decisione per l’Ordinario. Là dove non si pone il problema di una eventuale riunione o dismembrazione delle parrocchie, la Comunità parrocchiale potrebbe anche essere eretta a persona morale canonica[74], come tale rappresentata dal parroco o da chi ne fa le veci; automaticamente acquisterebbe anche il carattere di ente di diritto pubblico statale[75].

b) Sulla scorta di queste premesse, dovrebbero essere organizzati anche i Vicariati foranei[76], prendendo come base il progetto in corso che prevede la divisione della diocesi in 5 (o più) vicariati, con possibili regioni pastorali[77]. Gli organi del vicariato dovrebbero essere: 1. il Vicario foraneo, nominato dal vescovo su proposta di 2 o 3 candidati presentati dall’Assemblea vicariale. Le competenze personali, oltre a quelle di convocare e dirigere il Consiglio e l’Assemblea vicariali, devono essere stabilite tenendo conto dei can. 445-450, della LCE (art. 32-36), del RLCE (art. 42) e delle indicazioni date dal MP Sane. (I, art. 19); 2. il Consiglio vicariale, composto dal vicario foraneo, dai membri ecclesiastici e laici del CC e CP, dai principali responsabili ecclesiastici e laici della pastorale d’assieme vicariale, dai rappresentanti dei principali gruppi d’apostolato del vicariato e da eventuali laici eletti dall’Assemblea vicariale. Il Consiglio elegge un proprio segretario ed è responsabile dell’organizzazione della pastorale d’assieme vicariale. Considerando il fatto che il Consiglio vicariale non rappresenta tanto la struttura operativa di una comunità eucaristica, ma ha piuttosto il carattere di organo di coordinazione, e che d’altra parte il Vicario foraneo ha delle competenze personali, il Consiglio decide con voce deliberativa[78]; 3. l’Assemblea vicariale, composta dal clero residente nel vicariato, dai rappresentanti dei religiosi, da tutti i laici responsabili della pastorale d’assieme, da tutti i rappresentanti laici dei gruppi di apostolato, e da un numero conveniente di laici eletti dalle Consulte parrocchiali[79]. E convocata regolarmente due volte all’anno, studia i problemi della pastorale d’assieme, ha voto consultivo, ma delibera in modo vincolante, anche nei confronti delle Consulte parrocchiali, sui problemi finanziari del vicariato[80]. Anche i vicariati dovrebbero essere eretti a persona morale.

c) Il Concilio prevede anche un Consiglio per la diocesi. Questo per il vero è stato il primo consiglio eretto in Diocesi, ed ha preso il nome di Consulta diocesana per l’apostolato dei laici[81]. Evidentemente è stato eretto al di fuori di ogni contesto che non fosse quello di una difesa, impostata per altro in modo discutibile, dell’Azione Cattolica[82]. È rimasto fino ad oggi atto puramente formale ed è significativo il fatto che non figura elencata accanto alle altre organizzazioni diocesane nel Direttorio diocesano (1969). Il suo scopo è quello di promuovere «l’intesa (sic!) di tutte le Organizzazioni cattoliche laicali della diocesi»; ne «fanno parte i presidenti di tutte le singole Organizzazioni», «è presieduta da un laico». Nessun membro viene eletto. Salvo errore sono stati chiamati a far parte della stessa i presidenti cantonali e regionali di AC e i tre assistenti. Rappresenta perciò solo YAC e il tipo di apostolato che le è proprio; di conseguenza può essere considerata un organo della stessa, dato che ne ripete anche la struttura, ma non un consiglio ai sensi del Decreto sull’apostolato dei laici (art. 26), a cui, del resto, si richiama il decreto di erezione.

Dato che la diocesi di Lugano è piccola, per cui la moltiplicazione degli enti consultivi non è necessaria e potrebbe anche non essere utile, si dovrebbe rinunciare ad un Consiglio diocesano e far confluire gli organismi parrocchiali e vicariali nel CP. I laici del CP potrebbero essere eletti dall’Assemblea vicariale. Il vantaggio sarebbe quello di allargare la base del CP e di evitare un’ulteriore ripartizione di competenze. Dato che il Consiglio diocesano non dovrebbe avere carattere puramente laicale, non rappresenterebbe in definitiva che un inutile doppione del CP.


III. La scelta del vescovo

1. Il problema ecclesiologico

Il principio che la Chiesa particolare incarna e rappresenta nel vero senso della parola la Chiesa universale (7) e quello che tutti i membri del Popolo di Dio portano una responsabilità comunitaria e sinodale nei confronti di tutti i problemi della Chiesa, sia universale che particolare (77), esigono la revisione di molte strutture attuali. Come esempio paradigmatico potrebbe essere preso quello della nomina dei vescovi, che sta diventando ormai acuto in tutta la Chiesa.

Il Vaticano II ha affrontato questo problema solo nella prospettiva dei rapporti tra Chiesa e Stato[83]. Il MP Eccl. Sane. (I, art. 10; 2222) ha percepito invece la problematica, sia pure in modo ancora embrionale, posta dal principio della collegialità episcopale in questo settore. Ha introdotto una modifica di diritto comune nel sistema attuale, non unitario, delle liste che i vescovi ed altre istanze diocesane devono periodicamente inoltrare alla S. Sede con lo scopo di dare orientamenti su eventuali candidati adatti all’episcopato. La modifica prevede che le Conferenze episcopali devono formare ogni anno collegialmente una lista segreta di candidati da mandare a Roma.

Il trend della «democraticizzazione» è ormai presente in tutti i settori della Chiesa e non mancherà di accentuarsi assumendo atteggiamenti contestatari sempre più radicali, se le istanze gerarchiche superiori non dovessero dimostrarsi propense a cedere a quelle inferiori, in nome del principio della sussidiarietà[84], prerogative accumulate per ragioni storiche legittime ma contingenti, che non fossero necessariamente congiunte con l’essenza della funzione ecclesiale loro propria.

La Commissione di revisione del Codice non ha ancora chiuso la discussione in merito al problema della nomina dei vescovi e non è escluso che riesca a fare una svolta nei confronti del diritto codificatorio, verso la tradizione, restaurando nella Chiesa latina il diritto della Chiesa particolare di partecipare in modo giuridicamente vincolante alla scelta del proprio vescovo.

Nella Chiesa antica il vescovo era eletto in sinodi elettorali ai quali partecipavano il popolo, il presbiterio della Chiesa locale, e con funzione determinante anche i vescovi delle diocesi vicine[85]. Il Concilio di Nicea (325, can. 4) ha fissato il numero minimo dei vescovi necessari per l’elezione e consacrazione a tre. Mentre in Oriente il diritto di elezione passò e rimase nelle mani dei vescovi (Nicea 787, can. 3), in Occidente, dopo essere stato usurpato nel periodo carolingio dal potere secolare, fu riconquistato dalla Chiesa con la lotta per le investiture. Alla fine dell’xi secolo è ancora diritto comune che il vescovo sia eletto dal «populus et clerus». Quasi un secolo più tardi i laici sono totalmente estromessi dalle elezioni (Alessandro III) e il diritto del clero passa nelle mani del Capitolo cattedrale che ormai aveva sostituito il presbiterio in tutte le funzioni diocesane più importanti[86]. La susseguente politica di centralizzazione papale, giustificata in parte dalla preoccupazione di estromettere il potere secolare dagli affari ecclesiastici, il quale tramite i Capitoli cattedrale poteva esercitare un forte influsso anche sulla elezione dei vescovi, riuscì, grazie al sistema delle progressive riservazioni, a rivendicare per la Santa Sede il diritto di nomina dei vescovi (Urbano V, 1363). Solo in seguito alla minacciante pressione del conciliarismo la Santa Sede si vide costretta, sulla base di concordati, a restituire il diritto di elezione ai Capitoli cattedrale (Vienna 1448), o a concedere ai principi secolari, sotto forma di privilegio, il diritto di nomina dei vescovi (Concordato con la Francia, 1516). Da parte loro, quelli che non erano riusciti ad ottenerlo, cercarono di controllare l’elezione del vescovo introducendo il diritto di dichiarare «tninus grata» una persona. Con la scomparsa delle case regnanti cattoliche la Santa Sede approfittò, già prima del Codice (can. 329, § 2), per avocare ancora a sé il diritto di libera nomina dei vescovi, che del resto esercitava ormai su larga scala nei Paesi sottoposti a Propaganda Fide[87].

Nessuno potrebbe contestare che la politica centralizzatrice della Santa Sede sia stata, in questo contesto, molto opportuna, non fosse altro che per aver sottratto progressivamente la Chiesa dalle usurpazioni del potere secolare, diventato nell’epoca moderna sempre più integrista. Tuttavia si deve oggi anche riconoscere che le giustificazioni storiche con le quali fu smantellato, dove fu possibile, il diritto di elezione dei Capitoli cattedrale, sono venute a mancare. Da una parte la Secolarizzazione (1803) ha mutato radicalmente la struttura sociologica dei Capitoli cattedrale, un tempo occupati saldamente dalla nobiltà; dall’altra lo Stato democratico moderno ha perso progressivamente e in larga misura l’interesse, ricevuto in consegna dallo Stato assolutista, di mantenere uno stretto controllo nazionale sulla Chiesa. Questo interesse è stato conservato invece dagli Stati totalitari d’impronta marxista o da quelli autoritari che pretendono di richiamarsi ad una tradizione cattolica.

La libertà, e perciò l’unità della Chiesa, non è più minacciata oggi, al di fuori degli Stati totalitari, da forze esterne, ma da fattori interni che trovano il loro punto di coagulazione nella insofferenza contestataria ecclesiale di fronte ad ogni tentativo dell’autorità di conservare ad oltranza prerogative e diritti di monopolio, che non hanno più una base ecclesiologica sufficientemente fondata. L’autorità della Chiesa non è più messa in discussione dallo Stato ma piuttosto dal Popolo di Dio stesso. Il risveglio della teologia della Chiesa particolare e del laicato hanno suscitato in larghi strati del Popolo di Dio l’impressione di essere stati depauperati di diritti goduti non solo nel primo millennio, ma esercitati, sia pure in modo ridotto ma costante, anche dopo la fine del Medioevo. L’atteggiamento di critica disinvolta di molti gruppi spontanei che confondono spesso Chiesa e democrazia, le occupazioni delle Cattedrali, i casi «Isolotto», sono segnali d’allarme. Devono essere accusati con estrema serietà, come segni dei tempi, perché mettono a nudo un profondo disagio di fronte allo stile con il quale l’autorità gerarchica spesso è ancora esercitata nella Chiesa[88]. Per evitare che la contestazione diventi globale e degeneri nello scisma, dovrebbe essere instaurato senza troppe esitazioni un rapporto di trasparenza sempre più profondo tra le esigenze teologiche e la prassi della Chiesa[89]. Di conseguenza anche il problema della nomina dei vescovi deve essere affrontato oggi in una prospettiva più profondamente ecclesiologica.

La scelta del vescovo è un fatto ecclesiale che tocca tutti i cristiani, per cui dovrebbe valere, sia pure tenendo conto del suo valore analogico, il principio di origine giustiniana, ma recepito con profonde sfumature a tutti i livelli dalla Chiesa medioevale, secondo il quale, «quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet». Questa massima giuridica che è entrata nelle Regolae iuris (n. 29) è stata invocata nella tradizione più autentica della Chiesa anche a proposito dell’elezione dei vescovi. Papa Celestino I (422-432) in una lettera ai vescovi deña provincia di Vienne scrive: «Nullus invitis detur episco- pus»; Leone I (440-461) formula nel senso che: «Quipraefectu- rus est ab omnibus eligatur»; nella stessa direzione si muove papa Lucio III (1181-1185). Evidentemente il principio giusti – niano, che originariamente aveva carattere procedurale, è stato applicato nella Chiesa all’ambito del diritto pubblico costituzionale[90].

È un fatto che la nomina di un vescovo ha per sua natura carattere eminentemente pubblicistico. E necessario perciò che su questo punto siano tratte tutte le dovute conseguenze giuridiche. In particolare deve essere garantita forza giuridicamente vincolante a tutti gli atti posti dañe parti che concorrono alla nomina di un vescovo. La procedura attuale deñe liste, che ha la sua origine nel diritto missionario, non ha carattere vincolante per la Santa Sede ma solo informativo[91]. Il risultato di questa situazione giuridica è che troppo spesso la nomina di un vescovo, malgrado il suo interesse vitale per tutta una comunità locale, può avvenire anche solo in base a un gioco di rapporti, conoscenze, influenze personali e interessi di carattere privato. Può avvenire cioè al di fuori deñe liste ufficiali, su indicazioni di persone che non portano nessuna responsabilità istituzionale e, in ultima analisi, nessuna responsabilità giuridicamente determinabile di fronte alla comunità cristiana.

La prassi invalsa di nominare il vescovo prescindendo da ogni istanza locale competente e responsabile di fronte all’opinione pubblica diocesana e di affidarsi sia al giudizio di persone troppo estranee alla stessa, come spesso sono le istanze delle nunziature, oppure legittimate solo ad esprimere un’opinione personale, non è giusta. In definitiva si ripercuote sul clero e sul laicato in un atteggiamento di disinteresse ecclesiale che trova regolarmente la misura di se stesso nella superficialità e nel pettegolezzo con i quali l’opinione pubblica – come si è verificato anche in occasione della recente vacanza della sede episcopale di Lugano – si occupa del problema della successione di un vescovo. Senza dire che in queste condizioni è troppo facile per il clero trovare un alibi per scindere prontamente le proprie responsabilità di fronte al proprio Pastore e di fronte ai problemi che interessano l’intera diocesi costringendo il vescovo, la cui nomina assume l’aspetto di un «actum inter alios ac- tum», in una gravosa e ingiusta posizione di isolamento. («Nul- lus invitis detur episcopus»!).

Il riconoscimento di una responsabilità giuridicamente vincolante e precisa per tutte le parti che dovrebbero concorrere a porre un fatto ecclesiale dell’importanza della nomina di un vescovo implica, sul piano teologico, il riconoscimento della premessa che anche la Chiesa particolare, nella misura in cui vive in comunione con la Santa Sede, gode dell’assistenza ordinaria dello Spirito Santo. È un principio che deve essere applicato rigorosamente anche quando si tratta di scegliere le persone destinate a guidare e perciò a servire in modo eminente la Chiesa particolare. L’assistenza dello Spirito Santo, a cui anche il Vaticano II fa esplicito riferimento[92], significa in questo caso non solo che la persona è stata legittimamente scelta ed ha perciò il diritto di essere accettata come strumento dei disegni di Dio, ma anche che lo Spirito Santo assiste la Chiesa particolare nella scelta del Pastore adatto. Con ciò però non è data nessuna garanzia contro la possibilità di errori umani. Questa deve essere cercata di conseguenza, e nei limiti del possibile, allargando la cerchia delle persone istituzionalmente responsabili della scelta. La breve storia di una diocesi come quella ticinese potrebbe comprovare, del resto, che nessuna garanzia è data neppure quando la scelta avviene solo al livello dei dicasteri romani[93].

Sarebbe anacronistico oggi pretendere di rispolverare semplicemente il diritto di elezione o eventualmente anche di presentazione dei Capitoli cattedrale. La funzione storica avuta da questo istituto, che non ha mai avuto carattere rappresentativo in quanto i canonici non sono mai stati eletti dal presbiterio[94], è probabilmente, nella sua struttura attuale, esaurita. La funzione avuta dai Capitoli cattedrale nella scelta dei vescovi deve essere integrata con quella che dovrebbe essere riconosciuta alle forme sinodali diocesane create dal Vaticano II, le quali sono diventate il vero senato del vescovo[95] e rappresentano tutti i settori (clero e laici) della Chiesa particolare.

Il problema della partecipazione della Chiesa particolare alla scelta del proprio vescovo non sarebbe ancora risolto introducendo semplicemente la procedura delle liste relative[96] anche se a comporle dovessero essere chiamati, oltre al vescovo, anche il Capitolo e i nuovi consigli diocesani. La carenza fondamentale del sistema delle liste sta nel fatto che esse hanno un valore semplicemente informativo per la Santa Sede con la conseguenza di rendere irrilevante anche la responsabilità delle persone che erigono il catalogo dei candidati. Una norma giuridica per poter raggiungere lo scopo intrinseco alla sua natura, quello di creare una coscienza comunitaria ecclesiale, deve anche avere la forza di vincolare giuridicamente le responsabilità di tutte le parti concorrenti a porre l’atto giuridico.

L’unica soluzione che potrebbe risolvere in modo soddisfacente il problema sarebbe quella di istituire un Sinodo elettorale[97] composto dai rappresentanti del Capitolo cattedrale, dei consigli diocesani (del Clero, Pastorale e quello previsto dal Decreto sull’apostolato dei Laici, art. 26, 2), dai vescovi della provincia ecclesiastica a cui la diocesi vedovata appartiene. Il Sinodo elettorale è convocato e presieduto dal metropolita, al quale dovrebbe essere riservato anche il diritto di consacrare il vescovo nominato o eletto. Il compito di questo sinodo può assumere due figure giuridiche diverse: quella di un diritto di presentazione o quello di un diritto di elezione. Trattandosi di un diritto di presentazione, il Sinodo si riunisce e vota una lista di tre candidati tra i quali la Santa Sede nomina il vescovo. Questo sistema avrebbe il vantaggio di lasciare alla Santa Sede la decisione ultima e di intervenire così come elemento equilibratore delle tensioni che una nomina di un vescovo crea sempre in una diocesi. Per un diritto di elezione la procedura dovrebbe essere doppia. In un primo tempo il Sinodo elettorale si riunisce per formare una lista di sei candidati che il Metropolita inoltra alla Santa Sede. Quest’ultima sceglie tre candidati da sottoporre al Sinodo elettorale per l’atto di elezione, dopo il quale si procede subito alla proclamazione dell’eletto. Una simile procedura avrebbe il vantaggio di accentuare le responsabilità degli elettori e la loro solidarietà con il candidato eletto e rispetterebbe meglio anche l’importanza ecclesiale della presenza dell’episcopato della provincia ecclesiastica. Sia nel primo che nel secondo caso sarebbe possibile e molto opportuno far precedere uno scrutinio per lettera da parte del clero. Ogni sacerdote incardinato potrebbe proporre tre candidati. Lo spoglio è fatto dal Sinodo elettorale il quale procede subito alla formazione della propria lista da mandare alla Santa Sede. I primi dodici candidati proposti dal clero fanno stato per la formazione della stessa.

La creazione di un sinodo elettorale avrebbe un profondo significato ecclesiologico e non rappresenterebbe che una traduzione in strutture moderne dell’istituto dei Sinodi elettorali della Chiesa antica[98]. Sarebbe inoltre una soluzione sinodalmente più adeguata di quella in vigore nella Chiesa orientale, dove solo i vescovi hanno diritto di voto[99], perché implicherebbe la responsabilità di tutto il Popolo di Dio senza assumere forme democratiche estranee alla natura della Chiesa.

2. Il problema della nomina del vescovo nel Ticino

Il 24 luglio 1968 è stata parafasata la convenzione tra i rappresentanti della Santa Sede e del Consiglio federale per staccare la diocesi di Lugano da quella di Basilea, con la quale era stata congiunta «aeque principaliter» in seguito al concordato tra la Santa Sede e la Confederazione il 16 marzo 1888[100].

Il Consiglio federale agisce in nome proprio per il problema concernente la disgiunzione delle diocesi, in nome dei Cantoni per i problemi che interessano i loro rapporti interni con la Chiesa (per esempio clausole economiche, la nomina del vescovo)[101].

Il nuovo concordato corona definitivamente un’aspirazione ticinese che nella sua sostanza risale già alla fine del xvi secolo. Vicende storiche e politiche di varia natura non hanno mai permesso di realizzare questa rivendicazione nella sua pienezza[102].

La nuova convenzione, la cui ratifica da parte del Gran Consiglio Ticinese e delle Camere federali dovrebbe essere imminente [103], rappresenta un atto di politica ecclesiastica da parte della Confederazione, che, se per un verso lascia sperare in una futura revisione della Costituzione federale fatta nel segno della giustizia e di uno spirito ecumenico, dall’altro pone da un punto di vista formale-giuridico-statale la diocesi della Terza Svizzera alla pari delle altre diocesi confederate. Da un punto di vista canonico formale, la convenzione significa che la Chiesa luganese viene considerata ormai una comunità ecclesiale completa, uscita dalla minore età, capace di vivere una vita ecclesiale propria, senza nessuna diminuzione neppure formale.

La diocesi di Lugano rimarrà, come le altre diocesi svizzere, direttamente sottoposta alla Santa Sede. L’unica istanza intermedia tra la Santa Sede e le diocesi svizzere è la Conferenza dei Vescovi Svizzeri la quale, pur godendo a norma del diritto comune post-conciliare di competenze che vanno molto oltre a quelle di un’istanza metropolitana, non gode tuttavia di quelle specifiche della stessa. Evidentemente il problema di una cumulazione di tutte le competenze nelle mani della Conferenza dei Vescovi Svizzeri si impone, dato che non avrebbe senso erigere una provincia ecclesiastica. L’importanza assunta dalle Conferenze episcopali e la necessità di rafforzare l’influenza della Conferenza dei Vescovi Svizzeri, che per motivi legati al particolarismo sociale, politico e religioso della Confederazione, difetta di omogeneità e per riflesso anche di incisività sulla vita religiosa nazionale, dovrebbero indurre ad eliminare lo statuto di dipendenza diretta delle singole diocesi dalla Santa Sede.

La nuova convenzione abroga i concordati tra la Santa Sede e il Consiglio federale del 1 settembre 1884 e del 16 marzo 1888[104] e riassorbe le clausole essenziali concernenti i rapporti tra la Chiesa e Stato nel Cantone Ticino del concordato intercorso tra quest’ultimo e la Santa Sede il 23 settembre 1884 [105]. Di conseguenza la nuova convenzione sulla separazione della diocesi di Lugano da quella di Basilea arrischia di rimanere un atto formale, necessario e irrinunciabile, che in pratica però non implica nessun contenuto ecclesiale nuovo.

La ratifica della nuova convenzione, la cui preparazione è stata avvolta da grande riserbo quasi che l’opinione pubblica non avesse diritto di interessarsi del problema, non può essere considerata da nessun cattolico svizzero come un fatto che lo tocca ad un livello puramente politico o formale e non a quello più profondo della sua coscienza ecclesiale.

Il problema della nomina del vescovo di Lugano, che in forza della convenzione non subisce nessuna variazione nei confronti della situazione precedente, deve essere posto chiaramente anche per il Ticino ed interessa tutta la politica ecclesiastica svizzera.

Le ragioni teologico-canoniche che rendono necessario un riconoscimento di un diritto di elezione per la diocesi ticinese con l’istituzione di un Sinodo elettorale comprendente i rappresentanti dei consigli diocesani e i vescovi della Conferenza svizzera, non sono diverse da quelle di carattere ecclesiologico generale esposte sopra.

Per il Ticino esistono in particolare due altre ragioni. La prima è legata al fatto che la diocesi non ha una lunga tradizione. Non si è ancora sviluppata in essa una chiara coscienza ecclesiale d’assieme. Il fattore principale che l’ha amalgamata è stato quello della lotta politica sostenuta fino agli inizi di questo secolo per difendere diritti della Chiesa, fino a quel momento ritenuti inalienabili. Ciò ha portato alla formazione di un cattolicesimo politico più che a un cattolicesimo centrato soprattutto sui valori ecclesiali completamente trasparenti. L’esigenza religiosa moderna si sta orientando, come in tutta la Chiesa del resto, sempre più verso una ricerca di valori ecclesiali, purgati da compromissioni e interessi politici, nei confronti dei quali ha messo in guardia anche il Vaticano II[106]. Si tratta perciò di responsabilizzare i cattolici soprattutto nei confronti di interessi e fatti di natura religiosa-ecclesiale. Le strutture da sole non sono un mezzo sufficiente, ma agiscono però a lunga scadenza con molta incidenza. Il diritto di eleggere il proprio vescovo metterebbe il clero e il laicato di fronte a responsabilità così gravi, che finirebbe per riflettersi su molti altri atteggiamenti. Anche le elezioni dei consigli diocesani e le nomine a posti di responsabilità assumerebbero per tutti una dimensione molto più profonda e porterebbe ad un maggior rispetto delle funzioni come tali. In secondo luogo bisogna tener conto che l’uomo moderno è estremamente sensibile alla parità dei diritti e i cattolici ticinesi non riuscirebbero a capire perché in altre diocesi svizzere il vescovo debba essere designato in altro modo. Se si vuol fare della «nuova» diocesi una Chiesa particolare nel senso del Concilio con una fisionomia religiosa propria, una comunità ecclesiale cosciente della responsabilità ecclesiale inerente alla propria autonomia, non si può continuare a considerarla come un distretto amministrativo della Chiesa universale. In ultima analisi a farne le spese sarebbe la Chiesa universale stessa, la quale vive nelle Chiese particolari: «in quibus et ex qui- bus una et unica Ecclesia catholica exsistit» (Vat. Eccl., 23,1).

Per risolvere il problema della nomina del vescovo nel Ticino in forza di un diritto di elezione esistono ragioni che interessano anche le altre diocesi e gli altri Cantoni svizzeri. Sarebbe infatti errato credere che il problema debba essere posto nel senso di ottenere per lo Stato del Cantone Ticino, che negli ultimi 80 anni ha superato ogni tentazione giuseppi- nista, un diritto di interferenza qualunque nell’elezione del vescovo. Si tratta invece di ottenere in sede politico-parlamentare-concordataria una prerogativa di natura canonica, la quale, oltre a rispettare le esigenze dei cattolici ticinesi, potrebbe servire come modello anche per la soluzione dello stesso problema nelle altre diocesi e cantoni svizzeri, dove l’orientamento dei rapporti tra Chiesa e Stato risente ancora fortemente, specialmente nei cantoni di lingua tedesca, di concezioni derivate dallo Stato illuminista.

3. Il problema in Svizzera

Sarebbe un’illusione credere che il problema della nomina dei vescovi in Svizzera ha trovato una sistemazione definitiva nei concordati del secolo scorso. Le polemiche avviate, sia pure per ragioni diverse, in occasione delle recenti nomine nella diocesi di Losanna-Ginevra-Friburgo, di Basilea e di Lugano[107], sono indice di una situazione di disagio, sia per il ruolo assunto dalle istanze ecclesiastiche superiori, sia per quello di alcune istanze cantonali. Le tendenze emerse in queste occasioni tradiscono da una parte l’esistenza di una rivendicazione da parte del clero e del laicato del diritto di essere interpellati sulla nomina di un nuovo vescovo, dall’altra l’anacronismo di ogni intervento diretto statale nella procedura di elezione dei vescovi.

Sarebbe d’altra parte irrealistico credere che le legittime rivendicazioni del clero e dei laici possano ancora essere eluse per molto tempo. Non faranno che riproporsi con crescente decisione anche in Svizzera, ad ogni nuova nomina episcopale.

Altrettanto illusorio ed anti-storico sarebbe credere che una eventuale e necessaria unificazione della procedura per la designazione dei vescovi possa ancora avvenire in Svizzera sulla base di un diritto di libera collazione da parte della Santa Sede, anche se il Vaticano II ha ribadito questo diritto in linea di principio[108]. Vi si opporrebbero diritti canonici acquisiti quasi da un millennio per cui un ritorno alla libera collazione provocherebbe una grave soluzione di continuità nello sviluppo del diritto canonico particolare svizzero. Vi si opporrebbero anche interessi statali riconosciuti e garantiti su base concordataria.

Il vescovo esercita una giurisdizione puramente ecclesiale, non ha nessun compito statale. La sua nomina non può perciò, in nessun caso, essere considerata come una «res mixta» nel senso stretto della parola[109]. E un atto di esclusiva competenza della Chiesa. Lo Stato ha tuttavia sempre denunciato interessi di natura politica ed è innegabile che la nomina di un vescovo abbia almeno indirettamente una profonda incidenza politica, che altro non è se non il riflesso dell’incidenza sociale e politica che ogni gruppo religioso sviluppa aU’interno di una società[110]. Pur rivendicando in linea di principio la libertà di esercitare il diritto esclusivo di nomina, che da un punto di vista costituzionale svizzero è garantito anche nel principio della libertà di coscienza e di religione, la Chiesa ha però sempre riconosciuto anche l’esistenza di interessi statali.

Le forme giuridiche con le quali la Chiesa ha riconosciuto, o è stata costretta a riconoscere, questi interessi, non sono più storicamente adeguate, perché sia la Chiesa che lo Stato sono diventati nel frattempo sempre più attenti a fare una netta distinzione tra l’ambito religioso e quello temporale. Il Vaticano stesso si è fatto portavoce di queste nuove esigenze senza aver sconfessato o negato l’esistenza di un interesse statale (Eccl. Sane., I, art. 10). Il problema è quello di sapere in che modo debba oggi essere rispettato e garantito quest’ultimo. Negli ultimi 100 anni la Santa Sede ha dato più volte garanzie ai Cantoni svizzeri di voler essere attenta nella scelta delle persone alle esigenze dello Stato, che a giusta ragione è anche garante della pace religiosa. Altre volte ha accettato, almeno di fatto, anche un controllo diretto sulla procedura di nomina. E fuori dubbio, che se esistono interessi legittimi dello Stato, questi devono essere garantiti; lo esige il riconoscimento stesso, ribadito a più riprese nei documenti moderni della Chiesa, dell’esistenza di una società pluralistica. Questa però a sua volta impone, ancora più che per il passato e anche da un punto di vista solo sociologico, un effettivo esercizio del principio della libertà di coscienza. In sostanza si tratta perciò di trovare un’alternativa alla prassi e alle clausole concordatarie attuali, le quali non sono più adeguate, non solo nei confronti delle esigenze di libertà della Chiesa, ma neppure nei confronti di una sana concezione dello Stato moderno.

Il fatto fondamentale nei rapporti tra la Chiesa e Stato in Svizzera, in ordine alla salvaguardia degli interessi statali circa la nomina dei vescovi, è stato senz’altro quello, da parte della Chiesa, di riconoscere su base concordataria il diritto canonicamente preesistente dei Capitoli cattedrale di eleggere il vescovo. La continuità giuridica esige di prendere come base questo fatto per ogni altra futura soluzione, tanto più che il diritto di elezione ha potuto conservarsi in tutta la Germania (in Baviera quello di presentazione)[111] e in qualche altra diocesi[112], ma soprattutto perché attualmente ben tre delle sei Diocesi svizzere, Basilea, Coira e San Gallo, godono il diritto di eleggere il proprio vescovo tramite i rispettivi Capitoli cattedrale[113].

Il Capitolo di Sion l’ha preso nel corso dei secoli xvi-xix in seguito al sovrapporsi abusivo del potere politico nell’esercizio dello stesso diritto. Dopo la codificazione del 1917, il titolo giuridico della diocesi di Sion fu sottoposto a esame e non più riconosciuto come valido[114]. Il Capitolo cattedrale della diocesi di Losanna fu sciolto (1536) in seguito alla riforma calvinista, cosicché il nuovo Capitolo cattedrale di Friburgo (1924), che ha sostituito quello di Losanna nella nuova diocesi, non fu reintegrato nel diritto di elezione del vescovo[115]. La libertà goduta dal Capitolo cattedrale di Soletta nella elezione del vescovo ha rappresentato un ‘unicum nel sistema canonico. Fino al 1936 il Capitolo procedeva alla elezione e alla immediata proclamazione dell’eletto. Solo dopo la proclamazione la Santa Sede introduceva il processo informativo in vista di procedere alla conferma della elezione. Nel 1958, in seguito ad accordo intervenuto con il Nunzio, la proclamazione è stata spostata dopo il processo informativo. L’unico impegno imposto al Capitolo dalla Santa Sede, anche se giuridicamente non molto precisato, fu quello di non eleggere un candidato che potesse essere persona «mi- nus grata» ai governi dei cantoni concordatari[116]. Si tratta di una clausola imposta unilateralmente dalla Santa Sede che ha perciò valore puramente canonico e che non crea né un obbligo per il Capitolo cattedrale di sottoporre previamente la lista dei candidati alla Conferenza dei cantoni concordatari e tanto meno un titolo giuridico per questi ultimi di esercitare un diritto di stralcio sui candidati. La prassi del Capitolo è stata quella di sottoporre prima dell’elezione alla Conferenza dei cantoni concordatari, che si riunisce contemporaneamente al Capitolo, la lista di sei candidati. Da questa prassi alcuni cantoni concordatari hanno preteso di aver acquisito un diritto[117].

Anche il Capitolo cattedrale di San Gallo gode del diritto di elezione. La libertà dello stesso è stata limitata nel 1957 con l’accordo del Capitolo, il quale deve ormai presentare una lista di sei candidati alla Santa Sede prima dell’atto di elezione, perché questa possa fare anticipatamente il processo informativo[118]. Per quanto riguarda i rapporti con lo Stato, il concordato del 7 novembre 1845 (art. 7) prevede solo che la persona eletta non deve essere ingrata al «katholisches Grossratskollegium» di San Gallo. Quest’ultimo ha regolato tuttavia unilateralmente la procedura con la quale deve essere verificata la qualificazione politica del candidato, imponendo al Capitolo di sottoporgli una lista di sei candidati prima dell’elezione e riservandosi il diritto di stralcio[119].

L’esistenza del Diritto canonico consuetudinario del Capitolo di Coira di eleggere il proprio vescovo fu esaminato dopo la codificazione e riconosciuto valido il 28 giugno 1948. Fu però nello stesso tempo ridotto alla possibilità di eleggere in base ad una lista di tre candidati presentata dalla Santa Sede stessa [120]. A elezione fatta, il Capitolo deve solo comunicare il nome dell’eletto al governo cantonale[121].

In quasi tutti gli accordi o concordati avvenuti tra la Santa Sede e i governi cantonali furono introdotte clausole limitative riguardanti anche l’eleggibilità delle persone. Nella diocesi di Basilea il vescovo deve essere eletto tra i sacerdoti della diocesi[122]. Per la diocesi di Sion la Santa Sede si è impegnata nei confronti del Governo cantonale a nominare persona che non fosse «minus grata» e la cui lingua materna sia una delle due lingue del cantone. Il Gran Consiglio invece ha domandato che il candidato godesse della cittadinanza vallesana e domandato che fosse stabilita una procedura attraverso la quale il potere civile potesse esprimere i propri «desiderata» in merito al nuovo vescovo, la cui nomina spetta alla Santa Sede[123]. La questione attende ancora di essere risolta[124]. Per Friburgo la Santa Sede ha assicurato che la persona nominata sarà integra da un punto di vista politico[125]. A San Gallo il vescovo deve essere, in forza del concordato, un prete del clero diocesano che ha lavorato con distinzione per parecchi anni in diocesi[126]. Nel Ticino il concordato del 16 marzo 1888 e il nuovo concordato prevedono che il vescovo debba essere nominato tra «les prêtres ressortissants tessinois»[127].

Il doppio tipo di clausole sopra esposte (le cosiddette clausole politiche[128] e quelle che limitano l’eleggibilità con criteri di carattere nazionale) avevano un tempo trovato la loro giustificazione storica nel fatto che i vescovi esercitavano anche un potere politico. A partire dalla Secolarizzazione (1803), hanno trovato una giustificazione nel concetto illuminista secondo il quale la Chiesa è un’istituzione pedagogico-culturale nazionale su cui lo Stato deve mantenere un controllo perché è responsabile di tutto quanto avviene sul proprio territorio. Esse tendono infatti da una parte a garantire un controllo politico sulle persone, dall’altra ad escludere influenze politiche e culturali estranee all’ambiente nazionale-cantonale. Lasciano comunque trasparire con molta evidenza, anche se con una certa discrezione, l’interesse conservato fino ad oggi, dai governi cantonali, per la nomina dei vescovi. In secondo luogo testimoniano in modo inequivocabile che la Santa Sede ha sempre tenuto conto dei legittimi interessi dei Cantoni, non sempre immuni da una certa visione campanilistica delle cose, anche se ha evitato, nel limite del possibile, di legarsi giuridicamente sulla base del diritto pubblico internazionale.

4. Conclusione

La nomina dei vescovi è sempre stata nella storia un momento cruciale dei rapporti non solo tra Chiesa particolare e universale, ma anche tra Chiesa e Stato, diventando regolarmente il punto di convergenza e di disgiunzione tra il potere spirituale e quello temporale. I punti di vista che devono essere presi in considerazione nel trattare il problema sono perciò due, quello ecclesiale e quello dei rapporti tra Chiesa e Stato.

a) Da un punto di vista ecclesiologico non avrebbe più senso regolare il problema della nomina dei vescovi in una singola diocesi, staccandola dal contesto più grande al quale appartiene e la cui istanza riassuntiva collegiale è la Conferenza regionale dei vescovi. La politica del «divide et impera», che se mai fu condotta dalla Santa Sede nei secoli passati per salvare la sua autorità primaziale di fronte alle forze centrifughe del gallicanismo, giuseppinismo e del nazionalismo statale, ha perso oggi irrimediabilmente ogni giustificazione. L’imperativo di una politica ecclesiale, che si ispiri ai postulati del Vaticano II, dovrebbe essere quello di unire le singole diocesi in un vincolo di comunione attorno alla Conferenza episcopale dalla quale dipendono per darle, all’interno del territorio nazionale, un’incidenza sempre più unitaria e precisa sulla vita religiosa, culturale e sociale dello stesso.

Il diritto particolare canonico non deve perciò diventare un fattore di isolamento delle singole diocesi, ma deve essere considerato come un mezzo per unirle tra di loro. La diversità di trattamento giuridico delle singole diocesi svizzere nuoce profondamente alla formazione di una comunione ecclesiale su vasta scala regionale e mina alla base la possibilità e la speranza che la Conferenza dei Vescovi Svizzeri possa assumere, come in altre Chiese particolari, la funzione di un’autorità collegiale veramente efficiente nei confronti di tutte le diocesi. Se il particolarismo religioso, sociale e politico cantonale è la radice ultima di questa situazione, ci si dovrebbe preoccupare con una politica ecclesiale lungimirante di superarla almeno in quei settori dove esiste una possibilità. Uno di questi settori è quello della procedura per la nomina dei vescovi. Nessun cattolico svizzero riesce oggi a comprendere perché nell’ambito dello stesso territorio nazionale, che rappresenta pur sempre per lui l’ambito primario della sua vita religiosa, culturale e politica, proprio l’istituto della nomina dei vescovi, che è uno degli atti fondamentali della vita ecclesiale, assuma figure giuridiche non solo diverse ma contrastanti. E un fatto che lo contraddice nella sua esigenza d’uguaglianza di fronte alla legge; esigenza che è uno degli elementi storici, culturali e politici fondamentali dell’ambiente dal quale trae la sua origine.

L’unificazione del Diritto particolare canonico svizzero in merito all’istituto della elezione dei vescovi non rappresenterebbe per di più una rottura nello sviluppo giuridico, ma piuttosto la sua naturale conclusione, perché la parte preponderante delle diocesi svizzere già lo possiede e una quarta diocesi, quella di Sion, l’ha potuto esercitare fino al XVII secolo, almeno come diritto di presentazione.

b) Il secondo aspetto della questione è quello che interessa i rapporti tra Chiesa e Stato.

Sarebbe una grave mancanza di realismo politico se si dovesse credere che i Cantoni svizzeri abbiano abbandonato o vogliano lasciar cadere in un prossimo avvenire ogni interesse nei confronti del problema della nomina dei vescovi. D’altra parte i governi cantonali devono rendersi conto che le forme di controllo attualmente ancora esercitate risalgono ad una concezione giuseppinista dello Stato poliziesco, che deve essere oggi radicalmente demitizzata[129]. Ciò non vale solo nei confronti della questione della nomina dei vescovi, ma per tutta l’impostazione dei rapporti tra Chiesa e Stato. Le leggi civili-ecclesiastiche cantonali svizzere partono dal presupposto che la Chiesa cattolica, nell’organizzazione esterna impostale dallo Stato, debba piegarsi alle forme democratiche nazionali. E un principio che potrebbe perdere l’attualità nel giro di poco tempo anche per le Chiese protestanti. La libertà di religione garantita dalla Costituzione svizzera, se letta con occhio moderno, esige il rispetto assoluto della struttura propria e originale di ogni Chiesa.

Per quanto riguarda la nomina dei vescovi, l’interesse dello Stato, per essere ancora legittimo, non dovrebbe andare oltre a quello di pretendere che le persone scelte non siano estranee all’ambiente culturale cantonale o intercantonale, in modo che non provochino degli scompensi di natura politica generale. Che siano perciò in grado d’inserire la propria azione pastorale partendo da presupposti non eterogenei all’ambiente, anche se non sarebbe ragionevole pretendere che siano integrate nello stesso, quasi che esso non sia suscettibile di profonde evoluzioni.

Sul piano strutturale questa garanzia può essere data allo Stato in modo adeguato, inserendo nella procedura della elezione del vescovo le istanze ecclesiastiche locali in misura più larga di quella esistente nelle tre diocesi dove i Capitoli cattedrale sono l’organo elettivo. L’inserimento della Conferenza dei Vescovi Svizzeri dovrebbe del resto dare l’ultima garanzia che la scelta assuma tutti i requisiti di serietà e consapevolezza ecclesiastica e politica. Da una forma di garanzia di tipo formale (clausole politiche, ecc…), si deve passare ad una garanzia di tipo materiale. Questo fatto dovrebbe indurre anche i Governi cantonali ad abbandonare ogni pretesa di ingerirsi direttamente nella questione. A questo proposito dovrebbero essere tratte finalmente tutte le conseguenze dal fatto che anche i cattolici svizzeri sono svizzeri. L’interesse dei cattolici svizzeri non può più essere contrapposto, come per il passato, all’interesse nazionale o cantonale. Il bene di una Chiesa post-conciliare svizzera non può rappresentare che il bene di uno Stato democratico che si dica moderno. Del resto anche la storia svizzera non ha ancora dimostrato che gli interessi della Chiesa cattolica siano risultati opposti a quelli nazionali, mentre è sicuro che ogni atto discriminatorio nei suoi confronti ha finito per rivelarsi controproducente.

c) La concessione del diritto di elezione del vescovo, che solo da un punto di vista formale-giuridico, ma non ecclesiologico, può essere considerato ancora come un privilegio, anche alla parte minoritaria delle Diocesi svizzere, non equivarrebbe perciò solamente ad un atto politico intelligente, ma anche ad un atto di giustizia. Siamo lontani dal credere, come qualche volta si afferma, che i concordati entrino nell’ambito della competenza esclusiva dei laici. Tuttavia siamo convinti che il laicato politico deve assumere in questo settore una propria responsabilità, perché rappresenta il punto di incontro e di trasmissione tra gli interessi ecclesiali e statali. Se dovesse ottenere sul piano politico per la diocesi ticinese il diritto di eleggere il proprio vescovo sulla base di un Sinodo elettorale dove anche la Conferenza dei Vescovi Svizzeri vi fosse inserita, porrebbe un atto ecclesiale e politico di enorme importanza. Una soluzione in questo senso potrebbe oltretutto diventare paradigmatica, nel futuro, per tutte le altre diocesi e cantoni svizzeri.

 

 

[1] Cfr. ibidem, art. 23 cpv. 1 (338). I testi conciliari e quelli dei decreti di applicazione sono stati citati – mettendo il numero progressivo tra parentesi – secondo la traduzione delle raccolte Dehoniane: Documenti. Il Concilio Vaticano, Bologna 1966 e Norme di Applicazione, Bologna 1966. Le abbreviazioni dei documenti sono prese da K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, II, München-Paderborn-Wien 1967, xv-xvi.

[2] Sulla diversa impostazione dell’ecclesiologia in Oriente ed in Occidente, cfr. E. Corecco, Il vescovo, capo della Chiesa locale, protettore e promotore della disciplina locale, «Concilium»4 (1968), 1482-1497; cfr. anche C. Andresen, Geschichte der abendländischen Konzile des Mittelalters, in: Die ökumenischen Konzile der Christenheit, hrsg. von H.J. Margull, Stuttgart 1961, 75-106.

[3] Cfr. W. BEINERT, Die Una Catholica und die Partikularkirche, «Theologie und Philosophie» 42 (1967), 10-11.

[4] Cfr. K. Rahner, Kommentare I, LThK, 242-245.

[5] Cfr. Vat. Ep., 11-24; K. Mörsdorf, Kommentare II, LThK, 172-195.

[6] Cfr. per esempio Vat. Ep., 11,1 (593): «La diocesi è una porzione del Popolo di Dio… nella quale è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica».

[7] II Concilio di Vienne (1311-1312) è stato il primo Concilio nel Medioevo che ha impostato il problema delle missioni distinguendolo da quello delle crociate. L’ha percepito tuttavia da un punto di vista pragmatistico, insistendo sulla necessità di coltivare le lingue orientali per poter entrare in contatto con gli infedeli. Cfr. Conaliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1962,355-356, decr. 24; H. Jedin, Kleine Konztlien- geschichte, Freiburg i.Br. 1966, 60.

[8] Cfr. Vat. Miss., 2, 1 (1090); 6, 6 (1103).

[9] Cfr. Vat. Miss., 20,1 (1155).

[10] Cfr. spec. Vat. Miss., 6; cfr. anche S. Brechter, fCommentare III, LThK, 33-39.

[11] Cfr. can. 1327 § 1 e 1350 § 2.

[12] Cfr. Vat. Eccl., 23, 2-3 (339-340).

[13] Cfr. Vat. Miss., 29,6 (1196) e Eccl. Sane., Ili, 15,1 (2388).

[14] Cfr. Vat. Eccl. Or., 3 (459) e Vat. Eccl., 23, 3 (340).

[15] Cfr. Vat. Miss., 38, 4 (1223); K. Rahner, Commentare I, LThK, 231-232.

[16] Cfr. Vat. Miss., 37.

[17] Cfr. Vat. Miss., 20,8 (1162).

[18] Cfr. Vat. Miss., 20, 1 (1155). Sulla funzione della Chiesa particolare nelle missioni, cfr. J. Guerra, Las Iglesias locales corno signo de la lglesia Universal en su proyección misionera, «Misiones extranjeras» 14 (1967), 181-194; A. Pirovano, Le Chiese particolari secondo il decreto conciliare «Ad Gentes», in: Le Missioni alla luce del Concilio, Atti della settimana di studi missionari, Milano 5-9 settembre, Milano 1967, 68-78.

[19] Cfr. Vat. Miss., 11-12; per esempio, i cristiani devono «dimostrarsi membra vive di quel gruppo umano, in mezzo a cui vivono…»: 11,2 (1112).

[20] Cfr. PM 2, 5-8.

[21] Cfr. Appunti di Metodo Cristiano, a cura di Gioventù Studentesca, Milano 1964, 85-90, spec. 86-87.

[22] Cfr. Val. Miss., 37, 2 (1217): «La grazia del rinnovamento non può aver sviluppo alcuno nella comunità, se ciascuna di esse non allarga la vasta trama della sua carità sino ai confini della terra, dimostrando per quelli che sono lontani la stessa sollecitudine che ha per coloro che sono i suoi propri membri».

[23] Cfr. Appunti di Metodo Cristiano, cit., 86-87.

[24] Nel 1968 la colletta ha fruttato circa 61.500 fr. Ciò equivale ad un’offerta di circa 30 cts. prò capite (!); cfr. «Il Monitore Ecclesiastico dell’Amministrazione Apostolica Ticinese» 73 (1969), 30-43.

[25] Cfr. Ili, 4 (2373). Questa funzione esiste da tempo anche in diocesi, ma è puramente amministrativa.

[26] Cfr. Vat. Miss., 37,4 (1219).
[27] Una delle idee centrali del Concilio è proprio quella del dovere dei cristiani di partecipare alle iniziative nazionali e internazionali; cfr., per esempio, Vat. Miss., V-VI, 36,5 (1215).

[28] Cfr. can. 228 § 1.

[29] Cfr. Vai. Eccl., spec. 22-23.

[30] Cfr. O. Saier, «Hierarchica Communio» als Strukturprinzip nach den Dokumenten des Zweiten Vatikanischen Konzils (Tesi, in pubblicazione), München 1967.

[31] Sul problema, cfr. W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung (Tesi, in pubblicazione), München 1967. L’A. distingue nel cap. 4 tra l’aspetto formale e l’aspetto materiale della collegialità. Un atto è collegiale, formalmente, quando la volontà dei singoli è integrata fino al punto da diventare la volontà del collegio come tale, trascendente quella dei membri. In questo senso è collegiale, secondo il Concilio, anche la decisione di un concilio particolare o di una conferenza dei vescovi. Da un punto di vista materiale, cioè del contenuto, il Vaticano II ha qualificato come collegiale solo l’attività di tutto il collegio episcopale, per distinguerla da quella dei concili minori, i quali non hanno un’autorità su tutta la Chiesa universale.

[32] Cfr. Nola Explicativa Praevia, 2,3 (451*).

[33] Sul rapporto tra il principio gerarchico e quello collegiale, che non vanno separati perché sono due dimensioni di una stessa realtà, e sulla priorità del primo principio, basata sul fatto che un collegio non può rappresentare Cristo in tutta la sua realtà (per esempio, nell’amministrazione dei sacramenti), cfr. K. Mörsdorf, Primat und Kollegialität nach dem Konzil: über das bischöfliche Amt, Veröffentl. der Kath. Akademie der Erzd. Freiburg, n. 4, Karlsruhe 1966, 39-48; Id., Die hierarchische Struktur der Kirchenverfassung, «Seminarium» 2 (1966), 403-416; Id., Das synodale Element der Kirchenverfassung im Lichte des Zweiten Vatikanischen Konzils, in: Volk Gottes, Festgabe für J. Höfer, hrsg. von R. Bäumer und H. Dolch, Freiburg-Basel-Wien 1967, 568-584; Id., Über die Zuordnung des Kollegialitätsprinzips zu dem Prinzip der Einheit von Haupt und Leib in der hierarchischen Struktur der Kirchenverfassung, in: Wahrheit und Verkündigung. M. Schmaus zum 70. Geburtstag, hrsg. von L. Scheffczyk-W. Det- doff-R. Heinzmann, München-Paderborn-Wien 1967, 1435-1445; W. Aymans, Das synodale Element, cit., Kap. 6.

[34] Cfr. W. Aymans, Kollegium und kollegialer Akt im kanonischen Recht, München 1969, 3-5; sulle vicende del termine nella tradizione latina, cfr. J. Ratzinger, La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare, in: La Chiesa del Vaticano II. Opera collettiva diretta da G. Baraúna, Firenze 1965, 733-736; J.M. Ramírez, De Epi- scopatu ut Sacramento deque Episcoporum Collegio, Salmanticae 1966, 71-74.

[35] Cfr. W. ScHÖPPING, Laien und Pastoralräte, «Der Seelsorger» 39 (1969), 39.

[36] Cfr. Y. Congar, Conclusión, in: Le Concile et les Conciles, Chevetogne 1960,301.

[37] Cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyteriums, AfkKR 136/2 (1967), 352-360.

[38] Nel senso che il potere del vescovo non deriva da quello del papa. Sul problema, cfr. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. Aspetti storico-giuridici e metodologico-sistematici della questione, «La Scuola Cattolica» 96 (1968), 15-18, 39-42, 118-139.

[39] Sulle precisazioni che devono essere fatte, cfr. K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, cit., I, 1964[11] , 306-308, 320-322, 472.

[40] Cfr. Wat. Eccl., 21, 2 (335); 26, 1 (348); 41,2 (391); Val. Ep., 15, 1 (605); cfr. anche O. Rousseau, La doctrine du ministère épiscopal et ces vicissitudes dans l’Église d’Oc- cident, in: L’Épiscopat et l’Église Universelle, Ouvrage publié sous la direction de Y. M.-J. Congar/B.-D. Dupuy, Paris 1962, 279-285; K. Rahner, Kommentare I, LThK, 218-219; N. López Martínez, La distinción entre obispos y presbíteros, in: XXII Semana Española de Teología, Madrid 1963, 85-156; F.B. Norris, Das Priesterbild des Konzils, in: Die Autorität der Freiheit, hrsg. von J.C. Hampe, II, München 1967, 153-160.

[41] Cfr. can. 108 § 3.

[42] Cfr. T.G. Barberena, Kollegialität auf diözesaner Ebene. Das Priestertum in der Westkirche, «Concilium» 1 (1965), 636.

[43] Cfr. Wat. Presb., 7; Wat. Eccl., 28,2 (355): I presbiteri «nelle singole comunità locali di fedeli rendono, per così dire, presente il Vescovo… Essi, sotto l’autorità del Vescovo, santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro affidata…». I presbiteri non rappresentano solo direttamente Cristo nell’amministrazione dei sacramenti, ma anche il vescovo; cfr. S. Pascher, Bischof und Presbyterium, «Concilium» 1 (1965), 85. Quest’ultimo aspetto del problema è già reso evidente dal fatto che essi non posseggono una giurisdizione propria ordinaria, nella misura in cui non sono investiti dell’ufficio parrocchiale, cfr. sopra n. 39.

[44] Cfr. G. d’Èrcole, Die Priesterkollegien in der Urkirche, «Concilium» 2 (1966), 487-492, 491: «Jede Kirche Gottes ist eine einheitliche sakramentale Gemeinschaft, an deren Spitze der Bischof, der normgemässe Spender der Sakramente mit der Unter-

Stützung des Presbyteriums und der Diakone steht; sie ist eine einheitliche Regierungsgemeinschaft, die der Bischof mit Hilfe der Presbyter und der Diakone leitet…»; cfr. anche P. Meinhold, Konzile der Kirche in evangelischer Sicht, Stuttgart 1962, 27-47.

[45] Cfr. G. d’Ercole, Die Priesterkollegien, cit., 487-490.

[46] Cfr. B. Bazatole, L’évêque et la vie chrétienne au sein de l’Église locale, in: L’Épiscopat et l’Église Universelle, cit., 342-348.

[47] Sulla storia dei capitoli cattedrale, cfr. P. Torquiebiau, Chapitres de Chanoines, DDC, III, 530-545.

[48] Cfr. Vat. Laie., 5.

[49] « Cfr. però ibid., 10, 1 (949).

[50] Su tutta questa problematica e sulle diverse posizioni di Rahner e Congar, cfr. K. Mörsdorf, Die Zusammenarbeit von Priestern und Laien in ekklesiologisch-kanoni- scher Sicht, in: Grundfragen der Zusammenarbeit von Priestern und Laien. Veröffentlichungen der Kath. Akademie der Erzd. Freiburg, n. 11, Karlsruhe 1968, 13-26, spec. 16-19; Id., Das eine Volk Gottes und die Teilhabe der Laien an der Sendung der Kirche, in: Ecclesia et Ius. Festgabe für A. Scheuermann zum 60. Geburtstag, hrsg. von K. Siepen-J. Weitzel-P. Wirth, München-Paderbom-Wien 1968, 105-111. Un quadro delle difficoltà sollevate da una definizione del laico, che prenda come base l’indole secolare, è data dalla discussione intercorsa dopo la sessione VI della International Theolo- gical Conference, University of Notre Dame, March 20-26, 1966: La Teologia dopo il Vaticano II, a cura di J. H. Miller, Brescia 1967, 336-352.

[51] Cfr. K. Mòrsdokf, Die Stellung der Laien in der Kirche, KDC 10-11 (1960-61), 221. La differenza fondamentale tra i presbiteri e i laici consiste nel fatto che solo i primi sono chiamati a rappresentare Cristo presiedendo in mezzo alla comunità cristiana.

[52] Cfr. Id., Das eine Volk Gottes…, cit., 108-109.

[53] Cfr. ibidem, 116-117.

[54] La funzione sacerdotale è diventata una professione a sé stante a partire dal V secolo; ciò ha provocato l’abbandono da parte dei chierici delle professioni secolari; cfr. ibidem, 106.

[55] Cfr. Vat. Ep., 28,2 (643); Eccl. Sane., 1,15. Dato che il vescovo appartiene al presbiterio, il Consiglio del Clero, quando non fosse presieduto dal vescovo stesso, più che il presbiterio rappresenta i presbiteri che collaborano con il vescovo; cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyteriums, cit., 353-357.

[56] per un orientamento in merito, cfr. F. Klostermann, Neue diözesane Strukturen, «Diakonia» 2 (1967), 257-270; L. Weber, Der Priesterrat, «Der Seelsorger» 38 (1968), 105-118; W. Schöpping, Vorschläge zum Priesterrat, ibidem 37 (1967), 191-196.

[57] Cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, LThK, 203.

[58] Cfr. ibidem, 203-204; Vat. Ep., 27, 5 (646); Eccl. Sane., I, 16.

[59] Cfr. W. Schöpping, Vorschläge zum Priesterrat, cit., 192; L. Weber, Der Priesterrat, cit., 112-115.

[60] Nella Diocesi di Coira il Consiglio Pastorale è costituito dall’assemblea riunita del Consiglio del Clero con il Consiglio dei Laici (cfr. L. Weber, Der Priesterrat, cit., 118). Questa soluzione ha il vantaggio di fare del CP l’organismo consultivo riassuntivo di tutti i gremi e di conservare nello stesso tempo il contatto diretto tra vescovo e CC. Ha lo svantaggio però di separare presbiteri e laici in due fronti che potrebbero diventare contrapposti anche all’interno del CP, spaccando l’unità che anche teologicamente deve esistere tra clero e laici; cfr. per esempio, Vat. Laic., 10, 2 (950).

 

[61] Cfr. W. SchÖPPING, Laien- und Pastoralräte, eit-, 36.

[62] Cfr. K. Mörsdorf, Das eine Volk Gottes…, cit., 111-119. In ogni caso si deve tener conto anche dell’analogia con il Consiglio Pastorale e quello del Clero. Gli Statuti tipo, pubblicati per ordine della Conferenza del Vescovi Tedeschi, sono riprodotti in: AfkKR 136/1 (1967), 525-538.

[63] Cfr. H. Schröder, Der Pfarrgemeinderat als gesamtkirchliche Aufgabe, Trier 1967.

[64] Cfr. per esempio, gli statuti per i gremì parrocchiali della Arcidiocesi di Colonia: Kirchliche Anzeige für die Erzdiözese Köln, ABI 108 (1968), 37-38, IV 6b: «Beschlüsse die Angelegenheiten betreffen, deren Wahrnehmung zum amtlichen Pflichtenkreis des Pfarrers gehört, können nur mit dessen Zustimmung gefasst werden». Questa clausula è ancora più forte di un diritto di veto, perché impedisce addirittura che la decisione abbia luogo in modo valido.

[65] Cfr. K. Mörsdorf, Das eine Volk Gottes…, cit., 111.

[66] Cfr. E. Corecco, Die synodale Aktivität im Aufbau der katholischen Kirche der Vereinigten Staaten von Amerika mit besonderer Berücksichtigung der kirchlichen Vermögensverwaltung, AfkKR 137/1 (1968), 68-81.

[67] Cfr. H. Socha, Grundlegung von Beispruchrechten der Laien durch das II. Vatikanische Konzil, in: Ecclesia et lus, cit., 366-376; J. Beyer, De Statuto mridtco Christi- fidelium iuxta vota Synodi Episcoporum in novo Codice condendo, PEMCL 57 (1968), 559-561.

[68] II 7 novembre 1966, cfr. «Il Monitore Ecclesiastico» 72 (1966), 422-427. La data di costituzione del CC della diocesi di Sion non ci è nota; cfr. L. Weber, Der Priesterrat, cit., 118.

[69] Costituito il 30 dicembre 1967, cfr. «Il Monitore Ecclesiastico» 73 (1967), 338- 341. A differenza del CC non fu riconfermato dal nuovo vescovo, Mons. G. Mattinoli. Fu rieletto nel 1969.

[70] II Consiglio Pastorale è stato ricostituito all’inizio di marzo 1969. Conta 48 membri (24 laici, 17 sacerdoti diocesani e 7 religiosi; 4 membri sono istituzionali, 12 designati da varie commissioni e dai religiosi, 22 designati dal vescovo, solo 10 sono eletti). Da una parte bisogna prendere atto della buona percentuale dei laici, dall’altra però va anche sottolineata l’enorme sproporzione esistente tra i membri designati dal vescovo (22 di cui 14 laici) e quelli eletti (10 di cui 5 laici eletti dal clero!). La mancanza di una struttura di base parrocchiale e vicariale che serva da base elettorale del laicato si è fatta profondamente sentire. Nella seduta costitutiva dell’8 marzo il CP ha scelto come suo presidente un laico. Tenuto conto che il presidente del CP iure proprio è il vescovo e che il presidente eletto ha di conseguenza una funzione solo amministrativa (sarebbe meglio a scanso di equivoci chiamarlo vice-presidente: ciò vale anche per il CC dove si ripete lo stesso sistema), la soluzione è senz’altro molto appropriata. Cfr. Popolo e Libertà, 8 e 11 marzo 1969.

[71] Cfr. J. Ratzinger, Die pastoralen Implikationen der Lehre von der Kollegialität der Bischöfe, «Concilium» 1 (1965), 22.

[72] L’elezione del parroco non è contraria al diritto canonico. È stata concessa dalla S. Sede come diritto di presentazione per tutte le parrocchie ticinesi, anche future. La maggior parte di esse lo possedevano già come diritto di patronato, perciò come privilegio oneroso (cfr. E. Maspoli, II diritto ecclesiastico dello Stato del Cantori Ticino, Lugano 1924, 34-35). In quanto privilegio oneroso e in quanto diritto di elezione popolare non è stata abolita dal Vaticano II (cfr. Vat. Ep., 31, 2 [661] e Eccl. Sane., I, 18 § 1, 1-2 [2251-2252]).

[73] Non ci sarebbe incompatibilità in forza della LCE la quale prevede semplice- mente che i membri del Consiglio Parrocchiale vengano eletti dall’Assemblea e non esclude che possano far parte di altri organismi parrocchiali. La soluzione proposta avrebbe il vantaggio di preparare una struttura giuridica parrocchiale in attesa della revisione della LCE.

[74] Dove esiste il problema della fusione delle parrocchie si potrebbe fare un primo passo creando provvisoriamente una Comunità e una Consulta parrocchiale per tutte le parrocchie affidate ad un solo sacerdote.

[75] Cfr. LCE, art. 9.

[76] Cfr. J. Schmauch, Neue Struktur des Dekanates, «Der SeelsorgeD> 37 (1967), 206-210.

[77] Per creare una maggiore unità del clero sarebbe opportuno rinunciare a tutti i titoli onorifici parrocchiali (arciprete, prevosto, priore, ecc.) e mantenere solo quello di Vicario foraneo perché sottolinea una funzione effettivamente diversa e gerarchica.

[78] Si possono prevedere possibilità di ricorso contro le decisioni del Consiglio: in prima istanza al Consiglio vicariale stesso, in seconda istanza all’Ordina rio.

[79] II numero dei laici dovrebbe essere perlomeno pari a quello dei presbiteri e dei religiosi. Lo stesso principio dovrebbe valere per il Consiglio vicariale.

[80] Anche al Vicario foraneo, come al parroco, potrebbe essere concesso un diritto di ricorso in materia al CP.

[81] II 23 agosto 1966, cfr. «Il Monitore Ecclesiastico» 72 (1966), 298.

[82] Cfr. la Precisazione sull’Azione Cattolica nella nostra diocesi dei 18 maggio 1966, ibidem 72 (1966), 207-210.

[83] Cfr. Vat. Ep., 20. La legislazione conciliare ha voluto toccare solo quei diritti del potere civile che limitano strettamente la libertà della Chiesa (per esempio, il diritto di presentazione come è in uso ancora in Spagna, Portogallo, in qualche Stato sudamericano e per le Diocesi di Strasburgo e Metz). Non sono toccati invece i diritti derivanti dalla cosiddetta clausola politica, la quale prevede che i governi possono dichiarare una persona minus grata. Cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, LThK, 185-186; J. Kaiser, Die politische Klausel der Konkordate, Berlin-München 1949.

[84] II principio della sussidiarietà proviene dalla dottrina sociale. Non necessariamente deve essere formulato come tale nel diritto costituzionale canonico, perché giuridicamente ha poca rilevanza il fatto che sia esplicitamente espresso, trattandosi non di un principio teologico-costituzionale, ma di un principio di applicazione di altre norme. Diventa rilevante perciò solo se applicato nella prassi. Cfr. A. M. Rouco Varela, Der Internationale Kanonistenkongress in Rom, 20. bis 23. Mai 1968, AfkKR 137/1 (1968), 318.

[85] Sulla funzione del popolo nella elezione del vescovo nella Chiesa antica, come su quella esercitata nei Concili, non è ancora stata fatta piena luce. Non mancano autori che affermanto tout court che il popolo eleggeva il vescovo: cfr. per esempio, B. Botte, Der kollegiale Charakter des Priestertums und des Episkopates, «Concilium» 1 (1965), 346; altri invece affermano che erano i vescovi ad eleggere alla presenza del popolo (cfr. per esempio, P. Batiffol, La paix constantinienne, Paris 1914, 79; cit. da O. Rousseau, La doctrine du ministère épiscopal et ses vicissitudes dans l’église d’occi- dent, cit., 294). Bisogna comunque forse evitare di dare alla partecipazione del popolo in quel tempo lo stesso significato che ha acquistato nella concezione democratica moderna. Nella concezione medioevale dei rapporti tra popolo e coloro che esercitano il potere, l’elezione aveva il valore di approvazione di un atto appartenente a tutta la comunità, ma non posto necessariamente da tutti; cfr. Y. M.-J. Congar, Quod omnes tangit, ah omnibus tractari el approbari debet, Rev. Hist. Droit Fran. Etr. 36 (1958), 222-224; W. M. Plöchl, Geschichte des Kirchenrechts, Wien-München 1960,1, 71-72.

[86] Cfr. P. Torquebiau, Chapitres de Chanoines, cit., 537-538.

[87] Su tutta la questione cfr. W.M. Plöchl, Geschichte des Kirchenrechts, cit., I, 186- 188, 365-369; II (1962), 206-220; III (1959), 445-460.

[88] Cfr. L. Weber, Amt und kirchlicher Fuhrungsstil, «Der Seelsorger» 39 (1969), 3-6.

[89] Cfr. a questo proposito il libro di H. KONG, Wahrhafligkeit, Freiburg-Basel- Wien 1968, nel quale il problema della trasparenza tra dottrina e prassi è trattato con una certa drammaticità; di conseguenza non può essere accettato senza qualche riserva critica.

[90] Cfr. Y. M.-J. Congar, Quod omnes tangit…, cit., 224-226.

[91] Sul problema cfr. K. Mörsdorf, Das neue Besetzungsrecht der bischöflichen Stühle mit besonderer Berücksichtigung des Listenverfahrens, Bonn 1933; W.M. PlÖCHL, Geschichte des Kirchenrechts, cit., III, 449-453.

[92] «Esse (le Chiese particolari) infatti sono, nella loro sede, il Popolo nuovo chiamato da Dio con la virtù dello Spirito Santo, e con grande abbondanza di doni», Vat. Eccl., 26,1 (348); ibidem, 23,4 (341); Vat. hit., 2.

[93] Un riferimento al caso Peri-Morosini è legittimo in questa sede, anche se la storia e le conseguenze di questo episcopato non sono ancora state studiate.

[94] Cfr. P. Torquebiau, Chapitres de Chanoines, cit., 553.

[95] Cfr. Va/. Ep., 28,2 (643).

[96] La lista relativa è quella eretta al momento della vacanza di una sede determinata. E sopravvissuta come istituto derivato dall’antico diritto di elezione ma è stata a sua volta gradualmente eliminata; è restata in vigore ancora in Baviera. La lista assoluta è quella che viene inoltrata a Roma periodicamente, senza riferimento a nessuna sede particolare. Cfr. K. Morsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, cit., I, 409-412.

[97] Suggerimenti per quanto è detto in questo contesto mi sono venuti da colloqui avuti con il prof. K. Morsdorf.

[98] Sulla distinzione tra i sinodi elettorali e gli altri sinodi della Chiesa antica, cfr. W. de Vries, Der Episkopat auf den Synoden vor Nicàa, ThPQ 111 (1963), 266.

[99] Cfr. IOpers, can. 252. Nella Chiesa orientale il Patriarca e rispettivamente il Metropolita hanno il diritto di consacrare l’eletto, ibidem, can. 256 § 1 n. 1; can. 319, n. 1.

[100] Cfr. J.B. Villiger, Der dornenvolle Weg der Tessiner Bistumsfrage, SKZ 136 (1968), 465-467,

[101] Cfr, U. Lampert, Kirche und Staat in der Schweiz, I, Basel-Freiburg 1929, 67-68.

[102] Per un rapido sguardo storico sul problema, cfr., oltre all’articolo di Villiger citato sopra (n. 100), E. Isele, Die Tessiner Bistumsfrage, SKZ 136 (1968), 342-344.

[103] Non ci è stato possibile ottenere una copia del testo del nuovo concordato. Le informazioni avute in merito hanno perciò carattere solo privato. Fino a questo momento il Consiglio di Stato non ha ancora pubblicato il suo Messaggio al Gran Consiglio ticinese.

[104] II testo originale francese è pubblicato in: L. Schöppe, Konkordate seit 1800. Originaltext und deutsche Übersetzung der geltenden Konkordate, Frankfurt a. M.-Berlin 1964, 403-405; 405-407. Cfr. anche U. Lampert, op. cit., III, Freiburg (Schweiz)- Leipzig 1939, 169-171, 174-176.

[105] Testo italiano originale in: ibidem, III, 171-173; E. Maspoli, Il diritto ecclesiastico, cit., 175-177.

[106] Cfr. Vat. Eccl. Mun., 76; R. La Valle, La vita della comunità politica, in: La Chiesa nel mondo di oggi. Opera collettiva diretta da G. Barauna, Firenze 1966, 499-500.

[107] Cfr. le lettere scambiate tra un gruppo di laici ticinesi e il Nunzio a Berna, Mons. A. Marchioni, durante la vacanza della sede episcopale, che non sono prive di punte polemiche: «Dialoghi», serie III, n. 2 (ottobre 1968), 8.

[108] Cfr. Vai. Ep., 20; Eccl. Sane., I, 10.

[109] Cfr. U. Lampert, op. cit., II, Freiburg (Schweiz)-Leipzig 1938, 213.

[110] Cfr., ibidem, II, 194, classifica la nomina dei vescovi come res mixta in senso largo solo nel caso che ci sia stato un accordo o un riconoscimento esplicito della Santa Sede di un diritto dello Stato acquisito in merito.

[111] Cfr. K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, cit., I, 412-413, 410.

[112] Diocesi di Olmütz e Salzburg.

[113] II diritto del Capitolo cattedrale di Soletta e di quello di S. Gallo è stato fissato anche su base concordataria. Cfr. Concordato tra la Santa Sede e i Governi di Lucerna, Berna, Soletta e Zugo, concluso a Lucerna il 26 marzo 1828, art. 12, e quello tra la Santa Sede e il Kath. Grossrathskollegium di S. Gallo del 7 novembre 1845, art. 7. Cfr. L. Schöppe, Konkordate, cit., 410-415, 424-429; U. Lampert, III, 62-70, 108-116. Il diritto del Capitolo di Coira, che risale alla fine del XII secolo, fu riconosciuto dalla Santa Sede come canonicamente ancora valido il 4 gennaio 1926, ibidem, II, 388-389.

[114] Cfr. ibidem, II, 375-379.

[115] Con la Bolla Sollecitudo omnium ecclesiarum del 17 ottobre 1924, cfr. ibidem, II, 379-380.

[116] L’impegno non è stato imposto concordatariamente, ma in modo unilaterale dalla Santa Sede ai canonici di Soletta con il Breve Quod ad rem sacram del 15 settembre 1828. Un’interpretazione autentica dello stesso fu rilasciata dall’incaricato d’affari della Santa Sede a Lucerna, G. M. Bovieri, il 19 gennaio 1863. Cfr. U. Lampert, III, 96-98, 98-99.

[117] Su tutta la questione, cfr. J. Stirnimann, Die Basler Bischofswahl. Ihre rechtlichen Grundlagen. Erweiterter Sonderdruck aus n. 7/8 (1967), 9-22 der Schweizer Rundschau; E. Isele, Postskriptum zur Kontroverse um das Basler Bischofswahlrecht. Sonderdruck aus der Schweizer Rundschau, n. 12 (1967), 3-18.

[118] Cfr. E. Isele, Postskriptum, cit., 8-9.

[119] Cfr. il Decreto di regolamento del Katholisches Grossratskollegium di S. Gallo circa la partecipazione dello stesso all’elezione del vescovo, datato 18 febbraio 1846, riprodotto nelle sue parti essenziali da U. Lampert, II, 397-398.

[120] Cfr. E. Isele, Postskriptum, cit., 8. Con questa restrizione, il diritto di libera elezione del Capitolo di S. Gallo è stato adeguato allo sviluppo raggiunto da questo istituto in Germania.

[121] Cfr. U. Lampert, II, 388-395.

[122] Concordato del 26 marzo 1828, art. 12.

[125] Cfr. lo scambio di lettere tra la Segreteria di Stato e il Governo di Sion, e il protocollo della seduta del Gran Consiglio vallesano del 22 maggio 1919 in U. Lam- pert, II, 377-379.

[124] Cfr. E. Isele, Postskriptum, cit., 8 n. 12.

[125] Cfr. il Monito del Card. Soglia del 30 settembre 1848 al Vorort di Berna, in U. Lampert, II, 379-380.

[126] Art. 9; cfr. anche l’interpretazione data allo stesso nella Decisione del Katholi- scbes Grossratskollegium di S. Gallo dell’11 marzo 1847 sul modo di interpretare il concordato del 7 novembre 1845, art. 1; U. Lampert, III, 117-120.

[127] Art. 2.

[128] A queste clausole dovrebbero essere aggiunte anche quelle inserite nei concordati riguardanti la nomina dei canonici dei Capitoli cattedrale. Esse, sia pure indirettamente, tendono a mantenere un certo controllo dei Governi cantonali sulla elezione del vescovo.

[129] Cfr. R. La Valle, La vita della comunità politica, cit., 497.