Sezione IV – Istituzione e Carisma

1. Profili istituzionali di Movimenti nella Chiesa

 

1. L’unicità del sacerdozio di Cristo radice dell’unità e della diversità tra sacerdozio comune e ministeriale

1. La semplice affermazione teologica secondo cui il sacerdozio ministeriale ha come funzione specifica di rappresentare Cristo in quanto capo del Corpo Mistico, che è la Chiesa, mentre il sacerdozio comune ha come compito di rappresentare Cristo secondo una ragione formale più generica – che la Teologia per lo più non si preoccupa di definire – pur essendo in se stessa esatta, non è in grado, per il suo carattere pragmatistico, di dare una spiegazione plausibile all’origine di questi due modi diversi di rappresentazione del Cristo.

Anche la constatazione che il sacerdozio ministeriale è conferito con il sacramento dell’ordine, mentre quello comune – unica forma cui partecipa anche il laico – , ha la sua origine nel battesimo, non permette di risalire alla causa ultima della differenza esistente tra gli effetti sacramentali dell’ordine e del battesimo. È una diversità che può essere indotta, ma ancora una volta non sufficientemente giustificata, anche dalla constatazione comune a tutta la tradizione teologica, che il battesimo e l’ordine sono due fonti autonome di partecipazione al sacerdozio di Cristo. Né l’ordine è lo sviluppo sacramentale del battesimo (e della cresima), né il battesimo è una derivazione del sacramento dell’ordine.

Che il sacerdozio comune di tutti i fedeli non consista in una partecipazione al sacerdozio ministeriale in quanto tale, ma in una diretta partecipazione al sacerdozio di Cristo, è evidenziato dal fatto che il sacramento dell’ordine può essere conferito solo dopo la recezione del battesimo[1], dichiarato dal Vaticano II «ianua» degli altri sacramenti[2].

Siccome dall’esame e dal confronto comparato degli elementi costitutivi del battesimo e dell’ordine non è possibile dedurre con certezza la ragione discriminante della differenza esistente tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, diventa inevitabile, per scoprirla, risalire alla natura stessa dell’unico sacerdozio di Cristo, cui rendono partecipi sia il battesimo che l’ordine[3].

2. In effetti nel sacerdozio di Cristo possono essere distinte, secondo Urs von Balthasar, due componenti formali diverse: una soggettiva ed un’altra oggettiva[4].

Nell’essenza della sua struttura personale Cristo è colui che si dona totalmente al Padre nell’amore, rinunciando a tutto quanto gli appartiene in proprio. Può rinunciare al privilegio della divinità, che gli appartiene per generazione, perché può depositarla presso il Padre al momento di entrare nella storia; può rinunciare alla umanità, che ha assunto, perché può perderla con la morte sulla croce[5]. Per amore del Padre Cristo può rinunciare perfino, come sulla croce, alla certezza di essere da Lui assistito ed accompagnato nel momento estremo della morte.

Nell’amore di Cristo al Padre, che tocca l’apice di spoliazione nell’obbedienza totale alla sua volontà, si realizzano i due aspetti fondamentali del suo sacerdozio: quello soggettivo per cui Cristo è ad un tempo colui che offre al Padre tutto se stesso, in forza dell’amore che lo genera fin dall’eternità; e quello oggettivo per cui Cristo si lascia sacrificare dal Padre sulla croce, come vittima immolata per l’espiazione di tutti i peccati del mondo.

La perfezione assoluta dell’amore di Cristo per il Padre deriva dall’unità perfetta esistente nella sua persona tra colui che si offre fin dall’eternità in sacrificio di amore e colui che viene sacrificato nel tempo come vittima.

Questo secondo aspetto oggettivo, di obbedienza “espiatoria” alla legge, del sacerdozio di Cristo, non è aggiunto però dall’esterno in modo accidentale come nel sacerdozio del VT, ma costituisce, assieme al primo aspetto (quello soggettivo dell’amore), l’essenza stessa dell’unità della persona di Cristo. Dal profilo formale il sacerdozio di Cristo non si esaurisce quindi nell’elemento soggettivo dell’amore verso il Padre, poiché questo stesso amore assume sulla croce anche la modalità oggettiva della totale sottomissione nell’obbedienza alla Sua volontà.

Benché originata, come vertice espressivo, dall’amore del Figlio verso il Padre, questa obbedienza assoluta assume formalmente anche la modalità legale che aveva già caratterizzato il sacerdozio del VT, in cui la espiazione dei peccati del popolo era considerata il frutto del sangue di molte vittime sparse in nome della Legge. Il sangue di Cristo sulla croce, segno della obbedienza oggettiva del Figlio verso l’autorità del Padre, prefigurata dall’autorità sacrificale di Abramo su Isacco, è sparso invece per amore, un’unica volta, sulla croce per la remissione di tutti i peccati dell’umanità. Cristo si lascia sacrificare dal Padre in assoluta ed estrema obbedienza alla Sua volontà, fino all’esperienza di sentirsi abbandonato da Lui sulla croce. Compiendo questo gesto estremo Cristo ha affermato davanti al mondo l’autorità suprema del Padre, dando così origine al sacerdozio nel NT.

Il superamento rispetto al sacerdozio del VT consiste nel fatto che Cristo, pur assumendo formalmente anche il ruolo della vittima sacrificata, consuma il gesto supremo dell’obbedienza oggettiva e legale compiendolo non in nome della Legge, ma in forza del suo amore per il Padre. Ciò esclude che la nuova economia della salvezza possa essere ancora considerata come un’economia della Legge[6].

Ogni altra realizzazione del sacerdozio nel NT può essere solo una partecipazione e perciò un’imitazione del sacerdozio assoluto ed eterno di Cristo. Mentre il sacerdozio del VT si caratterizzava per la disgiunzione della modalità attiva da quella passiva, per cui il sacrificante e il sacrificato non coincidevano nella stessa persona, in Cristo tutti e due gli elementi formali sono riuniti. Tuttavia al momento del passaggio dal sacerdozio di Cristo a quello della Chiesa i due elementi, pur rimanendo strettamente complementari e non estrinseci, si distinguono ancora una volta. Conferendo la propria autorità alla Chiesa, Cristo dà ai fedeli la possibilità di vivere compiutamente, nell’obbedienza oggettiva, la dimensione formale soggettiva dell’amore.

La totalità della donazione soggettiva del cristiano a Cristo nell’amore, è garantita, nella sua autenticità, dall’oggettività dell’obbedienza all’autorità del sacerdozio ministeriale che nella Chiesa svolge una funzione di servizio: quella di rappresentare Cristo come Capo, in funzione dell’unità della Chiesa.

Affinché il cristiano – che partecipa alla dimensione soggettiva del sacerdozio di Cristo, in quanto è reso partecipe nel battesimo all’amore stesso del Figlio per il Padre – possa realizzare il proprio sacerdozio secondo tutta la radicalità postulata dall’amore, ha bisogno di una autorità oggettiva ed esterna che sia legittimata a provocarlo concretamente e in modo imprescindibile, come il Padre ha provocato il Figlio fino alla morte della croce. Per realizzare questo disegno Cristo ha conferito al sacerdozio ministeriale della Chiesa un’autorità che si esprime attraverso la «potestas sacra»[7].

La diversa partecipazione al sacerdozio di Cristo nel battesimo e nel sacramento dell’ordine trova quindi origine nella diversità formale secondo cui si realizza il sacerdozio di Cristo stesso.

L’unita perfetta in Cristo dei due elementi trova il suo riscontro analogico nel fatto che il sacerdozio comune dei fedeli, in quanto partecipazione all’aspetto formale soggettivo del sacerdozio di Cristo, continua a sussistere in colui che è reso partecipe, con il sacramento dell’ordine, anche del sacerdozio ministeriale, cioè dell’aspetto oggettivo e legale del sacerdozio di Cristo.

Il sacerdozio comune che costituisce il cristiano nello stato laicale, sia quando egli vive nel mondo, sia quando accetta la vocazione alla radicalità dell’amore nello «status perfectionis» – fondato sui consigli evangelici – ha bisogno dell’autorità del sacerdozio ministeriale che lo provoca, nella richiesta di obbedienza, all’oggettività dell’amore, per poter partecipare pienamente alla dimensione formale oggettiva del sacerdozio di Cristo.

3. L’essenziale diversità dei due sacerdozi, quello comune e quello ministeriale, sostenuta dalla Chiesa attraverso l’insegnamento del Vaticano II[8], risulta perciò originata dal fatto che nel NT l’unità perfetta tra il sacrificante e il sacrificato si realizza solo nella persona di Cristo. Nel sacerdozio partecipato da Cristo alla Chiesa i due elementi si trovano disgiunti non solo formalmente ma anche realmente (benché in modo solo parziale rispetto al sacerdozio del VT), per il fatto che esso, in forza della diversità strutturale del battesimo e dell’ordine, si realizza in persone diverse.

La disgiunzione è solo parziale (così da creare una sostanziale complementarietà e unità di fondo), sia perché il sacerdozio comune continua a sussistere come vocazione soggettiva all’amore perfetto anche in colui che è investito dal sacerdozio ministeriale, sia perché il sacerdozio ministeriale non avrebbe più senso nel NT se non esistesse il sacerdozio comune di tutti i fedeli. Il sacerdozio nel NT non è necessario per offrire il sacrificio per interposta persona come nelle religioni precristiane o in nome dei fedeli come nel VT, ma è necessario perché i cristiani possano offrire se stessi assieme al Cristo, nella piena oggettiva dell’obbedienza al Padre.

Il sacerdozio comune, pur potendosi realizzare potenzialmente come espressione compiuta della partecipazione dell’amore di Cristo verso il Padre anche nel sacerdozio di tutti i fedeli, è garantito strutturalmente nella sua perfezione solo all’interno dello «status perfectionis», dove l’uomo non è piu “diviso”[9]. Anche in questo stato, rimane tuttavia strutturalmente incapace di esprimere il secondo aspetto formale, quello dell’obbedienza legale del sacerdozio di Cristo. A differenza di Cristo, che è una sola sostanza con il Padre, il cristiano può realizzare l’obbedienza oggettiva solo in forza dell’intervento esterno di un’altra persona.

Questa è la ragione non solo del fatto che l’autorità della Chiesa è garantita in forza dell’«ex opere operatum», per cui prescinde ultimamente dalla santità personale di chi e investito dal sacerdozio ministeriale, ma anche del fatto che lo «status perfectionis» in quanto strutturato giuridicamente (ordini e congregazioni religiose) non si realizza come Chiesa particolare. Oltre a mancare del sacramento del matrimonio, manca anche della pienezza dell’ordine sacro, cioè dell’episcopato. Ciò lo rende radicalmente dipendente – al di là di ogni forma di esenzione – dall’autorità gerarchica della Chiesa particolare e universale.

La continuazione del sacerdozio comune anche in colui che è investito di quello ministeriale ha come scopo di sottolineare l’unità del sacerdozio stesso, ma anche di impedire che il ministro ordinato possa credersi dispensato dal realizzare nella sua persona l’esigenza dell’amore di cui è costituito il sacerdozio comune, come partecipazione all’aspetto formale soggettivo dell’amore di Cristo. D’altra parte se tutti i fedeli, in quanto tali, non partecipassero, nel sacerdozio comune, all’aspetto formale soggettivo del sacerdozio di Cristo, anche il sacerdozio legale o oggettivo non avrebbe più senso nel NT, poiché l’unico vero sacrificio e l’unica vera offerta, sia dal profilo attivo che passivo, è Cristo stesso. In quanto dedizione nell’amore, di cui ogni cristiano è capace, il sacerdozio comune nel NT non e più perciò solo opera dell’uomo. In forza dell’inserimento dell’uomo nel mistero di Cristo, attraverso il sacramento del battesimo, esso è prima di tutto un gesto di partecipazione all’unico ed esclusivo sacrificio compiuto da Cristo.

Il sacerdozio ministeriale ha come funzione specifica quella di rendere presente nella Chiesa l’aspetto formale oggettivo del sacerdozio di Cristo, attraverso il quale si manifesta nella storia l’autorità assoluta del Padre sul Figlio. A livello istituzionale questa autorità che dal Padre è data al Figlio e dal Figlio alla Chiesa opera nella «potestas sacra» di cui è investito il sacerdozio ministeriale[10].

Il laico, o il fedele in quanto tale, è investito in forza del sacramento del battesimo solo dell’aspetto soggettivo del sacerdozio[11].

4. Già nella persona di Cristo il sacerdozio soggettivo è primario rispetto al sacerdozio oggettivo e legale, essendo l’espressione dell’amore eterno e perfetto del Figlio per il Padre e quindi il fondamento dell’aspetto formale oggettivo stesso. L’obbedienza radicale, manifestata sulla croce dal Figlio all’autorità del Padre, ha infatti la sua genesi nell’amore con cui, fin dall’eternità, il Verbo è costituito come Figlio dal Padre da cui è generato.

Il sacerdozio comune dei fedeli non rappresenta perciò una forma minore di partecipazione al sacerdozio di Cristo rispetto al sacerdozio ministeriale, ma una partecipazione che, secondo il Concilio Vaticano II, si differenzia sostanzialmente da quest’ultimo, e che trova la ragione ultima della sua diversità nella diversità formale stessa esistente in Cristo tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo del sacerdozio. Il fatto che la diversità formale esistente in Cristo tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo si traduca a livello ecclesiale in una diversità sostanziale ha la sua spiegazione nella natura analogica della partecipazione del sacerdozio, sia comune che ministeriale, al sacerdozio di Cristo.

In quanto partecipazione ontologica all’amore eterno del Figlio per il Padre, mediata attraverso il “carattere” sacramentale del battesimo, il sacerdozio comune dei fedeli esaurisce in se stesso, sia pure in forma imperfetta, l’aspetto originante e primario (dal profilo formale) del sacerdozio di Cristo.

L’aspetto formale oggettivo non è comprensibile se non in rapporto all’elemento fondante soggettivo dell’amore eterno del Figlio per il Padre. Senza questo rapporto di unità e di dipendenza neppure il sacrificio oggettivo o legale di Cristo sulla croce avrebbe avuto la dimensione necessaria per realizzare la redenzione definitiva dell’umanità. Cristo è vittima perfetta solo perché ama il Padre fin dall’eternità con quell’amore perfetto ed esauriente che lo costituisce come Figlio del Padre.

È perciò profondamente scorretto definire il sacerdozio comune dei fedeli negativamente, come forma di non partecipazione al sacerdozio ministeriale. Questo approccio negativo del problema non coglie l’elemento fondamentale del sacerdozio comune, cioè quello di essere una partecipazione diretta all’amore di Cristo per il Padre. In forza di questa partecipazione il sacerdozio comune dei fedeli si costituisce come realtà primaria rispetto al sacerdozio ministeriale.

Prima che sul sacerdozio ministeriale, la costituzione della Chiesa è fondata sul sacerdozio comune di tutti i fedeli. La sua priorità è data dal fatto di essere una partecipazione analogicamente esauriente all’amore del Figlio per il Padre, da cui, nella persona stessa di Cristo, deriva l’aspetto legale del suo sacerdozio.

5. Questa constatazione teologica dovrebbe trovare la sua applicazione istituzionale anche nel diritto canonico. Il progetto della nuova codificazione (del 1980) come quello della «Lex Ecclesiae Fundamentalis» (del 1978) non sono invece riusciti a superare l’impostazione tradizionale del CIC del 1917, che antepone la trattazione dei chierici a quella dei laici[12].

È vero che questo ordine è stato seguito anche nella sistematica della LG, che parla prima dei chierici (Cap. III)e poi dei laici (Cap. IV). Tuttavia non si può non rilevare che questo ordine rappresenta una incongruenza rispetto all’Art. 10, 2 della LG stessa, dove è enunciato il tema del rapporto tra il sacerdozio comune e quello ministeriale. Nella prima frase di questo stesso articolo, il sacerdozio comune è anteposto a quello ministeriale, mentre inspiegabilmente l’ordine viene capovolto nella frase successiva. I capitoli III e IV della LG seguiranno questa inversione, accettando così la concezione tradizionale, cristallizzatasi nel CIC del 1917.

A quindici anni di distanza dal Concilio è lecito domandarsi se nel Cap. II della LG, dedicato al Popolo di Dio – cui appartiene anche l’Art. l0 – non sarebbe stato più esatto parlare non del sacerdozio comune, ma più universalmente del carattere sacerdotale del Popolo di Dio. Ciò avrebbe permesso di includere nel discorso sia il sacerdozio comune che quello ministeriale. L’insistenza sul sacerdozio comune, (Art. 10 e 11) all’interno del Cap. II falsa la prospettiva, dal momento che quest’ultimo non esaurisce tutta la dimensione sacerdotale del Popolo di Dio. Ad esso appartiene, infatti, anche il sacerdozio ministeriale.

Se il tema del sacerdozio comune non fosse stato indebitamente esaurito nel Cap. II, sarebbe stato possibile evitare nel Cap. IV di ridurre il problema del sacerdozio comune al tema dei laici. I laici infatti non esauriscono in quanto tali la realizzazione del sacerdozio comune, che continua a sussistere anche nei chierici e che è presente anche nei religiosi, siano essi ordinati o meno. I laici rappresentano solo il soggetto in cui il sacerdozio comune si realizza secondo la sua modalità secolare. Anche i religiosi, quando sono laici, sono investiti dal sacerdozio comune, ma non secondo la modalità secolare, bensì secondo la modalità propria allo stato dei consigli evangelici.

Evidentemente si tratta di definire il senso del termine “secolare”, dandogli un significato non sociologico (il fatto di vivere materialmente nel mondo), ma teologico. Dal profilo teologico i religiosi laici non hanno nella Chiesa la stessa funzione affidata a quei laici che la LG (31, 2) ha definito a partire dalla loro “indole secolare”. L’indole secolare attribuita dalla LG a questi laici, non è di natura sociologica ma teologica[13].

Il compito di questi laici, che nella pienezza della loro funzione ecclesiologica si esprime nel sacramento del matrimonio – in cui avviene il punto di sutura tra la natura e la soprannatura[14] – è quello di realizzare nella e per la Chiesa il mandato culturale dato all’uomo da Dio nella creazione. Ne consegue che l’affermazione comune al Can. 107 (CIC del 1917) e al Vaticano II (LG 43, 2) secondo cui la condizione per diventare religiosi è quella di essere laici o chierici, è vera se il termine “laico” è inteso nella sua accezione puramente sacramentale – quella di essere solo battezzato (e cresimato) – e non secondo l’accezione teologica del termine “secolare”. Ne consegue che anche l’affermazione inversa, secondo cui i religiosi possono essere chierici o laici, ha una propria verità, a condizione che il termine “laico” non sia inteso secondo l’accezione propria dell’“indole secolare” ma secondo il suo significato puramente sacramentale (quello di essere battezzato).

Lo stato religioso non è uno stato semplicemente sovrapposto agli altri due; ha una sua autonomia costituzionale dal momento che ai consigli evangelici si dovrebbe riconoscere di avere la loro radice nel «ius divinum» della costituzione della Chiesa.

Ci sembra perciò riduttivo il modo con il quale il progetto della «Lex Ecclesiae Fundamentalis» e quello della nuova codificazione, seguendo le tracce del Vaticano II, hanno affrontato il problema dei consigli evangelici. Se è evidente che per definirli non basta affermare, negativamente, che essi non appartengono alla struttura gerarchica della Chiesa, non è nemmeno sufficiente affermare che essi appartengono alla vita e alla santità della Chiesa (come fanno il Can. 202 § 2 del nuovo progetto e il Can. 25, 2 della LEF), se con questa affermazione si volesse evitare di affermare che essi, come la distinzione tra chierici e laici, sono radicati nel «ius divinum». Un filone costante della tradizione teologica ha giustamente considerato i consigli evangelici come realtà di diritto divino e perciò come appartenenti alla struttura essenziale della Chiesa[15].

Alla proposta di far precedere nella sistematica del diritto canonico i laici ai chierici si potrebbe obiettare che la LG, nell’art. 23, 1, afferma che i Vescovi sono il “principio visibile” (il Papa anche “perpetuo”) “e il fondamento delle loro Chiese particolari”. Principio e fondamento non sembrano però significare una priorità del sacerdozio ministeriale su quello comune, ma indicare semplicemente la funzione specifica dello stesso, nel senso che senza il sacerdozio ministeriale il Popolo di Dio, pur essendo sacerdotale già a partire dal sacerdozio comune, non può costituirsi in Chiesa nel senso teologicamente corretto del termine.

Questa è la ragione per cui il Vaticano II ha distinto tra la nozione di “Chiesa” (che comprende anche quella di “Chiesa separata”) e quella di “comunità ecclesiale”[16]. Le comunità ecclesiali si distinguono dalle Chiese per il fatto che possiedono solo il sacerdozio comune[17]. Tuttavia in forza del loro carattere “ecclesiale” si differenziano incommensurabilmente dalle semplici comunità “religiose” non cristiane. La distanza o la differenza qualitativa esistente tra le comunità ecclesiali e le Chiese è comunque minore, in ordine all’economia ordinaria della salvezza, rispetto a quella che corre tra le comunità religiose e quelle ecclesiali.

Ciò dipende dal fatto che in quanto definito dalla sua partecipazione allo statuto soggettivo di Cristo, lo stato ecclesiale del battezzato è incommensurabilmente superiore a quello naturale del non battezzato, che nel suo essere immagine creata del mistero trinitario non partecipa ancora alla dimensione ontologica soprannaturale conferita dal battesimo. Lo scarto qualitativo esistente tra il cristiano e l’uomo non battezzato è quindi superiore allo scarto, pure sostanziale, esistente tra il sacerdozio comune e quello ministeriale; entrambi, partecipazioni non più solo naturali, ma soprannaturali, del sacerdozio di Cristo. La distanza tra la natura e la soprannatura è superiore a qualsiasi differenziazione di stato esistente all’interno dell’ambito soprannaturale.

 

2. Carismi e movimenti nella Chiesa

1. Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale hanno origine in due sacramenti diversi, nel battesimo e nell’ordine sacro. Ciò significa che appartengono tutti e due all’ambito istituzionale della Chiesa di cui la Parola e il Sacramento sono i due elementi genetici.

La preoccupazione del Vaticano II di creare nella Chiesa uno spazio istituzionalmente più rilevante per i laici – in quanto espressione del sacerdozio comune – emerge con evidenza sia dal IV Cap. della LG, sia dal fatto che il Concilio ha dedicato ad essi un intero documento, l’AA. Anche la tendenza della Chiesa post-conciliare di configurare giuridicamente la posizione dei fedeli in genere e dei laici in particolare, fino a riconoscerli non solamente come soggetto di diritti – secondo un’ampiezza di concezione sconosciuta al CIC del 1917 – ma addirittura come soggetto di diritti fondamentali[18], sono la conferma che il sacerdozio comune è considerato dal Magistero – al pari di quello ministeriale – come realtà istituzionale.

Anche la dimensione carismatica appartiene alla costituzione o alla essenza della Chiesa, ma, in quanto tale, è diversa e si distingue dall’istituzione. Per cui è esatto affermare, come fanno alcuni teologi[19] che, oltre alla Parola e al Sacramento, anche il carisma è un elemento costitutivo della Chiesa. Mentre però i primi per la loro reciprocità strutturale convergono nel sacramento, in cui la Parola si concretizza[20], per generare la struttura istituzionale, il carisma per sua natura presuppone l’esistenza dell’istituzione.

In quanto espressione privilegiata della presenza e dell’attività dello Spirito Santo, il carisma ha come funzione quella di provocare l’istituzione ad una autenticità e ad una vitalità che le permettano di essere realmente sostegno ed espressione del ministero della Chiesa.

Malgrado le apparenze e malgrado le teorizzazioni avvenute nel corso della storia, l’antinomia reale nella vita della Chiesa non è stata quella tra carisma e istituzione – identificata quest’ultima, riduttivamente, con il sacerdozio ministeriale o gerarchico – ma tra laici e chierici, e perciò, ultimamente, tra il sacerdozio comune e quello ministeriale.

Nella sua conferenza di giovedì mattina Mons. Lucas Moreira Neves[21], ha fatto a questo proposito un’osservazione molto interessante, quando ha affermato che la storia della Chiesa è stata segnata dalla costante tensione esistente tra i chierici e i laici. In realtà il carisma, per sua natura e vocazione, non genera nella Chiesa contraddizioni o antinomie. Le rotture, infatti, sono avvenute tra chierici e laici, cioè tra i due poli dell’istituzione.

Se l’antinomia è apparsa e, in quanto tale, è stata messa a tema prevalentemente come contrapposizione tra carisma e istituzione, è perché il presupposto tacitamente sotteso, e non sufficientemente verificato, era che il carisma si manifestasse solo, o quasi esclusivamente, tra i fedeli, intesi non tanto nel senso teologico dato loro dal Vaticano II, quanto nel senso sociologico di elemento “base” della Chiesa.

In realtà la Riforma protestante, in cui sono sfociate le istanze dei movimenti spiritualistici della Chiesa antica e dei Medioevo, ha contrapposto il sacerdozio comune dei laici al sacerdozio ministeriale, credendo di contrapporre il carisma all’istituzione. Ha contrapposto, fino a provocarne la rottura, un polo dell’istituzione all’altro: quello del laicato sottovalutato soprattutto nel Medio-evo – che è stata un’epoca di forte clericalizzazione della Chiesa – e quello, da sempre egemone, della gerarchia.

Da questo punto di vista il Concilio Vaticano II, ribadendo che il carisma è dato ai “fedeli di ogni ordine” dallo Spirito Santo[22], e perciò ai chierici, religiosi e laici, è stato estremamente liberante. Ciò significa che il carisma, come insegna la storia della Chiesa, può contestare o provocare l’istituzione, sia quando è dato, come dono dello Spirito Santo, al sacerdozio ministeriale, come nel Papa attuale, sia quando è fatto emergere nel sacerdozio comune.

Il carisma è sempre dato all’interno della costituzione della Chiesa, nella sua bipolarità di sacerdozio comune e ministeriale. Il problema strutturale della Chiesa non è perciò quello di idealizzare l’unità tra il carisma e l’istituzione, ma l’unità tra il sacerdozio comune e quello ministeriale.

La prova di questo fatto è la presenza nella Chiesa dello «status perfectionis», cioè dei Consigli evangelici, che in quanto rappresenta una delle forme di espressione dell’elemento carismatico, per altro sempre presente nella Chiesa, non ha origine né nel sacerdozio comune, né in quello ministeriale, intesi alternativamente, ma nell’uno e nell’altro.

Ne consegue che lo «status perfectionis» in quanto espressione della presenza del carisma nella Chiesa e al di là delle forme giuridiche che può o ha potuto assumere, ha una propria autonomia e una propria priorità all’interno della costituzione della Chiesa: quella di richiamare tutti, chierici e laici, (cioè l’istituzione) alla dimensione escatologica (cioè non istituzionale) dell’esperienza cristiana.

Ogni stato ha perciò una sua priorità nella costituzione della Chiesa, che risulta così retta da un rapporto non solo bipolare come quello esistente tra chierici e laici all’interno dell’istituzione, ma circolare:

a) Quella del sacerdozio comune o dei laici ha come compito di “ricapitolare” tutto in Cristo, vivendo l’esistenza come partecipazione e inserimento al sacerdozio soggettivo di Cristo. Il fedele ha come compito di realizzare attraverso il proprio sacerdozio, il mandato culturale dato da Dio all’uomo agli albori della Creazione: prendere possesso del mondo.

b) Il sacerdozio ministeriale ha come priorità quella di garantire l’unità tra i cristiani, santificandoli attraverso la Parola e il Sacramento, cioè quello di esercitare il sacerdozio oggettivo o l’autorità e di garantire dal di dentro l’esistenza e sopravvivenza della Chiesa (LG 23, 1: “principio e fondamento dell’unità della Chiesa particolare”).

c) I consigli evangelici esplicano una loro priorità – come detto – richiamando attraverso l’affermazione della verginità, della povertà e dell’obbedienza alla trascendenza dei valori cristiani rispetto alla storia. Il cristiano è in questo mondo, ma non è di questo mondo[23].

L’istituzione – cioè il sacerdozio comune e quello ministeriale – ha bisogno del carisma per realizzare l’equilibrio all’interno della propria bipolarità. Richiamando alla dimensione escatologica dell’esistenza della Chiesa, il carisma sostiene l’istituzione nella ricerca della propria unità, minacciata costantemente dalla sempre latente antinomia, propria ad ogni forma di potere, che nella Chiesa si è tradotta in preminenza della gerarchia sui laici o dei laici sulla gerarchia.

Tra le molteplici forme assunte dai carismi i consigli evangelici rappresentano una modalità fondamentale. Questa è la ragione per cui sono stati riconosciuti dalla Chiesa anche a livello giuridico. È solo in forza di un equivoco grossolano sulla loro natura, che il progetto del nuovo codice[24] ha potuto valutarli e classificarli, dal profilo sistematico, come una delle tante forme di associazioni possibili in seno alla Chiesa, fosse pure come forma più importante o preminente.

L’esistenza dello «status perfectionis» non dipende solo dalla libera scelta dei chierici o dei laici di assumerlo come stato di vita. Se ciò è vero dal profilo soggettivo – come per lo stato clericale e laicale, poiché nessuno può essere ordinato o battezzato contro la sua volontà – non è invece vero dal profilo oggettivo, poiché l’esistenza concreta dello «status perfectionis» – come di quello sacerdotale e laicale – è garantita nella Chiesa, oggettivamente, dall’iniziativa dello Spirito Santo che suscita ineluttabilmente le vocazioni ad esso.

2. I movimenti hanno nella Chiesa una funzione analoga a quella dello «status perfectionis» nella misura in cui anch’essi sono espressione dei carismi suscitati dallo Spirito. Si allude, evidentemente, in questa sede, ai movimenti così come sono stati definiti da Mons. Neves[25] nella Sua relazione: in quanto idee forza che spingono all’azione, o in quanto corpo di dottrina (o “mistica”) che portano all’azione. Per definizione i movimenti non sono perciò carismi individuali, ma piuttosto una forma di carisma vissuto comunitariamente, dove ogni singolo vive e partecipa del carisma principale e più forte della fondatrice o del fondatore.

Se è vero che la teologia è una riflessione critica sull’esperienza vissuta dalla Chiesa, allora è facile constatare che all’interno dei movimenti il problema della contrapposizione o dell’antinomia tra sacerdozio comune e ministeriale non emerge, o non si pone, con la stessa insistenza con la quale appare solitamente nella Chiesa.

In questo senso è vero, come ha detto Mons. Neves[26], che nella Chiesa di oggi i movimenti sono un segno “sacramentale”. Essi lo sono come realtà ecclesiali in cui la convergenza nell’unità tra sacerdozio comune e ministeriale si realizza in forza dell’adesione e della partecipazione, sia dei chierici che dei laici, allo stesso carisma.

L’antinomia tra questi due poli nasce (ed e nata), infatti, nella Chiesa, ogni qual volta l’esperienza ecclesiale cessa (o ha cessato) di essere in quanto tale un’esperienza di movimento, scadendo così nella «routine» o nella ideologia. Si tratta di due tipiche manifestazioni del fatto che la vita è ridotta ad amministrazione (che non è sinonimo di governo) e che il patrimonio comune della fede cessa, come ha sottolineato P. Rotondi nel suo intervento[27], di imprimere un “ritmo” all’esistenza cristiana.

Per questa loro funzione di segno all’interno della Chiesa i movimenti, che forse per la prima volta nella storia della Chiesa moderna si caratterizzano per la loro dimensione internazionale[28], hanno diritto di essere riconosciuti in quanto tali, analogicamente agli istituti religiosi. Sarebbe un modo di concretizzare anche giuridicamente il fatto che i carismi – quando sono autentici e come tali riconosciuti dal sacerdozio ministeriale – non sono suscitati nella Chiesa per l’usufrutto individuale, ma per l’unità di tutta la Chiesa.

Da questo punto di vista, allora, non si può prescindere dal constatare alcuni fatti che interessano il modo con il quale la Chiesa, dal CIC del 1917 in poi, ha affrontato i problemi dei movimenti.

 

3. La “Nota Pastorale” della CEI del 1981 sui criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti e associazioni[29]

a) La prima constatazione che si impone è il fatto che il concetto di “movimento” è estraneo al CIC del 1917. Esso mette a disposizione dei fedeli solo alcune forme prestabilite di associazione (Can. 684 segg.) le cui espressioni fondamentali sono i Terz’ordini, le Confraternite e le Pie Unioni.

L’idea di mettere a disposizione alcune forme fisse di associazioni riflette, oltre al progressivo sviluppo storico, anche l’influenza delle codificazioni civili moderne[30]. Gli ordinamenti giuridici occidentali e anglosassoni, frutto dell’illuminismo e dell’idea che tutta la vita giuridica debba essere controllata da una ragione superiore, hanno fissato alcune forme democratiche di associazionismo, in cui deve declinarsi in miniatura la struttura democratica dello Stato, considerata come modello razionale normativo per tutte le realtà intermedie. Nelle prime codificazioni, ma anche in alcune attuali, è prevalsa l’idea che solo lo Stato fosse autorizzato, a concedere ad una associazione il diritto di esistere giuridicamente.

Anche il CIC del 1917 si è inserito in questo sistema di “concessione”. Infatti, come ha fatto notare Mons. G. Lobina nella Sua comunicazione[31], l’associazione canonica non eretta non esiste giuridicamente. Per di più le associazioni sono considerate dal CIC solo come realtà ecclesiali utili, ma non necessarie e previste, dal profilo sistematico, come se fossero realtà che interessano solo i laici[32], anche se, di fatto, la normativa che le regola non esclude nessun fedele – sia esso chierico o laico -dal parteciparvi, con una sola riserva per i religiosi[33].

b) La seconda costatazione è che il progetto del nuovo codice ha assunto un atteggiamento più liberale nei confronti delle forme associative. Ciò dipende dal fatto che la possibilità di associarsi secondo forme giuridiche, è considerata come emergente dal diritto “fondamentale” di aggregarsi di cui il cristiano è investito in forza del battesimo[34].

Accanto alla chiara costatazione che le associazioni non sono di per sé laicali, ma possono comprendere chierici, laici e religiosi, il riconoscimento del nesso con il diritto del cristiano di aggregarsi rappresenta l’elemento piu importante della nuova normativa.

Il regime giuridico rimane però misto, nel senso che vale il principio della “concessione” per le associazioni pubbliche. Esse sono pubbliche in quanto erette dall’autorità ecclesiastica. Sembra, invece, valere il principio, che la dottrina giuridica qualifica come principio della “iscrizione”, per le associazioni private. Perché l’autorità ecclesiastica possa prendere conoscenza della loro esistenza di fatto, sembra logico, anche se il progetto non fa cenno al problema, che esse debbano essere rese note o comunicate. In quanto non erette, queste ultime, non hanno però personalità giuridica canonica e di conseguenza esistono di fatto, ma non di diritto. Sono un dato di fatto che paradossalmente può essere lodato e raccomandato dall’autorità ecclesiastica, anche se giuridicamente non esistente.

Al IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico del 1980 il Prof. Giorgio Feliciani ha sufficientemente messo in evidenza la problematica della distinzione tra pubblico e privato – estranea al diritto canonico e mutuata dal diritto statuale – introdotta in questo e in altri contesti dal progetto di codificazione[35], per cui prescindiamo, in questa sede, dal prendere in esame la questione limitandoci a fare un’ultima osservazione.

Se è vero che lo statuto interno delle nuove associazioni private è tale da poter essere eventualmente applicato anche nei movimenti, è altrettanto vero che anche nel progetto della nuova codificazione, la nozione di “movimento” non appare e che, comunque, i movimenti sarebbero di per sé considerati nella Chiesa come “affare privato”. Quando volessero farsi riconoscere dovrebbero assumere la forma prestabilita delle associazioni pubbliche. Il riconoscimento, in quanto tale, non implica un cambiamento della loro natura, ma la loro strutturazione giuridica, secondo lo statuto proprio delle associazioni pubbliche, potrebbe, in molti casi, risultare per i movimenti stessi, come una quadratura del circolo.

c) La terza costatazione è che la recente “Nota Pastorale” della CEI “sui criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti e associazioni” ha compiuto un ulteriore passo avanti. Non da ultimo perché riconosce «expressis verbis» l’esistenza in Italia di movimenti in quanto tali. Non è un fatto da poco, perché significa che la Chiesa italiana prende globalmente atto di realtà ecclesiali, di fatto finora in parte contestate, non tanto nella loro esistenza, ma nella loro legittimità ecclesiologia, non essendo né Azione Cattolica né associazioni canoniche. Ciò significa che i movimenti non saranno piu costretti, per essere riconosciuti ufficialmente, a mutilare eventualmente la loro identità strutturale, così da poter rientrare nella forma giuridica delle associazioni. Ciò è molto importante.

In quanto non appartenenti alla Chiesa italiana, non tocca a noi prendere posizione sulla genesi, sulle finalità di politica ecclesiastica che l’hanno determinata, o sulla procedura con la quale è stata varata dalla CEI la “Nota Pastorale”. Trattandosi però di un documento che per il suo contenuto ha potenzialmente valore universale – in quanto potrebbe essere preso come modello da altri episcopati – è opportuno fare alcune osservazioni:

aa) La teologia del laicato ha avuto il compito storico di permettere, attraverso la necessaria delimitazione della funzione del clero e la precisazione del reciproco rapporto tra chierici e laici, un inserimento attivo di quest’ultimi nella vita della Chiesa. I limiti di questa teologia rispetto ad una teologia del sacerdozio comune sono già stati constatati nella prima parte di questo intervento.

Anche il documento della CEI rimane imbrigliato in questa impostazione. Pur riconoscendo esplicitamente il sacramento del battesimo come fondamento genetico della presenza del laico nella Chiesa (Nr. 5), non coglie con tutta la sua ricchezza l’esprimersi, nel laico, del sacerdozio comune, che prima di diversificarlo qualitativamente lo accomuna a tutti i fedeli e perciò anche al sacerdozio ministeriale.

Pur riconoscendo di striscio che ai movimenti e alle associazioni possono partecipare sia laici che chierici (Nr. 20/e), il documento è infatti tutto impostato sull’apostolato laicale. Sarebbe stato molto più completo nel suo significato ecclesiologico se avesse trattato dell’apostolato ecclesiale o dei fedeli. In questo senso le riflessioni fatte nella prima parte sul sacerdozio comune e ministeriale e sulla priorità genetica di quello comune, rispetto a quello ministeriale, acquistano tutta la loro importanza concreta. È il sacerdozio ministeriale ad essere al servizio di quello comune e non viceversa.

bb) In questa linea va considerata e valutata anche la priorità o preferenzialità data dal documento della CEI all’Azione Cattolica, intesa come partecipazione o collaborazione all’apostolato della gerarchia[36]. Il problema non si pone in modo così acuto fuori Italia, dove la Azione Cattolica è considerata un «genus» e non una «species» poiché tutti i movimenti o le associazioni sono considerati in genere Azione Cattolica. In Italia è considerata come una specie distinta da tutte le altre forme associative. Tuttavia il problema teologico in quanto tale, posto dall’Azione Cattolica, rimane ed è universale per sua natura.

Cos’è teologicamente l’Azione Cattolica, definita come collaborazione all’Apostolato gerarchico? Da sempre è stato evidenziato il pericolo della clericalizzazione insito in una tale forma di apostolato[37]. Il documento della CEI attribuisce all’Azione Cattolica una forma particolare di ministerialità, citando Papa Paolo VI ed il documento della CEI “Evangelizzazione e Ministeri” (Nr. 25). Si ha così l’occasione anche di ben precisare che il particolare ministero di cui si parla fa parte di quelli non ordinati, cui il Magistero di Paolo VI ha fatto cenno sia nella «Evangelii Nuntiandi» che nel «Motu ProprioMinisteria Quaedam”». La particolare forma di ministerialità non ordinata di cui l’Azione Cattolica gode è quella di essere promossa dall’autorità ecclesiastica in vista di una più stretta collaborazione al suo ministero apostolico.

Essendo chiaro ed universalmente riconosciuto che tutti i cristiani sono chiamati a vivere, in forza del sacerdozio comune, una apostolicità ecclesiale di carattere generale in comunione con la gerarchia, l’Azione Cattolica sarebbe invece chiamata a partecipare a quel particolare tipo di apostolicità che la gerarchia ritiene essere propria.

Il ministero della gerarchia sembra configurarsi così come costituito da due livelli solo di fatto profondamente uniti: quello derivato dalla consacrazione episcopale e un altro, storicamente a questo strettamente connesso, ma non necessariamente derivante dall’ordine sacro. Sarebbe teologicamente inammissibile che la gerarchia potesse chiamare chicchessia alla partecipazione del suo ministero ordinato se non attraverso l’ordine. Quindi la particolare associazione alla gerarchia dell’Azione Cattolica sembra non possa riguardare il ministero ordinato, ma quel livello di ministerialità non ordinata che storicamente è esercitata anche dalla gerarchia, senza che le derivi essenzialmente dall’ordine.

In questo caso, essendo il ministero non ordinato pur sempre fondato sul battesimo, sembrano essere possibili solo due vie di uscita: o questo ministero è comunicabile a tutti i laici cristiani, oppure individua una realtà talmente particolare da essere solo per pochi. Così intesa l’Azione Cattolica (presa come specie), non può essere che un movimento d’«élite» e come tale non può essere scelta, né come forma comune, né come forma ottimale di apostolato e tanto meno può essere massicciamente raccomandata sul piano pastorale. In tal caso, infatti, la forma comune derivante dal battesimo (sacerdozio comune) verrebbe ad essere svilita in una sorta di apostolato di seconda classe.

La funzione originale del laico, infatti, derivante dalla sua diretta partecipazione ai «tria munera» di Cristo, è nella sua essenza un’attività ecclesiale diversa da quella della gerarchia e perciò non primariamente una partecipazione ad un ministero, che pur non derivando essenzialmente dall’ordine è connesso almeno di fatto allo «status» clericale. Il contenuto di tale ministero coinciderebbe perciò con un tipo di apostolato che la gerarchia si sarebbe assunta per supplire ad una mancanza di laici o per altre ragioni connesse con la posizione egemone avuta nella storia della Chiesa dai chierici sui laici. Ne consegue che l’Azione Cattolica sarebbe una forma particolare di ministero, fortemente connesso con lo «status» attuale del chierico. Da ciò deriva che una tale forma di ministerialità particolare non può essere presa come modello per tutti i fedeli.

La stessa problematica si pone del resto anche all’interno del progetto del nuovo codice. Appoggiandosi alla LG (33, 3) in cui si afferma che al di là dell’apostolato generale “i laici possono essere chiamati in diversi modi a collaborare più immediatamente all’apostolato della gerarchia”… “ed hanno inoltre la capacità di essere assunti dalla gerarchia per esercitare, per fini spirituali, alcuni uffici ecclesiastici”, il Can. 126 dello «Schema Canonum Libri I, De Normis Generalibus» del 1980 in preparazione alla revisione del CIC, prevede che: «…in exercitio eiusdem potestatis (regiminis), quatenus eodem ordine sacro non innititur, christifideles laici eam partem habere possunt quam singulis pro causis auctoritas Ecclesiae suprema ipsis concedit».

A parte il fatto che il Can. 126 è molto controverso nella sua formulazione perché sembra quasi insinuare che la «potestas regiminis» possa esistere anche indipendentemente dall’ordine (rompendo così l’unità della «potestas sacra»)[38], ci si può comunque chiedere che cosa voglia dire che i laici possono partecipare non al potere in quanto tale, ma all’”esercizio” del potere specifico del sacerdozio ministeriale. Si potrebbe forse intendere come una partecipazione estrinseca al potere del ministero ordinato e, di conseguenza, come una ulteriore forma di partecipazione all’apostolato gerarchico diverso da quella ipotizzata per l’Azione Cattolica.

I laici potrebbero così partecipare non solo a quella parte del ministero esercitato storicamente dalla gerarchia, ma che per sua natura non appartiene esclusivamente ad essa, perché non deriva in quanto tale dall’ordine, ma anche, estrinsecamente, all’esercizio di quel ministero che per sua natura è inscindibile dall’ordine. La teologia non ha ancora spiegato come questo sia possibile. È comunque evidente che in tutti e due i casi si tratta di un apostolato particolare ad esercitare il quale non può essere chiamata la totalità del laicato, a meno di volerlo clericalizzare in massa.

La distinzione di qualità e la reciprocità fondamentale tra sacerdozio comune e ministeriale rischiano di essere sovrapposte e confuse in nome di una artificiale esaltazione delle funzioni ecclesiali assumibili anche dai laici. Il rischio è tanto più grande per l’incapacità dimostrata fino ad oggi dalla teologia nel valutare sinteticamente il rapporto esistente tra i due elementi con i quali il Vaticano II ha definito lo stato laicale: la partecipazione ai «tria munera» e l’indole secolare.

cc) Un esempio molto importante che documenta l’incongruenza del persistere in una teologia dell’apostolato dei laici, che isola il laico dal suo contesto ecclesiale più ampio – quello del sacerdozio comune – , è dato, nel documento della CEI, dalla figura dell’assistente o del consulente ecclesiastico e dalla problematica inerente alla sua nomina (Nr. 21/c).

Nella figura di questo sacerdote il cui compito è quello di essere garante presso il vescovo della “piena comunione ecclesiale” e del “positivo raccordo” pastorale (Nr. 21/c), emerge il dualismo tra chierici e laici, insito alla teologia del laicato, propria anche al Documento. Ne è la prova il fatto che il rapporto dell’autorità con i movimenti “laicali” è affrontato in modo estrinseco e non dall’interno degli stessi.

Al di là delle sue intenzioni e della sua buona volontà il prete, prescelto dal vescovo – e che i movimenti devono accettare come condizione “sostanziale” del riconoscimento – , è collocato in una situazione ambigua. Arrischia, infatti di non riuscire a far proprio il carisma della realtà associativa cui è stato inviato, per cui invece di essere un fattore privilegiato di comunione e di “raccordo” di questa con il vescovo, può diventare un diaframma fra questi e l’associazione. Anche il caso contrario è possibile: l’assistente è a tal punto assorbito dal movimento da non poter più offrire al vescovo quelle garanzie per cui, secondo la logica della “Nota Pastorale”, è stato nominato.

Una teologia dell’apostolato ecclesiale, volta più a riconoscere la fondamentalità, per la costituzione della Chiesa, del sacerdozio comune a tutti i fedeli, che a isolare il problema dei laici, perché più tesa a sottolineare la reciprocità – pur nella diversità qualitativa dei rispettivi ministeri – che l’alternativa tra i chierici e i laici, permetterebbe di valorizzare meglio i presbiteri già coinvolti con il carisma delle realtà associative per la scelta vocazionale.

Come per i fedeli esiste una legittimazione all’apostolato ecclesiale in forza del battesimo e quindi prima di ogni riconoscimento formale e di ogni classificazione giuridico organizzativa, così, anche i presbiteri possono essere collaboratori del vescovo prima o anche senza ricevere un incarico specifico (rispetto al movimento cui partecipano), oltre a quello che già svolgono in forza della «missio canonica», che li costituisce membri del presbiterio. Infatti, l’adesione a un gruppo, ad una associazione o la un movimento non fa perdere, di per sé, ai presbiteri la loro specifica identità, che è quella di essere collaboratori del vescovo diocesano. Essendo membri del presbiterio e come tali già in comunione con il vescovo, quest’ultimo è in grado di valutare proprio attraverso la loro opera pastorale all’interno di un movimento, l’ecclesialità dello stesso. Ciò non significa negare al vescovo il diritto di deputare presso un movimento un presbitero, quando tale nomina si rivelasse necessaria per permettere al vescovo di conseguire una maggiore conoscenza e comprensione di questa realtà, oppure quando un movimento non offrisse da solo tutte le necessarie garanzie. Anche in questo caso, però, il carisma proprio del movimento, quando esistesse, dovrebbe essere rispettato, perché il presbitero così inviato non dovrebbe avere come compito quello di assumere o di gestire il movimento dall’interno, come la “Nota Pastorale” (Nr. 21) lascia intendere, ma solo quello di valutarne lo spessore ecclesiale.

dd) La Nota Pastorale distingue tra il discernimento e il riconoscimento giuridico delle realtà associative. Il discernimento consiste nella verifica, da parte della gerarchia, dell’esistenza nello specifico dei criteri oggettivi di ecclesialità previsti dal Documento stesso (Nr. 8-14). Il riconoscimento invece consiste nella verifica della attitudine dello stesso ad avere uno “speciale rilievo nell’organismo ecclesiale” o un “particolare collegamento” con la gerarchia (Nr. 15 e 18).

Le ragioni per cui viene richiesta un’ulteriore verifica per il riconoscimento, oltre a quella del discernimento, non sono stringenti. Tradiscono comunque il fatto che l’Azione Cattolica è considerata dalla “Nota Pastorale” come l’apice supremo di ecclesialità delle realtà associative, verso il quale tutte dovrebbero tendere e in rapporto al quale tutte dovrebbero conformarsi. In effetti queste ragioni tradiscono una certa sfiducia atavica della gerarchia verso le forme associative che non assumono le modalità proprie di esistenza dell’Azione Cattolica, quasi che solo un riconoscimento ufficiale dell’autorità, che consacri anche giuridicamente l’attività pastorale delle associazioni (fondata oltretutto sul sacerdozio comune), possa conferire loro la vera legittimazione ecclesiale.

La «forma mentis» legittimista propria all’ambito politico non è certamente estranea a questo modo di affrontare la realtà ecclesiale. Ciò è tanto più sorprendente poiché il riconoscimento non coincide affatto con il conferimento della personalità giuridica e di conseguenza con la qualifica introdotta dal progetto per la nuova codificazione, di associazione “pubblica”.

Potrebbe essere opportuno distinguere tra il discernimento e il riconoscimento, se i due momenti fossero intesi, seguendo la loro struttura naturale, come le due fasi di uno stesso ed unico atto. Il discernimento, infatti, è per sua natura un processo informativo interno all’autorità stessa, in vista di formarsi il giudizio necessario al riconoscimento. Il secondo, invece, è un atto amministrativo primariamente rivolto verso l’esterno. Esso ha come interlocutore sia la realtà associativa presa in considerazione, sia la Chiesa particolare in quanto tale. In realtà però il discernimento è già fatto giocare dalla “Nota Pastorale” come prima forma di riconoscimento verso l’esterno.

Sarebbe più consono ad una adeguata valutazione della funzione e dell’importanza costituzionale del sacerdozio comune nella Chiesa ammettere che dall’esito positivo del discernimento nasce una aspettativa legittima di riconoscimento, almeno per quelle associazioni che lo desiderassero e lo chiedessero. La negazione di questa aspettativa legittima coincide di fatto con un misconoscimento della vocazione ecclesiale diretta e propria dei fedeli.

Se si prescinde dai requisiti formali (Nr. 20) richiesti per il riconoscimento – che tuttavia non sono esenti da interrogazioni possibili, come quella circa l’obbligo di fare una scelta tra il carattere personale o territoriale dell’attività – l’impressione è che la “Nota Pastorale” faccia dipendere il carattere di più approfondita ecclesialità dal tipo di rapporto preferenziale che i movimenti intrattengono con la gerarchia. La vecchia tematica – per altro già criticata da un noto teologo italiano[39] tendente a far coincidere la maggiore ecclesialità delle Chiese particolari con la loro maggiore “vicinanza” a Roma, riemerge con tutta la sua fragilità, quasi che gli aspetti soggettivi e formali potessero prevalere su quelli oggettivi e materiali.

Anche in questa seconda fase non si può non constatare che l’intenzione profonda della logica propria del Documento è quella di far coincidere il riconoscimento come un passo ulteriore verso il modello dell’Azione Cattolica, postulata come paradigma non solo dell’associazionismo, ma della partecipazione stessa, dei fedeli, ai «tria munera» di Cristo.

La separazione tra le due fasi del discernimento e del riconoscimento diventa perciò problematica. Per il riconoscimento non dovrebbero essere necessari altri criteri “sostanziali” oltre a quelli già richiesti per il discernimento, dove per altro, il criterio dei “frutti spirituali” – come ha giustamente osservato un altro noto teologo italiano[40] -dovrebbe, “evangelicamente”, prevalere su tutti gli altri.

Così come il Documento della CEI lo configura, il riconoscimento apre invece un secondo grado di indagine, con la richiesta non solo di nuovi elementi “formali” (Nr. 20) – comprensibili dal momento che il riconoscimento non è dato «motu proprio» dalla gerarchia, ma solo su domanda – , ma anche di nuovi elementi “sostanziali” che arrischiano di vanificare quelli già esaminati in sede di discernimento. L’indagine per il riconoscimento sembra così sminuire l’obiettività dei criteri stessi. Anzi, lascia affiorare le premesse per un giudizio puramente soggettivo dei pastori, per sua natura incline a trasformarsi non solo in potere discrezionale, ma in arbitrio.

Questo slittamento verso il giudizio soggettivo è mal celato dall’affermazione, oggettivamente sostenibile, del Nr. 24, secondo cui “nessun vescovo… può essere obbligato a riconoscere un’associazione”, dal momento che “non tutto ciò che è buono è anche opportuno”.

Il criterio dell’opportunità, introdotto dal Documento come ultima garanzia della libertà e dell’autorità del vescovo, qualora fosse invocato per non concedere il riconoscimento, domanderebbe di essere subordinato, a sua volta, a criteri oggettivi. Nel caso in cui questi non fossero rispettati dovrebbe valere il principio che il rifiuto può avere effetto solo provvisorio e interlocutorio. Nel caso contrario si aprirebbe la via del ricorso all’istanza superiore.

Senza l’ammissione che, dall’esito positivo della procedura di discernimento, dovrebbe nascere una aspettativa legittima al riconoscimento, configurabile dal profilo giuridico e per analogia ad altre situazioni canoniche, come vero e proprio «ius ad rem», sarebbe difficile sfuggire all’impressione che la “Nota Pastorale” intenda perpetuare una concezione fortemente verticista del rapporto tra Pastori e fedeli.

ee) Anche l’ultima osservazione non concerne solo la “Nota Pastorale” in quanto tale, ma un problema ecclesiologico di fondo.

Il Documento della CEI distingue tra movimenti di ambiente e quelli che lavorano all’interno della struttura parrocchiale. Pur senza assumere il rischio di esprimersi con tutta chiarezza esso impone alle associazioni una scelta: o l’ambiente o la parrocchia (Nr. 20/c). Ciò fa venire alla ribalta il problema della territorialità, in quanto principio costituzionale della Chiesa. Le tensioni o i conflitti ricorrenti tra la struttura territoriale della parrocchia e quella personale dei movimenti sono, infatti, l’obiezione più corrente fatta valere contro quest’ultimi.

Non essendo legati alla struttura territoriale della Chiesa locale, i movimenti investono non solo gli ambienti (scuola, lavoro, famiglia ecc…) ma anche le attività pastorali delle parrocchie. Che questo dato di fatto possa essere percepito come elemento di disturbo non dipende solo dal rapporto soggettivo – eventualmente negativo – che vescovi e parroci possono avere nei confronti dell’uno o l’altro movimento, ma, oltre che dagli inevitabili errori dei movimenti stessi, anche da un elemento oggettivo: il fatto che spesso la territorialità è ritenuta come principio sacro e intoccabile della costituzione della Chiesa. Non mancano infatti coloro che affermano che la parrocchia ha origine nel «ius divinum» o è «quasi iuris divini».

In realtà la territorialità non e un criterio imposto dal carattere necessariamente locale dell’eucaristia. È evidente che l’eucaristia non può essere celebrata se non in un determinato luogo: nel tempo e nello spazio. Così intesa la nozione di località ha una valenza filosofica. La territorialità per contro è un principio di natura squisitamente politico.

La struttura territoriale si è imposta nella Chiesa, quasi dagli inizi, irreversibilmente e non è possibile contestarne la legittimità. Tuttavia non è mai stato il criterio esclusivo della costituzione della Chiesa, proprio perché non appartiene all’essenza del «ius divinum» su cui essa è fondata.

Da sempre la Chiesa ha riconosciuto l’esistenza di Chiese particolari (o Diocesi) a carattere personale. I riti orientali, infatti, non sono necessariamente organizzati su basi territoriali. Sullo stesso territorio possono coesistere (non meno pacificamente e non meno litigiosamente che nella Chiesa latina, a carattere territoriale), più vescovi, preposti a riti o Chiese particolari diversi.

Neppure il diritto canonico latino esclude il criterio personale; infatti, il Can. 8 par. 2 del CIC del 1917 stabilisce solo una presunzione semplice in favore del carattere territoriale delle leggi, ammettendo così l’esistenza di leggi personali.

D’altra parte, né l’Art. 11 del Decreto «Chtistus Dominus» né i Can. 335 e 336 del progetto per la nuova codificazione, definiscono o descrivono la Chiesa particolare e la Diocesi sulla base del criterio della territorialità[41].

Non si può evidentemente negare che il principio della territorialità presenta molti vantaggi, non solo di ordine amministrativo, ma anche di fondo, come quello di costringere i fedeli all’oggettività di rapporto imposto dalla convivenza su uno stesso territorio. Ma a parte il fatto che l’oggettività di rapporto non può essere inculcata solo e primariamente a partire dai confini territoriali, ci si deve rendere conto che all’interno del fenomeno dell’urbanizzazione moderna il criterio territoriale diventa sempre meno praticabile.

Comunque non può mai essere eretto a principio assoluto, soprattutto quando il problema dovesse essere quello di non “estinguere” lo Spirito.

Nella sua analisi degli elementi costitutivi dei movimenti moderni, rispetto a quelli medioevali, Mons. Neves[42] ha posto come prima caratteristica quella della internazionalità. Ciò significa che non sarà facile anche in avvenire conciliare l’internazionalità dei movimenti con la territorialità delle parrocchie. Si tratta comunque di un problema che anche nella Chiesa latina bisognerà saper affrontare -come del resto è avvenuto e avviene nelle migrazioni grazie alle parrocchie linguistiche o nazionali – senza dogmatismi[43].

 

[1] Cfr. E. Corecco, Sinodalità: Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di G. Barbaglio e S. Dianich, Roma 1977, 1489 ss.

[2] LG 14,1.

[3] LG 10,2 (prima frase).

[4] Su tutta questa problematica cfr. H. Urs von Balthasar, Christlicher Stand, Einsiedeln 1977, 145-202.

[5] Phil, 2, 6-11.

[6] La legge nuova, infatti, si diversifica da quella antica perché non è più extrinsecus posita cioè imposta come intimazione all’uomo peccatore, ma intrinsecus data, contemporaneamente alla grazia che infonde la forza per adempierla nella gioia e nella libertà dell’amore. S. Tommaso, tenendo conto dei testi paolini che più tardi saranno lasciati in ombra da Lutero, stabilisce addirittura un’identità tra la “legge” e il “vangelo”, usando la formula sintetica della nova lex evangelii: Lex nova est ipsa gratia (seu ipsa praesentia) Spiritus sancti, quae (qui) datur Christi fidelibus (S. Th. I-II, q. 106, a. I). La grazia è comunque legge solo in senso analogico perché l’essenza della nuova legge non sta più formalmente nel carattere legale, ma nel fatto di essere donata come grazia, allo stesso modo della fede e dello Spirito Santo. Nel definire Cristo come “grazia” la teologia cattolica ha inteso sottolineare il fatto che il processo della giustificazione trasforma interiormente l’uomo. La grazia è concepita come realtà ontologica comunicata all’uomo per donargli la forza di adempiere la nuova legge, senza abolire quella antica. Essa segna una progressione dall’imperfetto al perfetto, dalla legge naturale a quella soprannaturale. Non è casuale il fatto che mentre Lutero ha ravvisato nella tematica “legge e vangelo” il punto centrale dell’economia della salvezza, la tradizione cattolica aveva dato la preferenza alla formula “legge e grazia” – più connaturale alle inclinazioni profonde della teologia latina – in cui aveva rielaborato il tema neotestamentario, che nella teologia paolina era emerso nella provocazione dialettica del binomio “legge e Cristo”. Nel definire Cristo come “vangelo” Lutero, che si muove dentro l’orizzonte nominalista e volontarista del tardo medio evo, ha voluto sottolineare con forza la non imputatio del peccato. La grazia è solo una presenza estrinseca, anche se salvifica, di Cristo nell’uomo. Sostituendo il binomio “legge e grazia” con “legge e vangelo” Lutero, per il quale la “suprema arte della cristianità” consisteva nel saper distinguere tra i due elementi, ha voluto dar corpo a una duplice protesta: quella contro la Chiesa di Roma, per aver questa sepolto la parola e la legge di Dio sotto la parola e il diritto della Chiesa, e quella contro la teologia scolastica, per aver questa sostituito l’idea della giustificazione in forza della sola giustizia di Dio con una giustificazione in virtù anche delle opere meritorie compiute sotto la legge con l’aiuto della grazia creata santificante. Lutero non ammette che l’economia della sola gratia possa essere snaturata a sistema religioso fondato ancora sulla legge, dove le opere della legge naturale, anche se compiute con l’aiuto della grazia, sono richieste per la giustificazione. Le opere della legge naturale non sono buone in se stesse: esse sono buone solo in quanto compiute in obbedienza a Dio che ci ha salvati; quindi non trasformano interiormente l’uomo, ma servono solo a rendere palese agli altri il miracolo della remissione dei peccati da parte di Dio. La preoccupazione dominante della teologia agostiniano-tomista è stata invece soprattutto quella di stabilire sia l’unità tra i due elementi che la continuità dei contenuti tra la legge antica e quella nuova. La legge antica non si contrappone a quella nuova poiché i suoi contenuti essenziali rimangono anche sotto il regime della grazia; Cfr. E. Corecco, Teologia del Diritto Canonico: Nuovo Dizionario di Teologia, o.c., 1722-1723.

[7] LG, 10,2; 18,1.

[8] LG, 10,2.

[9] La divisione della natura umana, di cui parla S. Paolo quando afferma che l’uomo sposato è diviso, dipende dal fatto che, grazie al sacramento, solo il rapporto di indissolubilità, già intrinseco nel rapporto tra l’uomo e la donna nello stato di giustizia originale, è stato restaurato. Gli elementi costitutivi e complementari dello stato di giustizia originale, vale a dire la fecondità nella verginità (riemerso nella verginità della Madre di Dio, nata senza peccato originale), il dominio sulla realtà creata senza la proprietà privata e l’obbedienza nella totale libertà, hanno perduto la capacità che pur avevano di offrire in quanto tali, senza l’appoggio della fecondità fisica del matrimonio, un’alternativa reale e autonoma all’esperienza umana nella storia. Essi non costituiscono infatti una restaurazione della natura nello stato di peccato, ma una memoria dello stato di giustizia originale. Anche l’istituzione dei consigli evangelici non può essere spiegata facendo semplicemente ricorso a una scelta volontaristica di Cristo. In quanto memoria dello stato di giustizia originale e segno profetico dello stato della natura umana nella visione beatificata, essi costituiscono l’elemento di continuità tra i due poli della storia dell’umanità: lo stato originale e lo stato finale, in cui lo stato di giustizia originale sarà restaurato e superato dalla visione beatifica; Cfr. E. Corecco, Il sacramento del matrimonio: cardine della costituzione della Chiesa: Strumento internazionale per un lavoro teologico: Communio Nr. 51 (1980) 14; cfr. anche von Balthasar, o.c., 128-136.

[10] Cfr. E. Corecco, La sacra potestas e i laici: Studi Parmensi, 28 (1980) 1 ss. (estratto).

[11] La distinzione terminologica (usata da von Balthasar) tra elemento oggettivo e soggettivo, attivo e passivo può essere discussa. Potrebbe dar adito a malintesi se fosse interpretata nel senso che solo il sacerdozio ministeriale appartiene alla istituzione della Chiesa. In realtà, come vedremo in seguito, tutte e due i sacerdozi, questo ministeriale e quello comune, fanno parte della dimensione istituzionale della Chiesa, ma in modo formale diversa da cui deriva la loro funzione diversa – che la Lumen Gentium ha cercato di caratterizzare, sia nel Cap. II all’Art. 10, 2 (seconda frase), sia nei Cap. III e IV a proposito della partecipazione ai tria munera, di Cristo dei ministri ordinati (Art. 25, 26, 27) e dei laici (Art. 34, 35, 36).

[12] Il progetto della nuova codificazione e la Lex Ecclesiae Fundamentalis, sono citati in questo articolo secondo i testi stampati del 1980, rispettivamente del 1978.

[13] Malgrado mezzo secolo di riflessione teologica (cfr. per es. E. Schillebeeckx, Definizione del laico cristiano: La Chiesa del Vaticano II, a cura di G. Baraúna, Firenze 1965, 972 ss.) e malgrado il contributo dato dal Concilio, che ha proposto due elementi circa la natura teologica dei laici, quello della loro partecipazione (suo modo) ai tria munera, di Cristo e quello della loro indoles saecularis, (LG, 31, 2 e 3), la questione della definizione teologica del laico rimane aperta. Infatti, soprattutto circa la natura teologica o sociologica della indole secolare non esiste ancora accordo tra gli autori. Per la natura sociologica è per es. K. Mörsdorf (Die Zusammenarbeit von Priestern und Laien: Veröffentlichung der katholischen Akademie der Erzdiözese Freiburg i. Br., Nr. 11, Karlsruhe 1968, 13 ss.); per la seconda interpretazione si orienta invece von Balthasar (Der Christlicher Stand, o.c. 203 ss.). Sulla questione cfr. anche F. Daneels, De subiecto officii ecclesiastici attenta doctrina Concilii Vaticani II. Sunt-ne laici officii ecclesiastici capaces?, Roma 1973. Il secondo aspetto del problema è quello della possibilità che ai laici possa essere delegata la potestas sacra. Il problema è particolarmente acuto nei paesi dell’Europa centrale, dove da un decennio la figura del teologo laico e diventata determinante per tutta la vita ecclesiale, soprattutto in seguito agli interventi di K. Rahner con la tesi secondo cui i laici che assumono uffici ecclesiastici stabili cessano di appartenere allo stato laicale per entrare in quello ecclesiastico. La Chiesa insisterebbe nel non volerli riconoscere come appartenenti al clero per non dover cedere sulla questione del celibato. Questa tesi del Rahner presuppone evidentemente che dalla potestas sacra si possa isolare il potere di giurisdizione e che questo possa esser delegato anche ai laici; su tutta questa problematica cfr. Corecco, La “Sacra potestas” e i laici, 1.c., 1 ss.

 

[14] Se il matrimonio non fosse stato elevato a sacramento il rapporto uomo-donna rimarrebbe sottratto alla restaurazione specifica della Grazia: troppo corrotto per essere ancora capace di svolgere la funzione culturale assegnatagli da Dio per il destino dell’umanità. Senza il sacramento del matrimonio anche la Chiesa rimarrebbe disincarnata e in posizione estrinseca rispetto all’esperienza storica dell’umanità, entro la quale il matrimonio ha conservato, sia pure in modo non esclusivo, la centralità di significato ricevuto nell’economia della creazione. La Chiesa diventerebbe in questo modo una semplice sovrastruttura rispetto alla storia reale dell’uomo, poiché non la compenetrerebbe con l’efficacia della Grazia in uno dei suoi elementi imprescindibilmente costitutivi. La motivazione ultima dell’elevazione del matrimonio a sacramento deve essere perciò individuata nella natura e funzione storica del matrimonio stesso. Senza il presupposto della fecondità fisica del matrimonio l’umanità si estinguerebbe. Alla Chiesa verrebbe così a mancare il presupposto naturale della propria esistenza, anche se la sua crescita numerica non avviene in forza del sacramento del matrimonio, ma in forza del dono della fede, dato individualmente e costantemente elargito dallo Spirito. Nel sacramento del matrimonio – in cui si realizza la Chiesa – la natura (deleta) e la soprannatura trovano il punto di sutura, compenetrandosi nell’unità; Cfr. Corecco, Il sacramento del matrimonio: cardine della costituzione della Chiesa, 1.c. 75.

[15] Cfr. von Balthasar, Christlicher Stand, o.c., 237-266.

[16] UR 19, 1-2, 4.

[17] UR 22,3.

[18] Sulla impossibilità di riconoscere ai diritti del cristiano nella Chiesa la qualificazione della “fondamentalità” cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Aspetti metodologici della questione: I Diritti Fondamentali del Cristiano nella Chiesa e nella Società, Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico Fribourg (Suisse) 6-11.X.1980, a cura di E. Corecco. – N. Herzog – A. Scola, Fribourg Suisse – Freiburg i. Br. – Milano 1981, 1207-1234.

[19] G. Colombo, La teologia della Chiesa locale: La Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970, 30-33.

[20] G. Söhngen nel suo libro (Symbol und Wirklichkeit im Kultmysterium, Bonn, 1937, 18) ha colto il problema con questa formula significativa: Vom Worte wird das Sakrament mit der Fülle machtiger Geistlichkeit und vom Sakrament wird das Wort mit der Fülle geistlicher Wirklichkeit erfüllt.

[21] Cfr. sopra p. 165.

[22] LG, 12,1.

[23] Pur condividendo profondamente l’idea di von Balthasar (Christlicher Stand, o.c., spec. 294-314) della reciprocità essenziale degli stati perfectionis, sacerdotalis e laicalis, ci sembra tuttavia che da questo rapporto di reciprocità, essenziale alla struttura costituzionale della Chiesa, non si possa escludere lo stato matrimoniale, in quanto elemento autonomo rispetto a quello laicale, dal momento che quest’ultimo non sfocia necessariamente in quello matrimoniale. Solo così è possibile valutare pienamente, senza ombra di pessimismi, la funzione salvifica ed ecclesiologica del sacramento del matrimonio in quanto elemento essenziale della costituzione della Chiesa. Questa sua valenza eccesiologica specifica è stata colta dal Vaticano II quando ha tentato di definire il matrimonio (a differenza di tutti gli altri stati) velut Ecclesia domestica, applicando cioè al matrimonio la stessa categoria “Chiesa” con la quale viene definita la realtà stessa in cui la natura e la soprannatura continuano a unirsi indissolubilmente nella storia. L’appartenenza, in quanto tale, di tutti e quattro gli stati alla struttura costituzionale della Chiesa non impedisce che ognuno di essi goda però di una priorità strutturale sugli altri, in rapporto al diverso livello di inserimento all’interno della costituzione stessa. Il primato dello status perfectionis su quello laicale e sacerdotale dipende dalla diversa radicalità con cui esso è chiamato ad attuare la vocazione salvifica; il primato dello stato laicale (in quanto sfocia nello stato matrimoniale), rispetto al sacerdozio e ai consigli evangelici, dipende dalla funzione insostituibile che esso ha in ordine alla presenza della Chiesa nel mondo ed alla realizzazione del mandato culturale che essa è chiamata a realizzare nella storia assieme a tutta l’umanità; il primato dello stato matrimoniale rispetto a quello laicale ed allo status perfecionis (e in certa misura anche dello stato sacerdotale), dipende dal fatto che esso, in quanto sacramento distinto da quello del battesimo, è il punto strutturale obbligatorio di convergenza dell’economia della creazione con l’economia della redenzione.

[24] Cfr. la III Parte del Libro II De Populo Dei.

[25] Cfr. sopra, nota 21.

[26] Cfr. sopra, nota 21.

[27] Cfr. I Convegno Internazionale “Movimenti nella Chiesa”, cfr. sopra, Titolo*.

[28] Cfr. sopra, nota 21.

[29] Citata secondo l’edizione della Collana Documenti CEI, Nr. 21.

[30] Le corporazioni medioevali, a differenza delle associazioni moderne di origine liberale-borghese che rispecchiano l’attuale cultura individualistica, non erano settoriali, ma accoglievano l’uomo in tutti i bisogni della sua vita, spirituale e materiale, accompagnandolo dalla nascita alla morte; cfr. O. von Gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, I Berlin 1968, 227-228; J.M.-Y. Congar, Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet: RHDFE 36 (1968) 222-224.

[31] Tenuta al I Convegno Internazionale “Movimenti nella Chiesa”, cfr. sopra, Titolo*.

[32] Can. 686.

[33] Can 693, § 4.

[34] LEF Can. 15; De Populo Dei, Can. 270 § 1; Cfr. sopra, nota 18.

[35] I diritti fondamentali dei cristiani e l’esercizio dei munera docendi et regendi: Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, o.c. 221-240.

[36] Il Documento parla di associazioni, movimenti e gruppi “che vengono scelti in modo particolare” dall’autorità ecclesiastica “per essere più strettamente unite al suo ufficio apostolico…”, Nr. 25.

[37] Cfr. H. Urs von Balthasar, Der Laie und der Ordenstand, Freiburg i. Br. 1949.

[38] Su questo problema cfr. Corecco, La “potestas sacra” e i laici, 1.c. passim.

[39] Cfr. G. Colombo, La teologia della Chiesa locale, l.c., 38.

[40] Cfr. Inos Biffì, nel “Il Sabato” n. 29 del 18.7.1981; cfr. anche Mons. Giacomo Biffi, ibid., n. 42 del 17.10.1981.

[41] Nel progetto per la nuova codificazione l’idea della territorialità è insinuata dalla distinzione fatta nel Can. 335 § 1 e 2 tra la prelatura territoriale e quella personale. Il fatto però che la prelatura territoriale sia equiparata alla Chiesa particolare (nisi aliud constet), non significa che quest’ultima sia per definizione territoriale.

[42] Cfr. sopra, nota 21.

[43] Una polemica si è accesa attorno alla notizia secondo cui l’Opus Dei avvalendosi dei testi del Vaticano II (PO 10, 2; AdGD 20, 7), avrebbe chiesto di costituirsi in prelatura personale. Una delle prime reazioni è stata quella del Prof. W. Aymans di Monaco di Baviera (cfr. Die ganze Welt als Diözese für das Opus Dei? nella Frankfurter Allgemeine n. 290 del 13.12.1979) che ha giustamente messo in evidenza la diversità della prelatura personale, così come è stata concepita dal Vaticano II, con una Chiesa particolare in quanto protio Populi Dei, in cui si aggregano non solo chierici, ma anche laici. L’obiezione più forte contro la costituzione di una diocesi a struttura personale viene dal fatto che in questo caso, per appartenere alla Chiesa verrebbe richiesta, oltre alla fede e il battesimo, anche l’adesione ad una spiritualità specifica. Se ciò non fosse già il caso normale di tutti i cristiani, l’obiezione sarebbe decisiva. In realtà ci si deve rendere conto che non solo l’appartenenza a un rito orientale implica l’adesione ad una spiritualità e ad una cultura, ma anche per l’appartenenza alla Chiesa latina si verifica lo stesso fenomeno. Il fatto è che la fede e il battesimo non esistono allo stato puro, ma sempre come realtà incarnate in un rito e in una spiritualità. Ne consegue che l’ultima parola in sede teorica su questo problema non è stata ancora detta. D’altra parte è evidente che si tratta di un problema che dal profilo pratico non può essere risolto senza tenere conto delle implicazioni che avrebbe all’interno della politica generale della Chiesa.

 

2. Riflessione giuridico-istituzionale su sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale

 

1. L’unicità del sacerdozio di Cristo radice dell’unità e della diversità tra sacerdozio comune e ministeriale

1. La semplice affermazione teologica secondo cui il sacerdozio ministeriale ha come funzione specifica di rappresentare Cristo in quanto capo del Corpo Mistico, che è la Chiesa, mentre il sacerdozio comune ha come compito di rappresentare Cristo secondo una ragione formale più generica – che la teologia per lo più non si preoccupa di definire – pur essendo in se stessa esatta, non è in grado, per il suo carattere pragmatistico, di dare una spiegazione plausibile all’origine di questi due modi diversi di rappresentazione del Cristo.

Anche la constatazione che il sacerdozio ministeriale è conferito con il sacramento dell’ordine, mentre quello comune – unica forma cui partecipa anche il laico – ha la sua origine nel battesimo, non permette di risalire alla causa ultima della differenza esistente tra gli effetti sacramentali dell’ordine e del battesimo. E una diversità che può essere indotta, ma ancora una volta non sufficientemente giustificata, anche dalla constatazione comune a tutta la tradizione teologica, che il battesimo e l’ordine sono due fonti autonome di partecipazione al sacerdozio di Cristo. Né l’ordine è lo sviluppo sacramentale del battesimo (e della cresima), né il battesimo è una derivazione del sacramento dell’ordine.

Che il sacerdozio comune di tutti i fedeli non consista in una partecipazione al sacerdozio ministeriale in quanto tale, ma in una diretta partecipazione al sacerdozio di Cristo, è evidenziato dal fatto che il sacramento dell’ordine può essere conferito solo dopo la recezione del battesimo[1], dichiarato dal Vaticano II «ianua» degli altri sacramenti[2*].

Siccome dall’esame e dal confronto comparato degli elementi costitutivi del battesimo e dell’ordine non è possibile dedurre con certezza la ragione discriminante della differenza esistente tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, diventa inevitabile, per scoprirla, risalire alla natura stessa dell’unico sacerdozio di Cristo, cui rendono partecipi sia il battesimo che l’ordine[3].

2. In effetti nel sacerdozio di Cristo possono essere distinte, secondo Hans Urs von Balthasar, due componenti formali diverse: una soggettiva e un’altra oggettiva[4].

Nell’essenza della sua struttura personale Cristo è colui che si dona totalmente al Padre nell’amore, rinunciando a tutto quanto gli appartiene in proprio. Può rinunciare al privilegio della divinità, che gli appartiene per generazione, perché può depositarla presso il Padre al momento di entrare nella storia; può rinunciare all’umanità, che ha assunto, perché può perderla con la morte sulla croce[5]. Per amore del Padre Cristo può rinunciare perfino, come sulla croce, alla certezza di essere da Lui assistito ed accompagnato nel momento estremo della morte.

Nell’amore di Cristo al Padre, che tocca l’apice di spoliazione nell’obbedienza totale alla sua volontà, si realizzano i due aspetti fondamentali del suo sacerdozio: quello soggettivo, per cui Cristo è ad un tempo colui che offre al Padre tutto se stesso, in forza dell’amore che lo genera fin dall’eternità; e quello oggettivo, per cui Cristo si lascia sacrificare dal Padre sulla croce, come vittima immolata per l’espiazione di tutti i peccati del mondo.

La perfezione assoluta dell’amore di Cristo per il Padre deriva dall’unità perfetta esistente nella sua persona tra colui che si offre fin dall’eternità in sacrificio di amore e colui che viene sacrificato nel tempo come vittima.

Questo secondo aspetto oggettivo, di obbedienza «espiatoria» alla legge, del sacerdozio di Cristo, non è aggiunto però dall’esterno in modo accidentale come nel sacerdozio del VT, ma costituisce, assieme al primo aspetto (quello soggettivo dell’amore), l’essenza stessa dell’unità della persona di Cristo. Dal profilo formale il sacerdozio di Cristo non si esaurisce quindi nell’elemento soggettivo dell’amore verso il Padre, poiché questo stesso amore assume sulla croce anche la modalità oggettiva della totale sottomissione nell’obbedienza alla sua volontà.

Benché originata, come vertice espressivo dell’amore del Figlio verso il Padre, questa obbedienza assoluta assume formalmente anche la modalità legale che aveva già caratterizzato il sacerdozio del VT, in cui l’espiazione dei peccati del popolo era considerata il frutto del sangue di molte vittime sparse in nome della Legge. Il sangue di Cristo sulla croce, segno dell’obbedienza oggettiva del Figlio verso l’autorità del Padre, prefigurata dall’autorità sacrificale di Abramo su Isacco, è sparso invece per amore, un’unica volta, sulla croce per la remissione di tutti i peccati dell’umanità. Cristo si lascia sacrificare dal Padre in assoluta ed estrema obbedienza alla Sua volontà, fino all’esperienza di sentirsi abbandonato da Lui sulla croce. Compiendo questo gesto estremo Cristo ha affermato davanti al mondo l’autorità suprema del Padre, dando così origine al sacerdozio del NT.

Il superamento rispetto al sacerdozio del VT consiste nel fatto che Cristo, pur assumendo formalmente anche il ruolo della vittima sacrificata, consuma il gesto supremo dell’obbedienza oggettiva e legale compiendolo non in nome della Legge, ma in forza del suo amore per il Padre. Ciò esclude che la nuova economia della salvezza possa essere ancora considerata come un’economia della Legge[6].

Ogni altra realizzazione del sacerdozio del NT può essere solo una partecipazione e perciò un’imitazione del sacerdozio assoluto ed eterno di Cristo. Mentre il sacerdozio del VT si caratterizzava per la disgiunzione della modalità attiva da quella passiva, per cui il sacrificante e il sacrificato non coincidevano nella stessa persona, in Cristo tutti e due gli elementi formali sono riuniti.

Tuttavia al momento del passaggio dal sacerdozio di Cristo a quello della Chiesa i due elementi, pur rimanendo strettamente complementari e non estrinseci, si distinguono ancora una volta. Conferendo la propria autorità alla Chiesa, Cristo dà ai fedeli la possibilità di vivere compiutamente, nell’obbedienza oggettiva, la dimensione formale soggettiva dell’amore.

La totalità della donazione soggettiva del cristiano a Cristo nell’amore è garantita, nella sua autenticità, dall’oggettività dell’obbedienza all’autorità del sacerdozio ministeriale che nella Chiesa svolge una funzione di servizio: quella di rappresentare Cristo come Capo in funzione dell’unità della Chiesa.

Affinché il cristiano – che partecipa alla dimensione soggettiva del sacerdozio di Cristo, in quanto è reso partecipe nel battesimo all’amore stesso del Figlio per il Padre – possa realizzare il proprio sacerdozio secondo tutta la radicalità postulata dall’amore, ha bisogno di un’autorità oggettiva ed esterna che sia legittimata a provocarlo concretamente e in modo imprescindibile come il Padre ha provocato il Figlio fino alla morte della croce. Per realizzare questo disegno Cristo ha conferito al sacerdozio ministeriale della Chiesa un’autorità che si esprime attraverso la «potestas sacra»[1].

La diversa partecipazione al sacerdozio di Cristo nel battesimo e nel sacramento dell’ordine trova quindi origine nella diversità formale secondo cui si realizza il sacerdozio di Cristo stesso.

L’unità perfetta in Cristo dei due elementi trova il suo riscontro analogico nel fatto che il sacerdozio comune dei fedeli, in quanto partecipazione all’aspetto formale soggettivo del sacerdozio di Cristo, continua a sussistere in colui che è reso partecipe, con il sacramento dell’ordine, anche del sacerdozio ministeriale, cioè dell’aspetto oggettivo e legale del sacerdozio di Cristo.

Il sacerdozio comune che costituisce il cristiano nello stato laicale, sia quando egli vive nel mondo, sia quando accetta la vocazione alla radicalità dell’amore nello «status perfectio- nis» – fondato sui consigli evangelici – ha bisogno dell’autorità del sacerdozio ministeriale che lo provoca, nella richiesta di obbedienza, all’oggettività dell’amore, per poter partecipare pienamente alla dimensione formale oggettiva del sacerdozio di Cristo.

3. L’essenziale diversità dei due sacerdozi, quello comune e quello ministeriale, sostenuta dalla Chiesa attraverso l’insegnamento del Vaticano II[8], risulta perciò originata dal fatto che nel NT l’unità perfetta tra il sacrificante e il sacrificato si realizza solo nella persona di Cristo. Nel sacerdozio partecipato da Cristo alla Chiesa i due elementi si trovano disgiunti non solo formalmente ma anche realmente (benché in modo solo parziale rispetto al sacerdozio del VT), per il fatto che esso, in forza della diversità strutturale del battesimo e dell’ordine, si realizza in persone diverse.

La disgiunzione è solo parziale (così da creare una sostanziale complementarietà e unità di fondo), sia perché il sacerdozio comune continua a sussistere come vocazione soggettiva all’amore perfetto anche in colui che è investito dal sacerdozio ministeriale, sia perché il sacerdozio ministeriale non avrebbe più senso nel NT se non esistesse il sacerdozio comune di tutti i fedeli. Il sacerdozio nel NT non è necessario per offrire il sacrificio per interposta persona come nelle religioni precristiane o in nome dei fedeli come nel VT, ma è necessario perché i cristiani possano offrire se stessi assieme al Cristo, nella piena oggettività dell’obbedienza al Padre.

Il sacerdozio comune, pur potendosi realizzare potenzialmente come espressione compiuta della partecipazione dell’amore di Cristo verso il Padre anche nel sacerdozio di tutti i fedeli, è garantito strutturalmente nella sua perfezione solo all’interno dello «status perfectionis», dove l’uomo non è più «diviso»[9]. Anche in questo stato, rimane tuttavia strutturalmente incapace di esprimere il secondo aspetto formale, quello dell’obbedienza legale del sacerdozio di Cristo. A differenza di Cristo, che è una sola sostanza con il Padre, il cristiano può realizzare l’obbedienza oggettiva solo in forza dell’intervento esterno di un’altra persona.

Questa è la ragione non solo del fatto che l’autorità della Chiesa è garantita in forza dell’«ex opere operatum», per cui prescinde ultimamente dalla santità personale di chi è investito dal sacerdozio ministeriale, ma anche del fatto che lo «status perfectionis» in quanto strutturato giuridicamente (ordini e congregazioni religiose) non si realizza come Chiesa particolare. Oltre a mancare del sacramento del matrimonio, manca anche della pienezza dell’ordine sacro, cioè dell’episcopato. Ciò lo rende radicalmente dipendente – al di là di ogni forma di esenzione – dall’autorità gerarchica della Chiesa particolare e universale.

La continuazione del sacerdozio comune anche in colui che è investito di quello ministeriale ha come scopo di sottolineare l’unità del sacerdozio stesso, ma anche di impedire che il ministro ordinato possa credersi dispensato dal realizzare nella sua persona l’esigenza dell’amore di cui è costituito il sacerdozio comune, come partecipazione all’aspetto formale soggettivo dell’amore di Cristo. D’altra parte se tutti i fedeli, in quanto tali, non partecipassero, nel sacerdozio comune, all’aspetto formale soggettivo del sacerdozio di Cristo, anche il sacerdozio legale o oggettivo non avrebbe più senso nel NT, poiché l’unico vero sacrificio e l’unica vera offerta, sia dal profilo attivo che passivo, è Cristo stesso. In quanto dedizione nell’amore, di cui ogni cristiano è capace, il sacerdozio comune nel NT non è più perciò solo opera dell’uomo. In forza dell’inserimento dell’uomo nel mistero di Cristo, attraverso il sacramento del battesimo, esso è prima di tutto un gesto di partecipazione all’unico ed esclusivo sacrificio compiuto da Cristo.

Il sacerdozio ministeriale ha come funzione specifica quella di rendere presente nella Chiesa l’aspetto formale oggettivo del sacerdozio di Cristo, attraverso il quale si manifesta nella storia l’autorità assoluta del Padre sul Figlio. A livello istituzionale questa autorità che dal Padre è data al Figlio e dal Figlio alla Chiesa opera nella «potestas sacra» di cui è investito il sacerdozio ministeriale[10].

Il laico, o il fedele in quanto tale, è investito in forza del sacramento del battesimo solo dell’aspetto soggettivo del sacerdozio[11].

4. Già nella persona di Cristo il sacerdozio soggettivo è primario rispetto al sacerdozio oggettivo e legale, essendo l’espressione dell’amore eterno e perfetto del Figlio per il Padre e quindi il fondamento dell’aspetto formale oggettivo stesso. L’obbedienza radicale, manifestata sulla croce dal Figlio all’autorità del Padre, ha infatti la sua genesi nell’amore con cui, fin dall’eternità, il Verbo è costituito come Figlio dal Padre da cui è generato.

Il sacerdozio comune dei fedeli non rappresenta perciò una forma minore di partecipazione al sacerdozio di Cristo rispetto al sacerdozio ministeriale, ma una partecipazione che, secondo il Concilio Vaticano II, si differenzia sostanzialmente da quest’ultimo, e che trova la ragione ultima della sua diversità nella diversità formale stessa esistente in Cristo tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo del sacerdozio. Il fatto che la diversità formale esistente in Cristo tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo si traduca a livello ecclesiale in una diversità sostanziale ha la sua spiegazione nella natura analogica della partecipazione del sacerdozio, sia comune che ministeriale, al sacerdozio di Cristo.

In quanto partecipazione ontologica all’amore eterno del Figlio per il Padre, mediata attraverso il «carattere» sacramentale del battesimo, il sacerdozio comune dei fedeli esaurisce in se stesso, sia pure in forma imperfetta, l’aspetto originante e primario (dal profilo formale) del sacerdozio di Cristo.

L’aspetto formale oggettivo non è comprensibile se non in rapporto all’elemento fondante soggettivo dell’amore eterno del Figlio per il Padre. Senza questo rapporto di unità e di dipendenza neppure il sacrificio oggettivo o legale di Cristo sulla croce avrebbe avuto la dimensione necessaria per realizzare la redenzione definitiva dell’umanità. Cristo è vittima perfetta solo perché ama il Padre fin dall’eternità con quell’amore perfetto ed esauriente che lo costituisce come Figlio del Padre.

È perciò profondamente scorretto definire il sacerdozio comune dei fedeli negativamente, come forma di non partecipazione al sacerdozio ministeriale. Questo approccio negativo del problema non coglie l’elemento fondamentale del sacerdozio comune, cioè quello di essere una partecipazione diretta all’amore di Cristo per il Padre. In forza di questa partecipazione il sacerdozio comune dei fedeli si costituisce come realtà primaria rispetto al sacerdozio ministeriale.

Prima che sul sacerdozio ministeriale, la costituzione della Chiesa è fondata sul sacerdozio comune di tutti i fedeli. La sua priorità è data dal fatto di essere una partecipazione analogicamente esauriente all’amore del Figlio per il Padre, da cui, nella persona stessa di Cristo, deriva l’aspetto legale del suo sacerdozio.

5. Questa constatazione teologica dovrebbe trovare la sua applicazione istituzionale anche nel diritto canonico. Il progetto della nuova codificazione (del 1980) come quello della «Lex Ecclesiae fundamentalis» (del 1978) non sono invece riusciti a superare l’impostazione tradizionale del CIC del 1917, che antepone la trattazione dei chierici a quella dei laici[12].

E vero che questo ordine è stato seguito anche nella sistematica della LG, che parla prima dei chierici (cap. Ili) e poi dei laici (cap. IV). Tuttavia non si può non rilevare che questo ordine rappresenta una incongruenza rispetto all’art. 10, 2 della LG stessa, dove è enunciato il tema del rapporto tra il sacerdozio comune e quello ministeriale. Nella prima frase di questo stesso articolo, il sacerdozio comune è anteposto a quello ministeriale, mentre inspiegabilmente l’ordine viene capovolto nella frase successiva. I capitoli III e IV della LG seguiranno questa inversione, accettando così la concezione tradizionale, cristallizzatasi nel CIC del 1917.

A vent’anni di distanza dal Concilio è lecito domandarsi se nel cap. II della LG, dedicato al Popolo di Dio – cui appartiene anche l’art. 10 – non sarebbe stato più esatto parlare non del sacerdozio comune, ma più universalmente del carattere sacerdotale del popolo di Dio. Ciò avrebbe permesso di includere nel discorso sia il sacerdozio comune che quello ministeriale. L’insistenza sul sacerdozio comune (art. 10 e 11) all’interno del cap. II falsa la prospettiva, dal momento che quest’ultimo non esaurisce tutta la dimensione sacerdotale del popolo di Dio. Ad esso appartiene, infatti, anche il sacerdozio ministeriale.

Se il tema del sacerdozio comune non fosse stato indebitamente esaurito nel cap. II, sarebbe stato possibile evitare nel cap. IV di ridurre il problema del sacerdozio comune al tema dei laici. I laici infatti non esauriscono in quanto tali la realizzazione del sacerdozio comune, che continua a sussistere anche nei chierici e che è presente anche nei religiosi, siano essi ordinati o meno. I laici rappresentano solo il soggetto in cui il sacerdozio comune si realizza secondo la sua modalità secolare. Anche i religiosi, quando sono laici, sono investiti dal sacerdozio comune, ma non secondo la modalità secolare, bensì secondo la modalità propria allo stato dei consigli evangelici.

Evidentemente si tratta di definire il senso del termine «secolare», dandogli un significato non sociologico (il fatto di vivere materialmente nel mondo), ma teologico. Dal profilo teologico i religiosi laici non hanno nella Chiesa la stessa funzione affidata a quei laici che la LG (31, 2) ha definito a partire dalla loro «indole secolare». L’indole secolare attribuita dalla LG a questi laici non è di natura sociologica ma teologica B.

Il compito di questi laici, che nella pienezza della loro funzione ecclesiologica si esprime nel sacramento del matrimonio – in cui avviene il punto di sutura tra la natura e la so- prannatura[14] -, è quello di realizzare nella e per la Chiesa il mandato culturale dato all’uomo da Dio nella creazione. Ne consegue che l’affermazione comune al can. 107 (CIC del 1917) e al Vaticano II (LG 43,2) secondo cui la condizione per diventare religiosi è quella di essere laici o chierici, è vera se il termine «laico» è inteso nella sua accezione puramente sacramentale – quella di essere solo battezzato (e cresimato) – e non secondo l’accezione teologica del termine «secolare». Ne consegue che anche l’affermazione inversa, secondo cui i religiosi possono essere chierici o laici, ha una propria verità, a condizione che il termine «laico» non sia inteso secondo l’accezione propria del- l’«indole secolare» ma secondo il suo significato puramente sacramentale (quello di essere battezzato).

Lo stato religioso non è uno stato semplicemente sovrapposto agli altri due; ha una sua autonomia costituzionale dal momento che ai consigli evangelici si dovrebbe riconoscere di avere la loro radice nel «ius divinum» della costituzione della Chiesa.

Ci sembra perciò riduttivo il modo con il quale il progetto della «Lex Ecclesiae fundamentalis» e quello della nuova codificazione, seguendo le tracce del Vaticano II, hanno affrontato il problema dei consigli evangelici. Se è vero che per definirli non basta affermare, negativamente, che essi non appartengono alla struttura gerarchica della Chiesa, non è nemmeno sufficiente affermare che essi appartengono alla vita e alla santità della Chiesa (come fanno il can. 202 § 2 del nuovo progetto e il can. 25, 2 della LEF), se con questa affermazione si volesse evitare di affermare che essi, come la distinzione tra chierici e laici, sono radicati nel «ius divinum». Un filone costante della tradizione teologica ha giustamente considerato i consigli evangelici come realtà di diritto divino e perciò come appartenenti alla struttura essenziale della Chiesa[15].

Alla proposta di far precedere nella sistematica del diritto canonico i laici ai chierici si potrebbe obiettare che la LG, nel- l’art. 23, 1, affermava che i vescovi sono il «principio visibile» (il Papa anche «perpetuo») «e il fondamento delle loro Chiese particolari». Principio e fondamento non sembrano però significare una priorità del sacerdozio ministeriale su quello comune, ma indicare semplicemente la funzione specifica dello stesso, nel senso che senza il sacerdozio ministeriale il Popolo di Dio, pur essendo sacerdotale già a partire dal sacerdozio comune, non può costituirsi in Chiesa nel senso teologicamente corretto del termine.

Questa è la ragione per cui il Vaticano II ha distinto tra la nozione di «Chiesa» (che comprende anche quella di «Chiesa separata») e quella di «comunità ecclesiale»[16]. Le comunità ecclesiali si distinguono dalle Chiese per il fatto che possiedono solo il sacerdozio comune[17]. Tuttavia in forza del loro carattere «ecclesiale» si differenziano incommensurabilmente dalle semplici comunità «religiose» non cristiane. La distanza o la differenza qualitativa esistente tra le comunità ecclesiali e le Chiese è comunque minore, in ordine all’economia ordinaria della salvezza, rispetto a quella che corre tra le comunità religiose e quelle ecclesiali.

Ciò dipende dal fatto che in quanto definito dalla sua partecipazione allo statuto soggettivo di Cristo, lo stato ecclesiale del battezzato è incommensurabilmente superiore a quello naturale del non battezzato, che nel suo essere immagine creata del mistero trinitario non partecipa ancora alla dimensione ontologica soprannaturale conferita dal battesimo. Lo scarto qualitativo esistente tra il cristiano e l’uomo non battezzato è quindi superiore allo scarto, pure sostanziale, esistente tra il sacerdozio comune e quello ministeriale; entrambi, partecipazioni non più solo naturali, ma soprannaturali, del sacerdozio di Cristo. La distanza tra la natura e la soprannatura è superiore a qualsiasi differenziazione di stato esistente all’interno dell’ambito soprannaturale.

2. Unità e unicità della «sacra potestas»

1. Rivalorizzando la tradizione teologica antica, orientale ed occidentale, ma senza voler prendere posizione sul valore ecclesiologico della distinzione tra il potere di ordine e quello di giurisdizione – introdotta dalla canonistica prima del xil secolo[18] – il Vaticano II ha messo l’accento sull’unità della «sacra potestas»[19].

La distinzione tra ordine e giurisdizione è il risultato di una riflessione, durata quasi un millennio, tesa a risolvere due problemi costituzionali di fondo: quello della validità degli atti sacramentali posti dai ministri che in un modo o nell’altro avessero rotto con la comunione ecclesiale, e quello della validità delle ordinazioni assolute, prevalse nella prassi della Chiesa latina malgrado la proibizione del concilio di Calcedonia[20]. Che un vescovo scomunicato o deposto non potesse più essere considerato come legittimo pastore del popolo di Dio non era mai stato messo in dubbio neppure nei primi secoli; più diffìcile fu per contro capire se potesse ancora battezzare e consacrare validamente, fino a quando Graziano e i decretisti non riuscirono progressivamente a distinguere formalmente nell’attività dei ministri due poteri[21]: un potere di ordine ed un potere di giurisdizione, diversi, secondo il Mörsdorf, sia per la modalità di trasmissione che per la loro stabilità e funzione[22].

A partire dalla scolastica incominciò a prevalere l’idea che il potere di ordine avesse come ambito di intervento quello concernente il Corpo reale di Cristo, e che il potere di giurisdizione avesse come ambito il Corpo mistico di Cristo, inteso ridut- tivamente come ambito extrasacramentale o giuridico della vita della Chiesa[23]. In questa prospettiva la distinzione tra ordine e giurisdizione da formale divenne materiale, provocando una spaccatura in due elementi, non solo della «sacra potestas», ma anche nella struttura della Chiesa. Si arrivò così nell’alto medioevo a distinguere nella Chiesa, e ad opporre tra loro, un ambito sacramentale, all’interno del quale agisce solo il potere di ordine, ed un ambito extrasacramentale, dove agisce solo il potere di giurisdizione.

Questa latente antinomia tra spirito e lettera e tra carità e diritto, presente non solo nella riflessione teologica, ma soprattutto nei movimenti spiritualistici fioriti tra l’antichità ed il medioevo, è esplosa nella radicale spaccatura ecclesiologica provocata dai Riformatori con la netta separazione tra una Chiesa «abscondita» ed una Chiesa «universalis seu visibilis».

Consumata la spaccatura tra i due ambiti e i due poteri, la teologia medievale passò alla ricerca della loro origine, arrivando alla conclusione che, nei vescovi, solo il potere di ordine aveva immediatamente origine da Dio, all’atto della loro consacrazione, mentre quello di giurisdizione era conferito loro dal Sommo Pontefice «fons et origo omnis potestatis» [24].

Un ulteriore sviluppo dottrinale è avvenuto verso la metà del secolo scorso ed ha ulteriormente offuscato il significato dell’originale distinzione tra ordine e giurisdizione. In seguito all’innesto, avvenuto anzitutto nella canonistica ad opera di F. Walter e di G. Phillips e poi nell’ecclesiologia, della dottrina di estrazione calvinista dei tre uffici di Cristo (sacerdotale, profetico e regale) la teologia non ha resistito alla tentazione di assegnare ad ognuno di questi tre «munera» un ambito materiale specifico di attività, trasformandoli in tre veri e propri poteri. L’antico binomio ordine-giurisdizione fu così sostituito da un trinomio: potere di ordine, di magistero e di giurisdizione[25].

La stessa dottrina dei «tria munera» è stata, del resto, presa come base sistematica di tutta l’ecclesiologia della Lumen gentium, che però non l’ha avallata come trilogia a cui corrispondano tre poteri distinti. Vi si oppone infatti non solo l’impossibilità di procedere ad una distinzione adeguata tra il potere di giurisdizione e quello di magistero, ma anche la coscienza che a Cristo possono essere attribuite, oltre ai «tria munera», anche altre «funzioni», come del resto aveva fatto con abbondanza la teologia medievale[26]. All’utilità sistematica della trilogia del Concilio non corrisponde quindi un altrettanto solido valore dogmatico[27]. E sintomatico in proposito che papa Giovanni Paolo II non abbia esitato ad affermare che «bisogna parlare di una triplice dimensione del servizio e della missione di Cristo, piuttosto che di tre funzioni diverse»[28].

Per la dogmatica e la canonistica attuale il problema non è più quello di sapere se esistono due o tre poteri ma piuttosto di stabilire il rapporto che esiste fra i «tria munera» di Cristo e la «potestas sacra». Di conseguenza si pone l’interrogativo di sapere se sia possibile conservare ancora la distinzione tra potere di ordine e di giurisdizione.

2. Le soluzioni proposte dalla teologia sono rimaste fino ad oggi sostanzialmente due.

a) Una prima dottrina interpreta contenutisticamente il principio tratto dal 109 del CIC (1917) secondo cui il potere di ordine è conferito dal sacramento e quello di giurisdizione dalla «missione canonica»[29]. Secondo questa dottrina la distinzione in quanto tale rimane formale, nel senso che all’ordine e alla giurisdizione non è attribuito un ambito specifico e diverso di intervento (rispettivamerite il «Corpus Christi Verum» ed il «Corpus Christi Mysticum»). Seguendo però il significato immanente al linguaggio giuridico, essa ritiene che l’ordine sacro e la «missio» conferiscono, ciascuno secondo modalità diverse, due parti distinte dalla «potestas sacra».

Esse rimangono, tuttavia, reciprocamente dipendenti l’una dall’altra sia perché vale il principio del can. 118 (secondo cui il potere di giurisdizione può essere conferito solo a chi è ordinato), sia perché è evidente che, almeno nel caso di alcuni sacramenti, come per esempio quelli dell’ordine e della penitenza, ordine e giurisdizione concorrono assieme nel produrre l’effetto sacramentale. È per questo, ad esempio, che secondo l’opinione comune dei teologi e secondo le norme del diritto canonico, l’assoluzione sacramentale impartita senza la giurisdizione è considerata invalida[30]. L’unità della «potestas sacra» è salva, ma l’unità non coincide con l’unicità.

Partendo da questo presupposto contenutistico è relativamente facile dare una spiegazione a tutti i casi tipici ricorrenti nella teologia latina, come quello dell’invalidità dell’assoluzione sacramentale impartita senza la giurisdizione, quello dell’ordinazione assoluta (dove ordine e giurisdizione sono conferiti separatamente), quello delle ordinazioni «extra communionem ecclesiasticam» (o «extra muros») e quello delle ordinazioni sacerdotali operate da un semplice presbitero, grazie ad un indulto papale[31].

Se si prescinde dal problema dell’ordinazione assoluta, è sufficiente ammettere, per risolvere questi casi, che la Chiesa è in grado di rendere validi o invalidi certi atti sacramentali grazie al potere che ha di conferire o di togliere la giurisdizione. Anche l’esistenza di diversi gradi nel sacramento dell’ordine (episcopato, presbiterato e diaconato) è spiegabile a partire dalla «quantità» diversa di giurisdizione conferita con la «mis- sio canonica».

Il pericolo volontaristico immanente a questa concezione emerge in modo particolare nella soluzione del problema delle ordinazioni «extra communionem». La validità delle ordinazioni «extra muros», come per esempio quelle delle Chiese ortodosse, è spiegata con la teoria secondo cui la Chiesa cattolica invece di ritirare – come sarebbe in grado di fare – il potere di giurisdizione e di invalidare così le ordinazioni degli ortodossi, preferisce, in nome dell’«economia», tollerare che esso venga usato illegittimamente.

Da quando però la teologia ha abbandonato la tesi che il potere di giurisdizione è dato ai vescovi direttamente dal Papa, per abbracciare quella più plausibile secondo cui la giurisdizione è conferita da Dio, sia passando attraverso la mediazione della «missio canonica» conferita dal Papa, sia direttamente in forza della consacrazione episcopale[32], questa dottrina ha dovuto ricorrere ad una spiegazione atipica rispetto al proprio sistema. Si trattava di salvare il principio, affermatosi definitivamente nella Chiesa latina dal xil secolo in poi, secondo cui un vescovo è sempre in grado di consacrare validamente, anche quando ha perso il proprio ufficio e di conseguenza il potere di giurisdizione[33].

L’innovazione è stata introdotta dal Mörsdorf con la tesi secondo cui il vescovo, nella consacrazione episcopale, non riceve solo il potere di ordine, ma anche un fondamento indelebile di giurisdizione che egli chiama «Grundbestand an oberhirtli- cher Gewalt»™. Per diventare pastore di una Chiesa particolare, il neo-consacrato ha però ancora bisogno di ricevere, con l’ufficio canonico conferitogli dalla «missio», la parte di giurisdizione che gli manca.

Il valore della tesi del Mörsdorf sta nell’aver introdotto un elemento oggettivo: il substrato («Grundbestand») di giurisdizione conferito al vescovo nella consacrazione. Oltre a spiegare la superiorità costituzionale del vescovo rispetto al sacerdote, l’esistenza di questo substrato permette di spiegare la validità delle ordinazioni «extra muros» senza ricorrere a soluzioni volontaristiche. Ogni vescovo riceve, indipendentemente dalla volontà del Papa, una misura sufficiente di giurisdizione per poter consacrare sempre validamente, anche quando lo facesse «extra communionem ecclesiasticam».

E evidente che il punto disarmonico di questa soluzione sta nell’introduzione, con il «Grundbestand», di un’eccezione al sistema, proprio a proposito della consacrazione episcopale, riconosciuta dalla teologia e dal magistero come pienezza del sacramento dell’ordine e perciò come fonte dei gradi inferiori dell’ordine stesso”.

b) Una seconda dottrina parte invece dal presupposto che tutta la «potestas sacra» è conferita dal sacramento dell’ordine. Per spiegare l’invalidità dell’assoluzione sacramentale impartita senza la «giurisdizione», il sistema dell’ordinazione relativa (in cui l’ufficio è conferito simultaneamente alla consacrazione), il sistema dell’ordinazione assoluta, le ordinazioni sacerdotali ad opera di presbiteri, come pure l’esistenza di diversi gradi del sacramento dell’ordine (data l’unicità sostanziale dell’ordine stesso), questa dottrina afferma che la Chiesa ha il potere di sciogliere o legare «ad validitatem» la «potestas sacra» conferita dal sacramento[36].

Siccome però nell’ipotesi formulata da questa dottrina non esiste un potere di giurisdizione inteso come parte distinta della «potestas sacra», ne consegue che il potere di sciogliere e legare ha carattere solo formale. Il carattere ancora più marcata- mente volontaristico di questa seconda soluzione rispetto alla prima è evidente: tutta la dinamica propria al funzionamento del sacramento dell’ordine è fatta dipendere dalla volontà della Chiesa. Ci si deve comunque chiedere come sia possibile, senza cadere in una antinomia, concepire concettualmente l’esistenza di un «potere» materiale (quello di ordine) che possa essere all’occorrenza neutralizzato totalmente da un «potere» formale (quello di giurisdizione) senza che cessi di essere concettualmente una «potestas». La giurisdizione, pur essendo secondo questa teoria un potere puramente formale (senza contenuto proprio), diverrebbe in pratica l’unica vera «potestas» della Chiesa.

La differenza sostanziale tra la prima e la seconda dottrina sta nel fatto che, mentre la prima attribuisce un contenuto materiale sia all’ordine che alla giurisdizione, la seconda assegna un contenuto materiale solo al potere di ordine, mentre attribuisce valore solo formale al potere di giurisdizione[37].

3. Sembra possibile ipotizzare una terza soluzione del problema. Il Mòrsdorf ha intuito che la distinzione tra ordine e giurisdizione ha la sua radice ultima in due elementi costitutivi della Chiesa stessa: il Sacramento e la Parola[38]. Questa intuizione svela un nesso teologico che permette di superare i limiti connaturali al carattere funzionale (e perciò facilmente riduttivo) del linguaggio giuridico[39]. Il segno simbolico e la parola sono infatti le due modalità umane di comunicazione usate da Dio già nel VT per rivelarsi all’uomo. Nell’economia della salvezza sia il segno simbolico che la Parola di Dio hanno assunto una definitività escatologica che ha conferito loro quell’efficacia sacramentale oggettiva, colta dalla teologia con l’idea del- Y«ex opere operatum». Ciò è vero non solo perché la Parola ha già in se stessa un’efficacia sacramentale[40], nel senso che ha un valore salvifico ed è vincolante prima e non solo dopo essere stata accolta «interim in corde» (come sostiene la dottrina protestante), ma anche perché essa è strutturalmente orientata verso il segno simbolico ed è indispensabile affinché esso acquisti valore sacramentale[41]. La Parola di Dio non è mai pronunciata, infatti, nell’economia della salvezza, in modo slegato dal segno simbolico, cioè dal Sacramento, anzi, essa ha un valore salvifico integrale (contrariamente a quanto è presupposto nella dottrina della «sola scriptura»), solo se tende a realizzarsi (o «incarnarsi») nel segno sacramentale. Ciò avviene per analogia con il mistero dell’incarnazione del Verbo stesso nell’umanità di Cristo.

Parola e Sacramento non sono perciò solo strutturalmente reciproci ma sono anche inseparabili tra di loro. Sono le due modalità formali diverse attraverso le quali Dio comunica la grazia, cioè la salvezza, che è una realtà non solo unitaria, ma unica, indivisibile per parti.

Come Dio si manifesta nella sua totalità e unicità sia nella Parola che nel Sacramento, così l’unicità della «potestas sacra» si manifesta attraverso le modalità istituzionali che la canonistica – in stretta, ma parziale analogia con il diritto secolare – ha chiamato potere di giurisdizione e potere di ordine. A livello istituzionale la giurisdizione e l’ordine sono gli strumenti attraverso i quali opera tutta la «potestas» e non solo una parte di essa. Sono la duplice modalità di espressione dell’unica «sacra potestas».

Mentre nell’ordine prevale la struttura di comunicazione propria del segno simbolico, cioè del Sacramento, nella giurisdizione prevale la logica di comunicazione propria del linguaggio parlato, cioè della Parola. La «potestas sacra» opera perciò secondo due modalità formali diverse: quella del segno, che la canonistica ha definito come potere di ordine, e quella della parola, definita come potere di giurisdizione («iuris dictio»). Ne consegue che la distinzione in quanto tale tra ordine e giurisdizione è formale e non materiale. Non è formale solo nel senso intuito dalla canonistica del xil secolo, che li aveva distinti in base alla diversità della loro trasmissione, della loro durata e della loro funzione, bensì nel senso che nei due poteri non operano due parti diverse della «sacra potestas», ma tutto il potere della Chiesa, nell’integralità del suo contenuto[42].

Tutto l’ordinamento giuridico della Chiesa, la cui espressione più palese è la «giurisdizione», è del resto concepito in funzione della celebrazione dei sacramenti[43].

Poiché la struttura dell’economia della salvezza ha come fondamento e modello il mistero deH’incarnazione del Verbo di Cristo, non è ipotizzabile che la «sacra potestas» possa esprimersi solo secondo la modalità della giurisdizione, senza resistenza di un nesso sostanziale con il potere di ordine. Ciò sarebbe contrario a tutta la tradizione sia ortodossa – che ha sempre considerato come unico sistema quello dell’ordinazione relativa – sia cattolico-latina che, pur avendo adottato il sistema dell’ordinazione assoluta, ha sempre riconosciuto, con la dottrina del carattere «indelebilis», una priorità strutturale del Sacramento sulla Parola e dell’ordine sulla giurisdizione.

Una verifica di questo fatto è la dottrina del Vaticano II che attribuisce la qualifica di «ecclesiale» solo a quelle comunità cristiane in cui la Parola è rimasta strutturalmente legata con almeno uno dei sacramenti, quello del battesimo. La Parola predicata in modo slegato da ogni riferimento sacramentale, perde la sua dimensione e la sua efficacia ecclesiale. Secondo il Concilio, infatti, le aggregazioni comunitarie che dovessero sorgere solo attorno alla predicazione della Parola non possono essere definite né come semplici comunità ecclesiali, né tanto meno come Chiese in senso stretto. Non si dà Chiesa senza il battesimo, cioè senza il Sacramento[44].

4. Se si concede che l’unità della «potestas sacra» significa anche indivisibilità del contenuto, cioè unicità, e che di conseguenza si deve attribuire valore puramente formale alla distinzione tra ordine e giurisdizione, allora sembra possibile risolvere anche le incongruenze dei tentativi precedenti nell’affrontare i luoghi topici delle difficoltà, senza far ricorso ad opzioni volontaristiche.

Prima di tutto sembra indispensabile distinguere tra il conferimento della «potestas sacra» e l’uso della stessa. Mentre la «potestas» può operare in modo relativamente autonomo, sia secondo la modalità del segno simbolico propria di tutti i sacramenti, sia secondo la modalità propria della Parola, in forza della quale la Chiesa pone atti giurisdizionali a livello d’insegnamento e di governo, la trasmissione del potere, per contro, può avvenire solo attraverso il Sacramento (in cui è contenuta anche la Parola). Nella dottrina cattolica non è ipotizzabile il fatto che la «potestas sacra» possa essere trasmessa solo con la Parola. La successione apostolica è indissolubilmente legata, anche se non esaurientemente, al fatto sacramentale, cioè al potere di ordine.

Di conseguenza, mentre la «sacra potestas» può operare in modo relativamente autonomo sia secondo la dinamica tipica della Parola, o potere di giurisdizione, sia secondo quella del Sacramento, o potere di ordine, essa può essere trasferita da una persona all’altra solo attraverso il potere di ordine, cioè il Sacramento.

A questo punto si pone evidentemente il problema di sapere se la Chiesa può (e in che misura) esercitare un controllo sulla trasmissione e sull’esercizio della «potestas sacra». La prima dottrina ha risolto il problema dividendo quantitativamente la «potestas» in ordine e giurisdizione. Conferendo o ritirando la giurisdizione la Chiesa può provocare la validità o la invalidità, oltre che degli altri sacramenti, anche del potere di ordine. La seconda procede nella stessa linea ma secondo la soluzione tecnica dello sciogliere e del legare il potere di ordine.

Se si ritiene invece che tutta la «potestas» è conferita con il sacramento dell’ordine e che è esercitata nella sua totalità, sia nel Sacramento che nella Parola, allora bisogna ammettere che la «potestas» è in grado di autocontrollarsi: la «potestas» può esercitare un controllo su se stessa. Essa però non può controllare i propri effetti oltre i limiti posti dalla «substantia Sacramenti» e dalla «substantia Verbi». Solo quando il Sacramento è celebrato entro i limiti dei suoi elementi essenziali e quando la Parola è predicata nel rispetto del suo contenuto cristiano essenziale, essi sono sempre efficaci, nel senso che la loro celebrazione è oggettivamente valida tanto da generare la Chiesa di Cristo. La dottrina del Vaticano II, secondo cui la Chiesa di Cristo è unica e sussiste nella Chiesa cattolica, ma si realizza anche al di fuori dei suoi confini secondo gradi di comunione diversi, va in questa direzione.

In forza della «potestas sacra» di cui è investita, la Chiesa può constatare quali sono gli elementi essenziali richiesti dallo «ius dwinum» perché un Sacramento sia un Sacramento e perché la Parola sia ancora sufficientemente completa per essere cristiana, cioè Parola di Dio (problema dell’ortodossia). Nell’ipotesi che questi elementi essenziali vengano realizzati, la Chiesa non può però impedire che il Sacramento e la Parola operino effica- cernente anche al di fuori della «communio piena». La loro efficacia salvifica come quella della «potestas sacra» sarà tuttavia proporzionale al grado di integralità del loro contenuto e perciò al grado di comunione piena con la Chiesa cattolica.

Il riconoscimento dell’esistenza di altre Chiese (separate) o di semplici comunità ecclesiali, presuppone che il Sacramento e la Parola celebrati fuori dalla «communio piena» con la Chiesa cattolica, siano validi, anche quando il loro spessore sacramentale e dottrinale fosse ridotto a pochi elementi essenziali (battesimo, cena, divinità di Cristo).

Come la Chiesa di Cristo si realizza secondo gradi di contenuto e di comunione diversi, così anche la «sacra potestas» (attraverso cui la forza salvifica vincolante di Cristo nella Chiesa si esprime) si realizza secondo gradi diversi di efficacia nelle singole Chiese separate e nelle singole comunità ecclesiali. La sua efficacia risulta ridotta sia nel caso di impoverimento a livello sacramentale, sia nel caso di impoverimento a livello dottrinale, cioè della Parola. Se la Parola ed il Sacramento sono intregrali nel loro contenuto creano una realtà ecclesiale in cui si realizza la «communio piena».

Nel constatare l’esistenza della comunione, in forza della «potestas sacra», il collegio episcopale o il papa si esprimono soprattutto secondo la modalità propria della Parola, cioè secondo la modalità propria al «potere» di giurisdizione. Questo significa che la «potestas sacra» e la «communio» non sono realtà identiche. La «communio» è, da una parte, la realtà ontologica ecclesiale entro cui la «potestas sacra» deve agire per essere integralmente efficace, dall’altra, la realtà che la «potestas sacra» stessa contribuisce a generare. Essa è quindi precedente e conseguente al «potere» in quanto tale.

5. Fatte queste premesse è possibile dare una soluzione omogenea a tutti i problemi che già le due teorie precedenti hanno dovuto affrontare.

L’esistenza di due sistemi diversi di ordinazione non pone problema, perché tutti e due sono teologicamente intercambiabili. A rigore, il ritorno al sistema dell’ordinazione relativa potrebbe essere auspicabile dal momento che tutta la «potestas sacra» è conferita (per ipotesi) con il sacramento dell’ordine. Il fatto che la Chiesa latina gli conferisce la giurisdizione con la «missio», separatamente dall’ordinazione, può essere intepre- tato come atto in forza del quale l’autorità legittima assegna, grazie alla «potestas sacra» (che nella fattispecie si esprime secondo la modalità della Parola, cioè della giurisdizione), l’ambito entro cui un vescovo (o un altro ministro) deve esercitare la propria «potestas», per rimanere organicamente inserito nella «communio hierarchica».

Quando un ministro dovesse eccedere nell’uso della propria «potestas» rispetto ai limiti impostigli dal diritto canonico – che possono essere anche di natura convenzionale -, gli atti sacramentali e giurisdizionali da lui posti cessano di essere atti capaci di realizzare la «communio piena» e di conseguenza cessano di essere totalmente vincolanti per la Chiesa cattolica. Questo non significa tuttavia che questi atti siano totalmente nulli o invalidi.

Dato che sia nel Sacramento che nella Parola (giurisdizione) opera la stessa ed unica «sacra potestas», non esiste una ragione stringente per valutare in modo diverso la nullità e la illegittimità del potere di ordine e del potere di giurisdizione. In tutti e due i casi la nullità dovrebbe essere dichiarata in linea di massima solo quando la «substantia Sacramenti» o la «substantia Verbi» non è stata rispettata.

Il problema degli atti giurisdizionali sembra tuttavia più difficile da risolvere di quello degli atti sacramentali. Ciò dipende in primo luogo dalla mentalità teologica dominante, secondo cui solo gli atti giurisdizionali, e non invece quelli sacramentali, hanno carattere giuridico, cioè vincolante. In questo modo di pensare riaffiora in realtà l’antica dicotomia tra ordine e giurisdizione in nome della quale era stato assegnato un ambito materiale diverso all’uno e all’altra: al potere di ordine l’ambito sacramentale (o della santificazione), a quello di giurisdizione l’ambito giuridico (o del governo ecclesiale). In effetti non è possibile attribuire carattere giuridicamente vincolante solo al potere di giurisdizione (o della Parola), poiché anche il Sacramento è formalmente, cioè giuridicamente, vincolante. In analogia con quanto la teologia fondamentale insegna della Parola, anche il Sacramento è una «locutio Dei {per signum) attestans», che non vincola di per sé né in forza del suo contenuto in quanto tale, né tanto meno in virtù del fatto che l’uomo lo capisca soggettivamente – come ha sostenuto la tradizione protestante (X«interius in corde») -, bensì già solo in forza del fatto che Dio si manifesta o parla. Il problema è dunque quello di sapere in che misura la Chiesa può far dipendere la non validità di un atto giurisdizionale contrario allo «ius divinum» da clausole irritanti o inabilitanti[45].

Nella stessa linea devono essere affrontati anche gli altri problemi: quello della validità delle ordinazioni «extra communio- nem», delle ordinazioni sacramentali ad opera di un presbitero munito dell’indulto papale (o episcopale) e dell’assoluzione sacramentale impartita senza giurisdizione.

Riconoscendo l’esistenza di Chiese non cattoliche, il Vaticano II non ha fatto che confermare la dottrina e la prassi della Chiesa latina che, dal xil secolo in poi, ha riconosciuto la validità dei sacramenti celebrati «extra muros». Questo fatto implica anche il riconoscimento della capacità di queste Chiese di produrre un ordinamento giuridico proprio che, nella misura in cui rispetta le norme fondamentali dello «ius divinum», crea una realtà ecclesiale valida, anche se diminuita nella sua autenticità e nella sua possibilità di garantire oggettivamente e con certezza assoluta la salvezza.

Per quanto riguarda le ordinazioni ad opera di un presbitero munito dell’indulto papale (o eventualmente solo episcopale) e le assoluzioni sacramentali impartite senza giurisdizione, il problema deve essere risolto a partire dall’elemento già comune alle due dottrine precedenti. Secondo esse il presbitero possiede, in forza dell’ordinazione, tutto il potere necessario per consacrare ed assolvere. Diversamente però da quanto hanno fatto sia la prima dottrina che la seconda, non è più necessario – nell’ipotesi che tutta la «potestas sacra» provenga dal sacramento dell’ordine – ricorrere né alla necessità di conferire con la «missio canonica» la parte di giurisdizione ancora mancante, né alla soluzione di attribuire alla Chiesa il potere di sciogliere e legare il potere di ordine. Si tratta semplicemente di ammettere e riconoscere che questi atti sacramentali, quando sono compiuti nell’ambito della «communio piena», sono capaci anche di originarla. Sono atti cioè della Chiesa, intesa non solo come unica Chiesa di Cristo, ma come Chiesa cattolica, in cui sussiste l’unica Chiesa di Cristo. Si tratta di sacramenti validi e legittimi per il fatto stesso che sono compiuti all’interno della «communio piena». Quando invece non fossero compiuti nella comunione piena non sarebbero neppure atti ad originarla[46].

Per quanto riguarda l’assoluzione sacramentale bisogna tener conto anche del fatto che la Chiesa cattolica la ritiene sempre valida, se impartita «in articulo mortis». Il fatto che la scienza giuridica abbia interpretato questa norma, valendosi degli strumenti tecnici a sua disposizione, come quello della delega «a iure», non significa necessariamente che sia l’ordinamento giuridico in quanto tale a conferire il potere di giurisdizione mancante o a slegare il potere di ordine, ma piuttosto eventualmente che la Chiesa riconosce all’assoluzione sacramentale impartita in tale circostanza estrema della vita la legittimazione necessaria per realizzare la «communio piena», anche quando dovesse essere data da un ministro che non vive in comunione con la Chiesa cattolica.

Le altre assoluzioni sacramentali impartite nei casi ordinari senza la «giurisdizione» necessaria, vale a dire in condizioni di non comunione gerarchica del ministro con il suo vescovo – le cui condizioni sono fissate disciplinariamente dal diritto canonico – non sono invalide in forza del fatto che mancherebbe al sacerdote una parte della «potestas sacra» o perché il suo potere di ordine non sarebbe stato sciolto per l’esercizio, ma perché il sacerdote, trovandosi fuori dalla comunione piena, non è in grado di effettuare la riconciliazione del penitente con la Chiesa cattolica in quanto tale. La Chiesa è competente per constatare, di volta in volta o in linea generale, il grado di comunione necessario per la valida amministrazione del sacramento della penitenza[47].

Questa validità (o invalidità) degli atti sacramentali e giurisdizionali, essendo relativa alla «sacra potestas», non può essere però determinata arbitrariamente dalla Chiesa. Ha un nesso necessario con la verità ontologica con la quale la Chiesa realizza (o non realizza) se stessa. Esiste infatti un rapporto di identità – anche se non adeguata – tra la Chiesa e la «potestas sacra».

La dottrina del Vaticano II sulla gradualità della «communio ecclesiarum» impone comunque di rivedere il modo, determinato prevalentemente da esigenze della scienza giuridica, con il quale in genere si affronta il problema della validità dei sacramenti. La Chiesa non può procedere, come lo Stato, sulla base di criteri solo positivistici, slegati dall’oggettività ontologica propria alla natura delle cose. La validità dell’esercizio della «potestas sacra» nella sua espressione sia sacramentale che giurisdizionale, non può perciò essere risolta con clausole di diritto umano se non nella misura in cui in esse emerge la verità ontologica.

Ridiventa perciò attuale la distinzione, oggi sempre più avversata, tra atti validi e illeciti. Sia la validità che la illiceità sono commisurate al grado di comunione. Infatti, almeno per quanto concerne questa problematica, non è la comunione ad essere determinata dalla «sacrapotestas», ma quest’ultima dalla prima[48].

La rivalutazione della nozione di «illiceità» è esigita dal fatto che il Vaticano II, riconoscendo l’esistenza di Chiese e comunità ecclesiali separate, ha riconosciuto che l’unica Chiesa di Cristo può realizzarsi secondo una diversa gradualità di comunione. Ne consegue che la validità dei sacramenti e della Parola non può essere manipolata con norme di natura positivistica dirette a regolare l’esercizio della «sacra potestas». L’invalidità può solo essere constatata poiché è connessa rigorosamente con la sostanza stessa della realtà ecclesiale. La liceità per contro può essere determinata anche con criteri di natura solo disciplinare.

6. Se la «potestas sacra» è una e unica e se nell’ordine e nella giurisdizione essa «opera in totum», ne consegue che gli stessi criteri usati per giudicare la validità o l’invalidità dei sacramenti devono essere applicati anche al «potere» di giurisdizione. La giurisdizione, in quanto espressione dell’unica «potestas sacra» non può essere gestita dal profilo teologico e giuridico con criteri diversi di quelli usati per il potere di ordine.

Ne deriva come conseguenza che, se non è possibile teologicamente delegare il potere di ordine, non può essere possibile neppure delegare il potere di giurisdizione, questo anche se la canonistica dovesse continuare per ragioni tecniche a far uso dell’istituto della delega. Se è vero che la «potestas sacra» è trasmissibile solo attraverso il sacramento dell’ordine, ne consegue che essa non può essere trasmessa in modo diverso neppure quando si manifesta secondo la logica del potere di giurisdizione.

3. Conclusione

1. L’analisi della natura del sacerdozio comune e ministeriale e della «potestas sacra» ha permesso di trarre alcune conclusioni.

Il sacerdozio comune di tutti i fedeli si differenzia da quello ministeriale perché rende il cristiano partecipe, non dell’aspetto oggettivo, ma dell’aspetto soggettivo dell’unico sacerdozio di Cristo. Questa diversa partecipazione si realizza attraverso due sacramenti diversi, quello del battesimo e quello dell’ordine sacro. Benché il battesimo sia la condizione previa del sacramento dell’ordine, quest’ultimo non rappresenta una continuazione o uno sviluppo del battesimo. Ciò significa che nei due sacramenti la partecipazione al sacerdozio di Cristo è, dal profilo del contenuto, originaria ed autonoma, anche se reciprocamente ordinata.

La priorità ontologica del sacerdozio soggettivo in Cristo si declina nella Chiesa come priorità costituzionale del sacerdozio comune su quello ministeriale. Da questa priorità deriva che la funzione del sacerdozio ministeriale è quella di essere al servizio del sacerdozio comune e non viceversa.

Il sacerdozio ministeriale si esprime operativamente attraverso la «sacra potestas» che, analogicamente all’autorità di Cristo sulla Chiesa, è una realtà non solo intrinsecamente unitaria, ma unica, che opera perciò sempre «in totum», anche quando assume forme espressive diverse come nella giurisdizione e nell’ordine, in cui si riflette la distinzione inerente alla diversa struttura di comunicazione della Parola e del Sacramento. Potere di giurisdizione e di ordine si distinguono perciò solo formalmente, non dal profilo del loro contenuto.

Il fatto che solo nella celebrazione sacramentale la presenza di Cristo si realizza secondo l’espressione formale della Parola e del Sacramento giustifica la dottrina cattolica secondo cui la «sacra potestas» è trasmissibile solo attraverso il sacramento dell’ordine, che dà origine al sacerdozio ministeriale. La «sacra potestas» non può perciò essere trasmessa attraverso la sola Parola e di conseguenza non può essere trasmessa né con il conferimento di un ufficio ecclesiastico, né per delega. L’unità e l’unicità della «sacra potestas» vi si oppongono. Se la trasmissione della «sacra potestas» potesse avvenire attraverso la sola Parola, il sacramento dell’ordine diverrebbe superfluo. La distinzione qualitativa tra il sacerdozio comune e quello ministeriale non potrebbe più essere fondata sull’esistenza di due sacramenti diversi, il battesimo e l’ordine. Un laico potrebbe essere investito di tutta la «sacra potestas» con una semplice dichiarazione della Chiesa. Ciò sembra essere incompatibile con tutta la tradizione della Chiesa cattolica e di quella ortodosso-orientale.

La validità e l’invalidità dei sacramenti non può di conseguenza dipendere dalla trasmissione o dal ritiro del potere di giurisdizione né dalla possibilità che la Chiesa avrebbe di legare o slegare il potere di ordine, bensì dal grado di comunione o non comunione ecclesiale in cui il Sacramento viene celebrato. Il grado di comunione è constatato o è fissato disciplinariamente dalla Chiesa attraverso la Parola, cioè attraverso l’esercizio della «sacra potestas» operante secondo la modalità della Parola, ossia del potere di giurisdizione.

2. A questa ipotesi dottrinale si oppone il fatto che la Chiesa sembra aver concesso nel corso della storia, e sembra concedere oggi in forza deU’ordinamento canonico vigente, il potere di giurisdizione anche ai laici, conferendolo loro tramite gli uffici ecclesiastici o per delega.

I fatti storici generalmente citati dagli autori sono quelli delle badesse parificate giuridicamente nel XIII secolo ai prelati «nullius»[49] o quello, più recente, della badessa di Thorn, cui la Sacra Congregazione del Concilio ha riconosciuto nel 1774 l’esercizio di una «omnímoda et privativa iurisdictio ecclesiastica», comprendente anche competenze giudiziali e penali[50].

Secondo la maggioranza degli autori anche il diritto codifi- catorio sembra concedere ai laici, in contraddizione con il tenore del can. 118, l’esercizio di un potere di giurisdizione. Si tratta del caso della «missio» concessa per impartire l’istruzione religiosa (can. 1333 § 1), della partecipazione all’amministrazione dei beni ecclesiastici (can. 1521 § 2), del potere di dispensa dai voti privati da parte di quei laici che godono della «potestas dominativa» (can. 1312 § 1) e del caso dei superiori maggiori laici autorizzati sia a ricevere la professione religiosa (can. 647 § 1), sia ad infliggere ed assolvere dalle pene ecclesiali (can. 2386, 2413 § l)[51].

Con il Motu proprio Causas matrimoniales del 1971, il diritto post-conciliare ha, a sua volta, ammesso i laici ad esercitare l’ufficio di giudice, cui generalmente si attribuiscono poteri e competenze legati al sacramento dell’ordine. La gamma di questi casi è stata allargata dal diritto particolare più recente, come quello delle arcidiocesi di Detroit e di Rio de Janeiro, dove delle religiose sono state investite formalmente o di fatto dell’ufficio equivalente a quello del vicario episcopale per il settore delle religiose[52].

Gli autori che hanno cercato di dare una spiegazione a questi fatti e a queste norme si dividono in due correnti. Coloro che affermano che l’esclusione dei laici dal potere di giurisdizione, prevista dal can. 118, è di diritto divino ed è perciò assoluta, tendono ad interpretarli come casi marginali anomali, o come casi in cui la fattispecie dell’eccezione, rispetto al can. 118, non si realizza. Coloro che invece sostengono che il dettato del can. 118 in quanto tale è solo di diritto ecclesiastico fanno una distinzione tra una giurisdizione legata essenzialmente al potere di ordine, intrasmissibile per diritto divino ai laici, e una giurisdizione che sarebbe di origine puramente ecclesiastica, non necessariamente legata al sacramento dell’ordine.

Se vero che i cosiddetti poteri di giurisdizione e di ordine sono solo due aspetti formali diversi dell’unica «sacra potestas», allora è impossibile ipotizzare l’esistenza di una «potestas iuri- sdictionis» non derivata dall’ordine e di origine puramente ecclesiastica. Non esiste nella Chiesa nessun potere che non coincida con la «sacra potestas», essendo questa l’elemento di differenziazione qualitativa tra il sacerdozio ministeriale e comune. Concettualmente non esiste «potere» che non sia quello derivante dal sacramento dell’ordine.

Per contro, è possibile ipotizzare che la Chiesa organizzi istituzionalmente l’esercizio di competenze giuridiche sotto forma di uffici ecclesiastici, conferibili anche ai laici. Si tratterebbe di competenze abilitanti a compiere certi atti giuridici vincolanti per la comunità, ma non sulla base della imperatività propria al potere, cioè alla «potestas sacra». Ciò eliminerebbe l’ipotesi dell’esistenza di una «potestas iurisdictionis» di origine ecclesiastica.

In questo senso dovrebbe anche essere intepretato il nuovo concetto di ufficio ecclesiastico introdotto dal progetto di codificazione del 1980, sulla scorta del Vaticano II (PO 20, 3). Contrariamente al can. 145 § 1 del CIC, il can. 142 § 1 di questo progetto non presuppone più che il titolare dell’ufficio ecclesiastico sia necessariamente detentore della «potestas sacra» («sive ordinis sive iurisdictionis»). Ne consegue che, come prevede il can. 273 § 1 dello stesso progetto, la nozione di ufficio ecclesiastico può essere applicata «strictu sensu» anche agli uffici conferibili ai laici.

Secondo la medesima ipotesi si può interpretare anche la nozione di «potestas publica» introdotta nel diritto orientale dai can. 153 del Motu proprio Cleri sanctitati (del 1957) e 305 del Motu proprio Postquam apostolicis litteris (del 1958). La dottrina ha fatto finora diverse ipotesi interpretando la «potestas publica» come «potestas» di diritto ecclesiastico oppure come «potestas dominativa». L’uso della nozione di «potestas» impedisce tuttavia di chiarire la questione. Infatti la nozione di potestas appare più che mai incontrovertibilmente legata sia alla «potestas sacra», sia alla nozione di ufficio formulata dal can. 145 § 1 del CIC del 1917, vale a dire alla nozione di ufficio che la Chiesa crea non a partire da necessità socio-organizzative, bensì dallo statuto sacramentale dei ministri ordinati.

L’originalità della riforma protestante era consistita nel fatto di concepire gli uffici della Chiesa come semplici funzioni organizzative – parallelamente a quanto avviene negli ordinamenti statuali moderni – non derivandoli dall’ordine sacro, ma semplicemente dall’ufficio generale della predicazione («ministe- rium verbi»), proprio a tutta la Chiesa, conferibile a tutti i fedeli investiti dal sacerdozio comune. La Chiesa cattolica per contro ha sempre istituzionalizzato gli uffici prima di tutto sulla base delle funzioni inerenti allo stato sacerdotale. L’ordinamento giuridico non ha fatto che precisare ulteriormente i profili istituzionali degli stessi, subendo nel corso della storia diverse oscillazioni, senza però intaccare le competenze sostanziali conferite dall’ordine sacro.

Poste queste premesse, diventa sempre più urgente il tentativo di distinguere dal profilo dottrinale i compiti ecclesiali legati esclusivamente alla «sacra potestas» e quelli che possono essere svolti anche in forza del solo sacerdozio comune. Affinché questi ultimi possano essere conferiti a persone disposte non solo ad esercitarli, ma anche ad assumerne la responsabilità davanti alla Chiesa, è inevitabile che essi vengano giuridicamente istituzionalizzati come uffici ecclesiastici secondo la nozione introdotta dal Vaticano II e dal progetto di codificazione del 1980.

Del resto, la preoccupazione del Vaticano II di creare nella Chiesa uno spazio istituzionalmente più rilevante per i laici – in quanto espressione del sacerdozio comune – emerge con evidenza sia dal quarto capitolo della Lumen gentium sia del fatto che il Concilio ha dedicato ad essi un intero documento, YApo- stolicam actuositatem. Anche la tendenza della Chiesa post-conciliare di configurare giuridicamente la posizione dei fedeli in genere e dei laici in particolare, fino a riconoscerli non solamente come soggetto di diritti – secondo un’ampiezza di concezione sconosciuta al CIC del 1917 – ma addirittura come soggetto di diritti fondamentali”, sono la conferma che il sacerdozio comune è considerato dal Magistero – al pari di quello ministeriale – come realtà istituzionale[54].

La necessità di creare uno spazio costituzionale e giuridico sempre più vasto per la partecipazione dei laici alla vita ed alla gestione della Chiesa impone, oltre che di riuscire a individuare con precisione tutte le potenzialità operative proprie del sacerdozio comune, di instaurare anche una prassi ecclesiale in cui non vengano più affidati ai chierici, come nel passato, compiti di supplenza rispetto ai laici, se non in via eccezionale.

L’egemonia quasi costante esercitata dai chierici nella Chiesa ha impedito fino ad oggi uno sforzo conseguente per individuare con maggiore precisione le funzioni essenziali al sacerdozio ministeriale in vista di riconoscere ai fedeli, anche a livello istituzionale, il pieno esercizio del loro sacerdozio comune. Ciò spiega l’incertezza con la quale molte volte la Chiesa si è mossa in questo settore ed il ricorso a soluzioni di natura volontaristica per delegare ai laici alcuni poteri di giurisdizione.

Nel risolvere questi problemi è fondamentale rendersi conto della precarietà dottrinale in cui la Chiesa ha versato fino ad oggi. Dal punto di vista metodologico la questione non può essere affrontata contrapponendo certe prassi del passato o certe norme dell’ordinamento canonistico attuale, interpretate con criteri prevalentemente positivistici, ad una dottrina teologica – quella dell’unità ed unicità della «sacra potestas» – che sembra derivare con ineluttabile chiarezza da una riflessione coerente sull’insegnamento del Vaticano II. Si tratta invece di rileggere la storia e l’ordinamento canonico a partire da questa dottrina, senza escludere «a priori» che la prassi della Chiesa, come la normativa giuridica, possano essere riorientate a partire dalla dottrina stessa. Solo una politica ecclesiale coerente con il principio della priorità costituzionale del sacerdozio comune di tutti i fedeli su quello ministeriale può permettere di valorizzare senza riserve tutti gli sviluppi istituzionali potenzialmente inerenti allo statuto del sacerdozio comune di tutti i fedeli.

Ciò avrebbe un duplice vantaggio: quello di evitare, da una parte che i laici facciano ricorso ad un tipo di rivendicazione d’ispirazione più democratica che ecclesiale per strappare al clero una parte del «potere»; dall’altra, che la gerarchia cada nella tentazione, ancora più insidiosa perché sfocerebbe in una clericalizzazione dei laici, di gratificarli concedendo loro l’uso di una parte della «potestas sacra» ed associandoli così ad un ministero di cui non possono comunque disporre in proprio[55].

Una simile politica offuscherebbe ancora di più l’immagine teologica del sacerdozio comune. I fedeli invece di essere considerati come gli interlocutori o l’oggetto del servizio ecclesiale della gerarchia, diventerebbero il soggetto che la deve servire.

 

 

[1] Cfr. E. Corecco, Smodalità, in: Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di G. Barbaglio e S. Dianich, Roma 1977, 1489ss.

[2] LG 14, 1.

[3] LG 10, 2 (prima frase).

[4] Su tutta questa problematica, cfr. H. U. von Balthasar, Christlicher Stand, Ein- siedeln 1977, 145-202.

[5] Cfr. FU 2, 6-11.

[6] La legge nuova, infatti, si diversifica da quella antica perché non è più «extrinse- cus posita», cioè imposta come intimazione all’uomo peccatore, ma «intrinsecus data», contemporaneamente alla grazia che infonde la forza per adempierla nella gioia e nella libertà dell’amore. San Tommaso, tenendo conto dei testi paolini che più tardi saranno lasciati in ombra da Lutero, stabilisce addirittura un’identità tra la «legge» e il «vangelo», usando la formula sintetica della «nova lex evangelii»: «Lex nova est ipsa gratta (seu ipsa praesentia) Spiritus Sancii, quae (qui) datur Christi fidelibus» (5. Th. I-II, q. 106, a. 1). La grazia è comunque legge solo in senso analogico perché l’essenza della nuova legge non sta più fondamentalmente nel carattere legale, ma nel fatto di essere donata come grazia, allo stesso modo della fede e dello Spirito Santo. Nel definire Cristo come «grazia» la teologia cattolica ha inteso sottolineare il fatto che il processo della giustificazione trasforma interiormente l’uomo. La grazia è concepita come realtà ontologica comunicata all’uomo per donargli la forza di adempiere la nuova legge, senza abolire quella antica. Essa segna una progressione dall’imperfetto al perfetto, dalla legge naturale a quella soprannaturale. Non è casuale il fatto che mentre Lutero ha ravvisato nella tematica «legge e vangelo» il punto centrale dell’economia della salvezza, la tradizione cattolica aveva dato la preferenza alla formula «legge e grazia» – più connaturale alle inclinazioni profonde della teologia latina -, in cui aveva rielaborato il tema neotestamentario, che nella teologia paolina era emerso nella provocazione dialettica del binomio «legge e Cristo». Nel definire Cristo come «vangelo», Lutero, che si muove dentro l’orizzonte nominalista e volontarista del tardo medioevo, ha voluto sottolineare con forza la non «imputatio» del peccato. La grazia è solo una presenza estrinseca, anche se salvifica, di Cristo nell’uomo. Sostituendo il binomio «legge e grazia» con «legge e vangelo», Lutero, per il quale la «suprema arte della cristianità» consisteva nel saper distinguere tra i due elementi, ha voluto dar corpo a una duplice protesta: quella contro la Chiesa di Roma, per aver questa sepolto la parola e la legge di Dio sotto la parola e il diritto della Chiesa, e quella contro la teologia scolastica, per aver questa sostituito l’idea della giustificazione in forza della sola giustizia di Dio con una giustificazione in virtù anche delle opere meritorie compiute sotto la legge con l’aiuto della grazia creata santificante. Lutero non ammette che l’economia della «sola gratia» possa essere snaturata a sistema religioso fondato ancora sulla legge, dove le opere della legge naturale, anche se compiute con l’aiuto della grazia, sono richieste per la giustificazione. Le opere della legge naturale non sono buone in se stesse: esse sono buone solo in quanto compiute in obbedienza a Dio che ci ha salvati; quindi non trasformano interiormente l’uomo, ma servono solo a rendere palese agli altri il miracolo della remissione dei peccati da parte di Dio. La preoccupazione dominante della teologia agostiniano-tomista è stata invece soprattutto quella di stabilire sia l’unità tra i due elementi che la continuità dei contenuti tra legge antica e quella nuova. La legge antica non si contrappone a quella nuova, poiché i suoi contenuti essenziali rimangono anche sotto il regime della grazia. Cfr. E. Corecco, Teologia del Diritto Canonico, in: Nuovo Dizionario di Teologia, cit., 1722-1723.

[7] LG 10, 2; 18, 1.

[8] LG 10, 2.

[9] La divisione della natura umana, di cui parla san Paolo quando afferma che l’uomo sposato è diviso, dipende dal fatto che, grazie al sacramento, solo il rapporto di indissolubilità, già intrinseco nel rapporto tra l’uomo e la donna nello stato di giustizia originale, è stato restaurato. Gli elementi costitutivi e complementari dello stato di giustizia originale, vale a dire la fecondità nella verginità (riemerso nella verginità della Madre di Dio, nata senza peccato originale), il dominio sulla realtà creata senza la proprietà privata e l’obbedienza nella totale libertà, hanno perduto la capacità che pur avevano di offrire in quanto tali, senza l’appoggio della fecondità fisica del matrimonio, un’alternativa reale e autonoma all’esperienza umana nella storia. Essi non costituiscono infatti una restaurazione della natura nello stato di peccato, ma una memoria dello stato di giustizia originale. Anche l’istituzione dei consigli evangelici non può essere spiegata facendo semplicemente ricorso a una scelta volontaristica di Cristo. In quanto memoria dello stato di giustizia originale e segno profetico dello stato della natura umana nella visione beatifica, essi costituiscono l’elemento di continuità tra i due poh della storia dell’umanità: lo stato originale e lo stato finale, in cui lo stato di giustizia originale sarà restaurato e superato dalla visione beatifica. Cfr. E. Cokecco, Il sacramento del matrimonio: cardine della costituzione della Chiesa, «Strumento Internazionale per un Lavoro Teologico Communio» 51 (1980), 14; cfr. anche H. U. von Balthasar, Christlicher Stand, cit., 128-136.

[10] Cfr. E. Corecco, La “sacra potestas” e i laici, «Studi Parmensi» 28 (1980), lss.

[11] La distinzione terminologica (usata da von Balthasar) tra sacerdozio oggettivo e soggettivo, attivo e passivo, può essere discussa. Potrebbe dare adito a malintesi se fosse interpretata nel senso che solo il sacerdozio ministeriale appartiene all’istituzione della Chiesa. In realtà tutti e due i sacerdozi, quello comune e quello ministeriale, sono elementi istituzionali della costituzione della Chiesa (su questo problema cfr. sotto, nota 53). È interessante comunque constatare che i testi dei capitoli terzo e quarto della LG dove è affrontato il problema della partecipazione dei ministri ordinati (i vescovi) e dei laici ai «tria muñera Chris ti» esprimono la diversa modalità di partecipazione secondo una prospettiva che può senza dubbio essere caratterizzata terminológicamente come oggettiva e soggettiva. È oggettiva la partecipazione dei ministri ordinati poiché intesa formalmente come partecipazione alla funzione di servizio o autorità che Cristo esercita sulla Chiesa e che la Chiesa esercita verso i fedeli. È soggettiva quella dei fedeli (che il Concilio identifica in questi testi con i laici) poiché intesa come partecipazione agli stessi «muñera», ma non in vista dell’esercizio di una funzione autoritativa intraecclesiale, ma come assunzione personale, in vista del proprio bene e per il bene di tutto il mondo, dell’oblazione stessa con la quale Cristo si dona al Padre e gli consegna il mondo redento. Mentre i ministri ordinati hanno il compito di predicare la Parola con autorità (LG 25), di presiedere l’eucaristia (LG 26) e di governare la Chiesa con la «sacra potestas» loro conferita dal sacramento dell’ordine (LG 27), i laici (cioè i fedeli in quanto tali) sono chiamati a dare testimonianza personale al mondo della loro fede (LG 35), a partecipare al sacrificio spirituale di Cristo stesso con le loro opere, la loro preghiera, le iniziative apostoliche, la vita coniugale e il lavoro giornaliero (LG 34), a vivere una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo sia imbevuto dello Spirito di Cristo (LG 36).

[12] II progetto della nuova codificazione e la «Lex Ecclesiae fundamentalis» sono citati in questo articolo secondo i testi stampati del 1980 e, rispettivamente, del 1978.

[13] Malgrado mezzo secolo di riflessione teologica (cfr., per esempio, E, Schille- beeckx, Definizione del laico cristiano, in: La Chiesa del Vaticano II, a cura di G. Baraù- na, Firenze 1965, 972ss) e malgrado il contributo dato dal Concilio, che ha proposto due elementi circa la natura teologica dei laici, quello della loro partecipazione («suo modo») ai «tria munera» di Cristo e quello della loro «indoles saecularis» (LG 31,2 e 3), la questione della definizione teologica del laico rimane aperta. Infatti, soprattutto circa la natura teologica e sociologica dell’indole secolare non esiste ancora accordo tra gli autori. Per la natura sociologica è per esempio K. Mörsdorf (Die Zusammenarbeit von Priestern und Laien, in: Veröffentlichung der katholischen Akademie der Erzdiözese Freiburg i. Br., n. 11, Karlsruhe 1968, 13ss); per la seconda interpretazione si orienta invece von Balthasar (Der Christlicher Stand, cit., 203ss). Sulla questione cfr. anche F. Daneels, De subiecto officii ecclesiastici attenta doctrina Concila Vaticani II. Sunt-ne laici officii ecclesiastici capaces?, Roma 1973. Il secondo aspetto del problema è quello della possibilità che ai laici possa essere delegata la «potestas sacra». Il problema è particolarmente acuto nei paesi dell’Europa centrale, dove da un decennio la figura del teologo laico è diventata determinante per tutta la vita ecclesiale, soprattutto in seguito agli interventi di K. Rahner con la tesi secondo cui i laici che assumono uffici ecclesiastici stabili cessano di appartenere allo stato laicale per entrare in quello ecclesiastico. La Chiesa insisterebbe nel non volerli riconoscere come appartenenti al clero per non dover cedere sulla questione del celibato. Questa tesi del Rahner presuppone evidentemente che dalla «potestas sacra» si possa isolare il potere di giurisdizione e che questo possa esser delegato anche ai laici. Su tutta questa problematica, cfr. sotto, n. 3, conclusioni.

[14] Se il matrimonio non fosse stato elevato a sacramento il rapporto uomo-donna rimarrebbe sottratto alla restaurazione specifica della Grazia: troppo corrotto per essere ancora capace di svolgere la funzione culturale assegnatagli da Dio per il destino dell’umanità. Senza il sacramento del matrimonio anche la Chiesa rimarrebbe disincarnata e in posizione estrinseca rispetto all’esperienza storica dell’umanità, entro la quale il matrimonio ha conservato, sia pure in modo non esclusivo, la centratità di significato ricevuto nell’economia della creazione. La Chiesa diventerebbe in questo modo una semplice sovrastruttura rispetto alla storia reale dell’uomo, poiché non la compenetrerebbe con l’efficacia della Grazia in uno dei suoi elementi imprescindibilmente costitutivi. La motivazione ultima dell’elevazione del matrimonio a sacramento deve essere perciò individuata nella natura e funzione storica del matrimonio stesso. Senza il presupposto della fecondità fisica del matrimonio l’umanità si estinguerebbe. Alla Chiesa verrebbe così a mancare il presupposto naturale della propria esistenza, anche se la sua crescita numerica non avviene in forza del sacramento del matrimonio, ma in forza del dono della fede, dato individualmente e costantemente elargito dallo Spirito. Nel sacramento del matrimonio – in cui si realizza la Chiesa – la natura («de- leta») e la soprannatura trovano il punto di sutura, compenetrandosi nell’unità. Cfr. E. CORECCO, Il sacramento del matrimonio: cardine della costituzione della Chiesa, cit., 75.

[15] Cfr. H. U. von Balthasar, Christlicher Stand, cit., 237-266.

[16] UR 19, 1-2,4.

[17] UR 22,3.

[18] Sul problema cfr. A. M. Stickler, La bipartición de la potestad eclesiástica en su perspectiva histórica, «Ius Canonicum» 15 (1975), 45ss; Id., Die Zweigliedrigkeit der Kirchengewalt bei Laurentius Hispanas, in: Ius Sacrum. Klaus Mörsdorf zum 60. Geburtstag, hrsg. von A. Scheuermann und G. May, München-Paderborn-Wien 1969, 181ss.

[19] Gli elementi teologici che orientano verso una concezione unitaria della «pote- stas sacra» sono: il principio della sacramentalità dell’episcopato (LG 21); il principio tratto dal can. 118, secondo cui il potere di giurisdizione può essere conferito solo ad una persona ordinata; la possibilità di dare una nuova interpretazione alla distinzione tra ordine e giurisdizione. Su tutto il problema cfr. E. Corecco, La “sacra potestas” e i laici, cit., 5-26.

[20] Cfr. can. 6.

[21] Sulla disputa circa la posizione tenuta da Graziano, cfr. A. M. Stickler, Die Zweigliedriegkeit, cit., 205.

[22] Cfr. K. Mörsdorf, Die Entwicklung der Zweigliedrigkeit der kirchlichen Hierarchie, MThZ 3 (1951), Iss; Id., Weihegewalt und Hirtengewalt in Abgrenzung und Bezug, «Miscellanea Comillas» 16 (1951), 95ss; Id., Heilige Gewalt, in: Sacramentum Mundi, II, Freiburg-München-Wien 1968, 582ss.

[23] Cfr. W. Aymans, “Volk Gottes” und “Leib Christi” in der Communio-Struktur der Kirche. Ein kanonisticher Beitrag zur Ekklesiologie, TThZ 81 (1972), 321-334.

[24] Seguendo il solco tracciato da san Tommaso d’Aquino, per il quale il Papa, dal punto di vista della celebrazione dell’eucaristia, non possiede un potere superiore non solo a quello di un vescovo, ma neppure a quello di un semplice prete, la teologia cercò la differenza tra l’episcopato ed il presbiterato al di fuori del sacramento. Ne seguì un’articolazione del potere episcopale da due direzioni diverse: mentre per quello di ordine si partiva dal basso, considerando l’episcopato solo come un sacerdozio di grado superiore, per il potere di giurisdizione si partiva dall’alto, ritenendolo trasmesso direttamente dal papa. A livello istituzionale la separazione tra queste due funzioni della «potestas sacra» ha trovato la sua espressione più aberrante nel tardo medioevo e dopo il Concilio di Trento, nella prassi adottata dai vescovi-principi di reggere la diocesi solo in forza del potere di giurisdizione, senza ricevere la consacrazione episcopale, e facendosi supplire nell’ambito del potere sacramentale, dai vescovi ausiliari. Cfr. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. Aspetti storico-giuridici e metodologico-sistematici della questione, «La Scuola Cattolica» 96 (1968), 6-18; 35-52; 118-119; cfr. anche R. Weigand, Änderungen der Kirchenverfassung durch das II. Vatikanische Konzil, AfkKR 135 (1966), 398-399.

[25] Cfr. J. Fuchs, Vom Wesen der kirchlichen Lehrgewalt. Eine Kontroverse des 19. Jahrhunderts. Historischer Beitrag und systematischer Versuch, Theol. Diss., Münster i. W. 1946, passim. I risultati di questa ricerca sono stati utilizzati dall’autore in altre pubblicazioni, come: Magisterium, Ministerium, Regimen. Von Ursprung einer ekkle- siologischen Trilogie, Bonn 1941; oppure: Weihesakramentale Grundlegung kirchlicher Rechtsgewalt, «Scholastik» 16 (1941), 496ss. Cfr. anche K. Nasilowski, Distinzione tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione dai primi secoli della Chiesa sino alla fine del periodo dei decretisti, in: Potere di ordine e di giurisdizione. Nuove prospettive, Roma 1971, 89ss.

[26] Cfr. K. Mörsdorf, Munus regendi et potestas iurisdictionis, in: Acta Conventus Intenationalis Canonistarum, Romae diebus 20-25 maii 1968 celebrati, Typis Poliglottis Vaticanis 1970, 199ss.

[27] Cfr. Id., De Sacra Pote state. Quinquagesimo volvente anniversario a Codice Iuris Canonici promulgato. Miscellanea in honorem Dini Staffa et Periclis Felici S.R.E. Cardinalium, I, Romae 1967, 41ss. Per un’analisi critica di questa tripartizione, cfr. Ch. Journet, L’Église du Verbe Incarnò, I, (s.l.) 1955, 203-215. Per una lettura molto approfondita della LG, cfr. P. Krämer, Dienst und Vollmacht in der Kirche. Eine rechtstheologische Untersuchung zur Sacra Potestas-Lehre des II. Vatikanischen Konzils, Trier 1973, spec. 22-48; G. Ghirlanda, Hierarchica communio, Roma 1980, spec. 410-429.

[28] Lettera Ad universos Ecclesiae Sacerdotes, adveniente Feria V in Coena Domini, in: AAS, 1979, 393ss, 3 (traduzione italiana dell’autore). Cfr. anche W. Kasper, Die Heilsendung der Kirche in der Gegenwart, Mainz 1970, 61.

[29] Cfr., per esempio, E. Doronzo, Tractatus Dogmaticus. De Ordine, III, Milwaukee (Wisconsin) 1962, 324-370. Nonostante le formulazioni non sempre chiare riteniamo che Corrado Baisi nel suo volume II ministro straordinario degli ordini sacramentali (Roma 1935, spec. 136, 153-158) segua questa prima teoria e non sia invece nella scia di Johannes Morinus (Commentarius de sacris Ecclesiae ordinationibus, Parishs 1965, 104-107), fautore della seconda teoria come sostiene il Doronzo (ibidem, 362-363).

[30] Can. 872.

[31] Circa questi casi, che datano dalla fine del xv secolo, cfr. C. Baisi, Il ministro straordinario, cit., spec. 7-28.

[32] Cfr. E. Corecco, Lorigine del potere di giurisdizione, cit., 10-42, 107-119. Cfr. anche R. Giraldo, Rapporto tra poteri papali e consacrazione episcopale, Vicenza 1978.

[33] Cfr. E. Doronzo, De Ordine, cit., 359; cfr. anche C. Vagaggini, Possibilità e limiti del riconoscimento dei ministeri non cattolici. Riflessioni a partire dalla prassi dell”‘economia” e dalla dottrina del “carattere”, in: Ministères et célébration de l’Eucharistie: Sacramentum I, Studia Anselmiana 61, 1973, 254, 271.

[34] Cfr. K. Mörsdorf, Weihegewalt und Hirtengewalt, cit., 105.

[35] Per una esatta interpretazione di questa dottrina, cfr. H. Müller, De differentia inter Episcopatum et Presbyteratum iuxta doctrinam Concila Vaticani secundi, PRMCL 59 (1970), 599-618.

[36] Cfr. E. Doronzo, De Ordine, cit., 362ss; cfr. anche W. Bertrams, Il potere pastorale del papa e del collegio dei vescovi. Premesse e conclusioni teologico-giuridiche, Roma 1967, spec. 1-61; Id., De potestatis episcopalis exercitio personali et collegiali, PRMCL 53 (1964), 455ss.

[37] Giova notare che la distinzione tra ordine e giurisdizione è estranea alla teologia ortodossa; cfr. P. Anciaux, UEpiscopat (ordo episcoporum) comme réalité sacramentelle, NRT 85 (1963), 156.

[38] Cfr. K. Mörsdorf, Zur Grundlegung des Rechtes der Kirche, MThZ 3 (1952), 329ss.

[39] Questo vale in primo luogo per la nozione «iurisdictio», sviluppatasi in Stretta dipendenza dalla dottrina giuridica secolare; cfr. E. CORECCO, L’origine del potere di giurisdizione, cit., 9-10, n. 29. Affermare però che il linguaggio giuridico è incapace di cogliere la verità teologica equivale a svuotare il diritto canonico di ogni valenza teologica; cfr. T. Jiménez Urkesti, Kirchenrecht und Theologie. Zwei verschiedene Wissenschaften, «Concilium» 3 (1967), 608-612.

[40] Cfr. L. Scheffczyk, Von der Heilsmacht des Wortes, München 1966, 168-169, 264-272.

[41] G. Söhngen nel suo libro Symbol und Wirklichkeit im Kultmysterium (Bonn 1937,18) ha colto il problema con questa formulazione significativa: «Vom Worte wird das Sakrament mit der Fülle mächtiger Geistlichkeit und vom Sakrament wird das Wort mit der Fülle geistlicher Wirklichkeit erfüllt».

[42] L’ordine e la giurisdizione operano però anche in modo relativamente autonomo, come il Sacramento e la Parola. Come la Parola può essere predicata senza una concomitante celebrazione del Sacramento, così è possibile che la Chiesa ponga atti di giurisdizione senza stabilire un nesso immediato con il sacramento dell’ordine. Il rapporto tra Parola e Sacramento esiste sempre, sia in forza del fatto fondamentale che la Parola tende strutturalmente ad «incarnarsi» nella celebrazione del Sacramento – come il Sacramento tende a provocare l’esplicitazione della Parola – sia in forza del fatto che il ministro della giurisdizione è anche ministro del sacramento.

[43] Cfr. M. U. Caksetero, Statuta Ecclesiae y Sacramenta Ecclesiae en la Ecclesiologia de Santo Tomas, Roma 1962, 186-324.

[44] A differenza della Parola, che non contiene in se stessa gli elementi materiali specifici del segno sacramentale (anche se esiste una simbolicità propria del linguaggio parlato), il Sacramento, invece, implica sempre la Parola come parte integrante di se stesso. Il segno simbolico, infatti, diventa Sacramento solo a condizione che la Parola ne espliciti (almeno attraverso la formula sacramentale) il suo significato soprannaturale. La riforma liturgica ha messo meglio in evidenza questo nesso facendo precedere ad ogni celebrazione sacramentale un’ampia celebrazione della Parola, il cui scopo è quello di esplicitare, in modo più organico e globale di quanto non lo facesse la liturgia precedente, il significato del segno simbolico materiale del sacramento. Mentre la Parola può rendere operante la «potestas sacra» in modo relativamente autonomo rispetto al Sacramento, il Sacramento non è concettualmente pensabile senza la Parola. La concomitanza, nel Sacramento, del segno simbolico soprannaturale e della Parola spiega perché sia possibile accettare la tesi secondo cui tutta la «potestas sacra» è trasmessa dal sacramento dell’Ordine.

[45] L’affronto di questo problema implica una serie di considerazioni che porterebbero il discorso molto lontano, fino a toccare il tema dell’applicabilità, in Diritto canonico, del principio della certezza giuridica. Tuttavia è evidente quanto sia importante rendersi conto che la giuridicità del Diritto canonico è diversa da quello statuale e che il problema della certezza giuridica non può essere risolto prescindendo dalla valenza teologico-giuridica che deve essere attribuita alla «icommunio», in quanto realtà ontologica costitutiva della struttura costituzionale della Chiesa. Cfr. E. Corecco, Valore dell’atto «contra legem», in: La norma en el derecho canònico. Actas del III Congreso Internacional de Derecho Canònico, I, Pamplona 1979, 839ss.

[46] Ammesso che non esistano ragioni teologiche stringenti per negare la fondatezza delV«opimo Hieronimi», secondo cui un presbitero può ordinare sempre validamente un altro presbitero, una simile ordinazione – sempre che la «substantia sacramenti» sia salva – dovrebbe essere valutata dal profilo della validità o della liceità solo in rapporto al fatto che essa si realizzi nell’ambito della «communio ecclesiale» o della «communio hierarchica, seu piena». La mancanza dell’indulto papale di per sé impedisce solo l’inserimento del neo-consacrato nella «communio hierarchica», ma non invalida il sacramento in quanto tale. Una simile ordinazione può provocare una «excommunica- tio» formale, che non priva però né il consacrante né il consacrato dello statuto di appartenenza all’unica Chiesa di Cristo. Lo priva solo dell’esercizio di alcuni diritti fondamentali in seno alla Chiesa cattolica o, eventualmente, in seno ad una Chiesa non cattolica se ad essa dovesse appartenere. Cfr. C. Vagaggini, Possibilità e limiti del riconoscimento, cit., 259; 277-282.

[47] È necessario distinguere tra il caso del sacerdote singolo che rompe con la Chiesa cattolica perché abbandona il proprio ministero o ne abusa, ed il caso di un ministro che appartiene ad una Chiesa separata, dove la successione apostolica ed i sacramenti sono oggettivamente garantiti. Mentre è possibile che nel primo caso l’unità ecclesiale venga rotta in modo così grave da togliere al ministro ogni legittimazione per rappresentare la Chiesa cattolica e di conseguenza per riconciliare il penitente con la stessa, nel secondo caso la «communio», pur essendo imperfetta, mantiene ancora uno spessore ecclesiale tale da giustificare un riconoscimento, tra le Chiese, della validità dei rispettivi sacramenti. In effetti la defezione di una singola persona non può creare da sola un’alternativa ecclesiale valida, come avviene negli scismi e nelle eresie collettive. Questo spiega perché la Chiesa cattolica non solo riconosce come valide le assoluzioni sacramentali impartite da un ministro ortodosso ai fedeli ortodossi, ma anche ai fedeli cattolici. Cfr. Directorium ed ea quae a Concilio Vaticano Secando de re oecumenicapromulgata sunt exequenda, pars prima (14 maii 1967) nn. 39-45; edito nella serie Nachkonziliare Dokumentation, Band 7, Trier 1967.

[48] Quantunque non sia storicamente provato che la distinzione tra atto invalido ed illecito sia stata introdotta nella canonistica – come ha sostenuto Sohm – nel xii secolo in seguito alla mondanizzazione subita dal diritto ecclesiale a contatto con il diritto corporativistico medievale, è però vero che la distinzione è stata gestita dalla Chiesa con criteri troppo spesso marcati dalla mentalità giuridica secolare. Se da una parte non è possibile abolire dalla canonistica il concetto di invalidità che, come ha fatto giustamente notare Sohm, è legato strutturalmente al diritto sacramentale, dall’altra è urgente ricommisurarla rigorosamente con la realtà sostanziale della Chiesa. L’esercizio della «sacra potestas» può essere ritenuto invalido solo quando si realizza al di fuori del grado minimo di comunione che garantisce l’esistenza di una realtà ancora definibile come ecclesiale. Solo l’assenza degli elementi oggettivi minimali della «communio» rende inefficace, cioè invalida, la «potestas». In questo caso le ordinazioni sono invalide perché poste dentro una realtà che non ha più minimamente la struttura specifica della Chiesa. Se la mancanza di comunione dovesse invece significare solo un essere «extra communionem hierarchicam, seu plenam», il problema della validità si trasforma per la Chiesa cattolica in un problema di liceità.

[49] Cfr. Th. J. Bowe, Religious Superioresses, Washington D.C. 1946, 20ss.

[50] Cfr. I. Gampl, Adelige Damenstifte, Wien-München 1960, 115ss.

[51] Su questi problemi cfr. U. Mosiek, Verfassungsrecht der lateinischen Kirche, Band I, Grundfragen, Freiburg i. Br. 1975, 217-229; A. Szentirmai, Jurisdiktion für Laien?, ThQ 140 (1960), 410-426; A. Doglio, De capacitate laicorum ad potestatem ecclesiasticam, praesertim iudicialem, Romae 1962, spec. 33ss.

[52] Sull’interpretazione del significato del Motu proprio Causas Matrimoniales per lo statuto dei laici che esercitano l’ufficio di giudici, cfr. la controversia sorta tra K. Lüdicke (Laien als kirchliche Richter, ÖAfkR 28 [1977], 332-352) e W. Aymans (Laien als kirchliche Richter?, AfkKR 144 [1975], 3-20).

[53] Sulla impossibilità di riconoscere ai diritti del cristiano nella Chiesa la qualifica della «fondamentalità», cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fonda- mentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Aspetti metodologici della questione, in: I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella Società. Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Fribourg 6-11 ottobre 1980, a cura di E. Corecco- N. Herzog-A. Scola, Fribourg (Suisse)-Freiburg i. Br.-Milano 1981, 1207-1234.

[54] Anche la dimensione carismatica appartiene alla costituzione o all’essenza della Chiesa ma, in quanto tale, è diversa e si distingue dall’istituzione. Per cui è esatto affermare, come fanno alcuni teologi (cfr., per esempio, G. Colombo, La teologia della Chiesa locale: La Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970,30-33) che, oltre alla Parola e al Sacramento, anche il carisma è un elemento costitutivo della Chiesa. Mentre però i primi per la loro reciprocità strutturale convergono nel Sacramento, in cui la Parola si concretizza, per generare la struttura istituzionale, il carisma per sua natura presuppone l’esistenza dell’istituzione. In quanto espressione privilegiata della presenza e dell’attività dello Spirito Santo, il carisma ha come funzione quella di provocare l’istituzione ad un’autenticità e ad una vitalità che le permettano di essere realmente espressione del ministero della Chiesa. Malgrado le apparenze e malgrado le teorizzazioni avvenute nel corso della storia, l’antinomia reale nella vita della Chiesa non è stata quella tra carisma ed istituzione – identificata quest’ultima, riduttivamente, con il sacerdozio ministeriale o gerarchico -, ma tra laici e chierici e perciò, ultimamente, tra il sacerdozio comune e quello ministeriale. La storia della Chiesa è stata segnata dalla costante tensione esistente tra i laici ed i chierici. In realtà il carisma, per sua natura e vocazione, non genera nella Chiesa contraddizioni o antinomie. Se l’antinomia è apparsa e, in quanto tale è stata messa a tema prevalentemente come contraddizione tra carisma ed istituzione, è perché il presupposto tacitamente sotteso, e non sufficientemente verificato, era che il carisma si manifestasse solo o quasi esclusivamente tra i fedeli, intesi non tanto nel senso teologico dato loro dal Vaticano II, quanto nel senso sociologico di elemento «base» della Chiesa. In realtà la Riforma protestante, in cui sono sfociate le istanze dei movimenti spiritualistici della Chiesa antica e del medioevo, ha contrapposto il sacerdozio comune dei laici al sacerdozio ministeriale, credendo di contrapporre il carisma all’istituzione. Ha contrapposto, fino a provocarne la rottura, un polo dell’istituzione all’altro: quello del laicato sottovalutato soprattutto nel medioevo – che è stata un’epoca di forte clericalizzazione della Chiesa – e quello, da sempre egemone, della gerarchia. Da questo punto di vista il Concilio Vaticano II, ribadendo che il carisma è dato ai «fedeli di ogni ordine» dallo Spirito Santo (LG 12, 1) e perciò ai chierici, ai religiosi ed ai laici, è stato estremamente liberante. Ciò significa che il carisma, come insegna la storia della Chiesa, può contestare o provocare l’istituzione sia quando è dato, come dono dello Spirito Santo, al sacerdozio ministeriale, sia quando è fatto emergere nel sacerdozio comune. Il carisma è sempre dato all’intemo della costituzione della Chiesa, nella sua bipolarità di sacerdozio comune e ministeriale. Il problema strutturale della Chiesa non è perciò quello di realizzare l’unità tra il carisma e l’istituzione, ma l’unità tra il sacerdozio comune e quello ministeriale. L’istituzione – cioè il sacerdozio comune e quello ministeriale – ha bisogno del carisma per realizzare l’equilibrio all’intemo della propria bipolarità. Richiamando alla dimensione escatologica dell’esistenza della Chiesa, il carisma sostiene l’istituzione nella ricerca della propria unità, minacciata costantemente dalla latente antinomia generata dal sorgere sempre possibile dell’equivoco mondano di concepire il servizio come potere che nella Chiesa si è spesso manifestato nell’egemonia esercitata dai chierici sui laici e, qualche volta, dei laici sulla gerarchia. Tra le molteplici forme assunte dai carismi i consigli evangelici rappresentano una modalità fondamentale. Questa è la ragione per cui sono stati riconosciuti dalla Chiesa anche a livello giuridico. È solo in forza di un equivoco grossolano sulla loro natura, che il progetto del nuovo codice ha potuto valutarli e classificarli, dal profilo sistematico, come una delle tante forme di associazione possibili in seno alla Chiesa, fosse pure come forma più importante o preminente. I movimenti hanno nella Chiesa una funzione analoga a quella dello «status perjectionis» nella misura in cui anch’essi sono espressione dei carismi suscitati dallo Spirito. Infatti è facile constatare che all’intemo dei movimenti il problema della contrapposizione o dell’antinomia tra sacerdozio comune e ministeriale non emerge, o non si pone con la stessa insistenza con la quale appare solitamente nella Chiesa. Per questa loro funzione di segno all’intemo della Chiesa, i movimenti, che forse per la prima volta nella storia della Chiesa moderna si caratterizzano per la loro dimensione intemazionale (cfr. la relazione di mons. Luca Morei- ra Neves al I Convegno Intemazionale Movimenti nella Chiesa svoltosi a Roma dal 23 al 27 settembre 1981. Atti in pubblicazione), hanno diritto di essere riconosciuti in quanto tali, analogicamente agli istituti religiosi. Sarebbe un modo di concretizzare anche giuridicamente il fatto che i carismi, quando sono autentici e come tali riconosciuti dal sacerdozio ministeriale, non sono suscitati nella Chiesa per l’usufrutto individuale, ma per l’utilità di tutta la Chiesa (cfr. E. CORECCO, Profili istituzionali di movimenti nella Chiesa. Relazione al I Convegno Internazionale Movimenti nella Chiesa. Atti in pubblicazione).

[55] La teologia del laicato ha avuto il compito storico di permettere, attraverso la necessaria delimitazione della funzione del clero e la precisazione del reciproco rapporto tra chierici e laici, un inserimento attivo di questi ultimi nella vita della Chiesa. I limiti di questa teologia rispetto ad una teologia del sacerdozio comune sono già stati implicitamente constatati nella prima parte di questo articolo. Anche il recente documento della CEI {Nota Pastorale sui criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti e associazioni, del 1981 ) rimane imbrigliato in quella impostazione. Pur riconoscendo esplicitamente il sacramento del battesimo come fondamento genetico della presenza del laico nella Chiesa (n. 5), non coglie con tutta la sua ricchezza l’esprimersi, nel laico, del sacerdozio comune, che prima di diversificarlo qualitativamente lo accomuna a tutti i fedeli e perciò anche al sacerdozio ministeriale. H documento è infatti tutto impostato sull’apostolato laicale. Sarebbe stato molto più completo nel suo significato ecclesiologico se avesse trattato dell’apostolato ecclesiale dei fedeli. In questo senso le riflessioni fatte nella prima parte sul sacerdozio comune e ministeriale, e sulla priorità genetica di quello comune, acquistano tutta la loro importanza concreta. In questa linea va considerata anche la priorità o preferenzialità data dal documento della CEI all’Azione Cattolica, intesa come partecipazione o collaborazione all’apostolato della gerarchia. Il problema non si pone in modo così acuto fuori Italia, dove l’Azione Cattolica è considerata un «genus» e non una «species» poiché tutti i movimenti o le associazioni sono considerati in genere Azione cattolica. Essendo chiaro ed universalmente riconosciuto che tutti i cristiani sono chiamati a vivere, in forza del sacerdozio comune, una apostolicità ecclesiale di carattere generale in comunione con la gerarchia, l’Azione Cattolica sarebbe invece chiamata a partecipare a quel particolare tipo di apostolicità che la gerarchia ritiene essere proprio. In questo caso, essendo il ministero non ordinato pur sempre fondato sul battesimo, sembrano essere possibili solo due soluzioni: o questo ministero è comunicabile a tutti i laici cristiani, oppure individua una realtà talmente particolare da essere solo per pochi. Così intesa, l’Azione cattolica (presa come specie) non può essere che un movimento d ‘«élite» e come tale non può essere scelta né come forma comune, né come forma ottimale di apostolato laicale. In tal caso, infatti, la forma comune derivante dal battesimo (sacerdozio comune) verrebbe ad essere svilita ad una sorta di apostolato di seconda classe. La funzione originale del laico, derivante dalla sua diretta partecipazione ai «tria munera» di Cristo, è nella sua sostanza un’attività ecclesiale diversa da quella della gerarchia e perciò non primariamente una partecipazione ad un ministero, che pur non derivando essenzialmente dall’ordine è connesso almeno di fatto allo «status» clericale. Il contenuto di tale ministero coinciderebbe perciò con un tipo di apostolato che la gerarchia si sarebbe assunta per supplire una mancanza di laici o per altre ragioni connesse alla posizione egemone avuta dai chierici nella storia della Chiesa. Ne consegue che l’Azione Cattolica sarebbe una forma particolare di ministero, fortemente connesso con lo «status» attuale del chierico. Il rischio di clericalizzare il laicato è grande proprio per l’incapacità dimostrata fino ad oggi dalla teologia nel valutare sinteticamente il rapporto esistente tra i due elementi con i quali il Vaticano II ha cercato di definire lo stato laicale: la partecipazione ai «tria munera» e l’indole secolare. Su tutta questa problematica, cfr. E. Corecco, Profili istituzionali di movimenti nella Chiesa, cit., 215-228.

 

 

3. Carisma

 

 

Il termine “carisma” («Karisma») – ritenuto dalla critica letteraria più rigorosa estraneo al vocabolario extra-bibblico – è stato coniato dall’Apostolo Paolo quale voce semantica alternativa per elucidare i cristiani di Corinto sulla natura dei fenomeni straordinari dello Spirito sperimentati nella loro Chiesa e da essi descritti con il termine ellenistico «pneumatika». Tutti i 17 testi neotestamentari in cui la voce carisma ricorre appartengono, infatti, agli scritti paolini, ad eccezione della 1 Piet. 4, 10. Che il termine non sia stato utilizzato nei Vangeli e negli altri scritti neotestamentari, e che la sua frequenza sia trascurabile anche nei Padri apostolici, è un indice che la questione dei carismi è emersa solo raramente nella predicazione primitiva. San Paolo attribuisce al carisma una chiara valenza cristologica ed ecclesiologica, ma il fatto che la sua sinonimia con altre nozioni utilizzate nello stesso contesto, come per es. quella del ministero, diaconia e operazione, sia costante fa sì che il termine rimanga aperto ad esprimere ogni “dono” dato dallo Spirito per la edificazione della Chiesa, ma anche indeterminato. La gamma di significati, determinati spesso nei loro contenuti solo contestualmente, è molto vasta. Lo stesso Cristo è definito “carisma”, cioè dono inviato dallo Spirito di Dio, così come la vocazione gratuita alla fede data indistintamente a tutti i cristiani. Carismi sono la verginità, ma anche tutti i fenomeni più spettacolari in cui si manifesta lo Spirito di Cristo, come la glossolalia e la guarigione. La preoccupazione di San Paolo è quella di tenere il più possibile aperta la lista dei carismi per garantire uno spazio a tutti i doni dello Spirito e a tutti i cristiani, minacciati di essere offuscati dai carismi più stabili e più immediatamente funzionali alla edificazione della comunità, come quelli degli Apostoli, fondatori di Chiese; dei profeti e dei maestri nella interpretazione della fede, funzioni o ministeri che Paolo si premura comunque sempre di considerare come doni dello Spirito. Questa teologia paolina dei carismi fa perno attorno ad alcuni principi fondamentali: quello dell’unità nella varietà dei carismi e della varietà nell’unità; quello della dipendenza di tutti i carismi dal giudizio e dall’interpretazione degli altri profeti, ma specialmente degli Apostoli; quello del loro carattere di servizio in favore del bene di tutta la comunità. Anche quando i doni dello Spirito sembrano legati più alle singole persone che ad esigenze oggettive di conduzione della Chiesa, essi non sono dati tanto per la santificazione individuale ma per la crescita di tutti nella fede. Ciò ha indotto San Paolo, da una parte a stabilire un nesso intrinseco di dipendenza di tutti i carismi con la carità, nella quale Cristo fattosi servo di tutti si esprime in quanto dono inviato dallo Spirito di Dio, dall’altra, a porre costantemente al primo posto il carisma dell’Apostolo, il cui ministero è quello di guidare la Chiesa nell’opera di evangelizzazione.

Nelle due lettere pastorali a Timoteo (I 4, 14; II 1, 6) il carisma si rivela secondo un nuovo significato, diverso rispetto a quello assunto nelle lettere ai Romani (1, 11; 5, 15-16; 6, 23; 11, 29; 12, 6) e ai Corinzi (I 1,7; 7,7; 12, 4. 9. 28. 30-31; II 1,11). Esso viene posto in relazione di dipendenza con l’imposizione delle mani, in cui si esprime l’ordinazione ministeriale-sacramentale. Ciò sembrerebbe opporsi alla dottrina precedentemente formulata secondo la quale i “doni” dello Spinto Santo sono già conferiti al cristiano con il battesimo. Malgrado sia del tutto chiaro che nella ecclesiologia paolina l’elemento carismatico appartiene all’essenza del mistero della Chiesa e della esperienza cristiana come il ministero (o ufficio ecclesiale) e i sacramenti, la teologia si è continuamente posta la domanda se con la dottrina dei carismi San Paolo abbia voluto semplicemente esprimere l’idea di una operazione dello Spirito Santo in seno alla Chiesa che esige dai cristiani un comportamento etico, oppure se abbia prevalso in lui, come nelle due lettere pastorali l’idea che il carisma sia un elemento costitutivo del ministero ordinato in quanto tale. Ha inteso individuare nel carisma un elemento della vita spirituale del cristiano, oppure un modello valido per l’organizzazione della comunità cristiana?

Attorno a questa interpretazione delle intenzioni di San Paolo si sono divise la tradizione protestante e quella cattolica. Mentre la propensione della prima è sempre stata quella di far coincidere il ministero ordinato con una forma del carisma, così da escluderne l’origine propriamente sacramentale, la seconda ha assunto il carisma solo come elemento marginale, enfatizzando unilateralmente la struttura sacramentale-istituzionale della Chiesa. La convergenza delle due concezioni attualmente in atto avviene in campo protestante sulla base della rivalutazione del ministero ordinato e in campo cattolico con il ricupero del carisma come elemento fondamentale della Costituzione della Chiesa. Il Magistero stesso ha dato un importantissimo contributo con la «Mystici Corporis» e soprattutto con il Vaticano II, i cui testi sui carismi rivelano una straordinaria ricchezza. Questa concordanza converge verso un progressivo svuotamento della antinomia teorizzata come esistente tra la natura e la soprannatura, la fede e la ragione, la carità e la legge, il carisma e l’istituzione. Il tentativo più radicale in atto in campo cattolico è quello di rovesciare i termini del problema (Sartori). Non si tratta semplicemente di riconoscere che non esiste nessuna contraddizione strutturale tra carisma e istituzione, poiché tutte e due provengono da Dio e dal suo Spirito come unica fonte, ma di affermare che la stessa sacramentalità e gli stessi ministeri sono di origine e di natura carismatica (Sartori). I ministeri sacramentali sarebbero solo l’esito della autentificazione ufficiale e storica fatta «a posteriori» dalla Chiesa che con la sua autorità sancisce in modo più o meno definitivo i carismi consolidatisi come più funzionali alla edificazione e conduzione della Chiesa. Il presupposto di questa tesi è l’affermata esistenza di una struttura fondamentalmente carismatica della Chiesa. Che la dinamica di questo processo di rivalutazione coincida esattamente con quella in atto nella teologia e nella prassi di un certo protestantesimo contemporaneo in rapporto ai ministeri dovrebbe essere verificato. Esempi, comunque, di questa progressiva istituzionalizzazione del carisma possono essere stati nel passato l’istituzione degli ordini minori, come per es., quello dell’esorcista[1], e nel futuro potrebbero essere il riconoscimento di nuovi ministeri ecclesiali clericali e laicali, con carattere più o meno dichiaratamente sacramentale. In questa tesi la nozione di carisma è utilizzata secondo una accezione fondamentale valevole per tutte le forme assunte dalle operazioni e dai doni dello Spinto Santo, così da essere applicabile a Cristo stesso e alla Chiesa, senza tener conto delle specificazioni formali e materiali individuate nel frattempo dalla teologia. Se si prescinde dalla accezione sociologica assunta dal termine carisma nella letteratura moderna, a seguito di Max Weber[2], dove carisma e carismatico significano ogni forza spirituale e culturale capace di creare una «leadership» di qualsiasi genere, nella terminologia teologica moderna il termine ha assunto un significato cristologico ed ecclesiologico specifico, ottenuto grazie alle elaborazioni concettuali messe a disposizione specialmente dalla scolastica, che hanno permesso di distinguere tra il carisma e le altre forme di intervento dello Spirito Santo, come per es. la Grazia creata, i doni dello Spirito conferiti nel battesimo, le virtù soprannaturali infuse e la Grazia dell’ufficio, profusi per la salvezza personale o per l’edificazione della Chiesa attraverso l’economia sacramentale ordinaria della Chiesa. Il ricorso ad una nozione fondamentale di carisma ed ad una accezione dinamica del sacramento non è in grado di elidere la tensione dottrinale creatasi storicamente tra il carisma e l’istituzione, perché resta il fatto che il battesimo e l’ordine sacro, come del resto tutti gli altri sacramenti, pur avendo ultimamente origine nel dono o carisma fatto agli uomini dallo Spirito di Dio attraverso il Cristo, rimangono elementi istituzionali che hanno la loro genesi istituzionale immediata o mediata nella incarnazione del Cristo e sulla cui esistenza e natura la Chiesa può intervenire solo limitatamente. Non sembra che la Chiesa possa istituzionalizzare i carismi conferendo loro una struttura propriamente sacramentale. D’altra parte non è possibile prescindere dal fatto che l’istituzione dei sacramenti (anche quando fosse avvenuta per la mediazione degli Apostoli) non è attribuibile direttamente allo Spirito Santo, allo stesso modo dei carismi. Se è vero che Cristo è l’epifania totale nella storia dello Spirito di Dio, per cui non e possibile contrapporre lo Spirito Santo a Cristo – supreme espressioni della nozione stessa di unità -, è altrettanto vero che se non si distinguono le diverse operazioni dell’una e dell’altra Persona si mette a repentaglio la nozione stessa di Trinità. Per superare la tensione emersa storicamente dal rapporto bipolare tra carisma e istituzione, teorizzato come antinomia solo da Lutero con il binomio luterano “Legge e Vangelo” (sfociato nella dottrina delle due Chiese, visibile e invisibile) e radicalizzato ulteriormente dal manifesto antigiuridico di R. Sohm[3] sull’esistenza di una contraddittorietà assoluta tra il diritto e la Chiesa, non è necessario attribuire alla Chiesa una struttura fondamentale solo carismatica, in cui le diversificazioni a livello istituzionale assumerebbero carattere quantitativo e non qualitativo. È necessario per contro rivedere il significato ecclesiologico del termine istituzione.

Contrariamente a quanto avviene nello Stato moderno, l’istituzione non coincide, nella Chiesa, con l’organizzazione pubblica del potere, cioè con l’autorità. Il rapporto interecclesiale non avviene, infatti, tra persona e istituzione, bensì tra istituzione e istituzione, cioè tra persona e persona, perché i sacramenti e i ministeri non esistono in se stessi come astrazione istituzionale nel segno della stessa logica ipostatizzazione applicata allo Stato e ai suoi uffici, ma come dimensione ontologica delle persone battezzate e ordinate sacramentalmente. Se per istituzione si intendono le strutture stabili e costitutive di una realtà sociale, bisogna convenire che questa struttura è conferita alla Chiesa dal Sacramento e dalla Parola, che si compenetrano a vicenda. La Chiesa, infatti, inizia ad esistere in quanto Chiesa, diversificandosi da un semplice regime di “religione cristiana” fondato solo sulla Parola e la fede in Cristo, con il sacramento del battesimo. L’istituzione si invera perciò attorno ai due poli del battesimo e dell’ordine sacro, (convergenti con gli altri sacramenti dell’eucarestia), cioè del sacerdozio comune, che si esprime anche secondo la modalità della Parola emergente nel «sensus fidei» di tutti i fedeli, e del sacerdozio ministeriale, in cui il Sacramento e la Parola assumono la forza vincolante della «potestas sacra». L’unico elemento non istituzionale della Costituzione della Chiesa è il carisma. Come si può evincere dalla dottrina di San Paolo, la sua esistenza, prima che il conferimento dei sacramento dell’ordine (I e II Tim.), presuppone, secondo quanto emerge chiaramente dalle lettere ai Romani e ai Corinzi, la recezione del battesimo. È necessario perciò nella Chiesa distinguere tra istituzione e Costituzione, perché, contrariamente a quanto avviene nella struttura dello Stato, la Costituzione ecclesiale non coincide con l’istituzione. Essa comprende necessariamente sempre anche il carisma, liberamente suscitato dallo Spirito Santo, e di cui i consigli evangelici sono una delle forme permanenti e paradigmatiche del richiamo escatologico immanente a tutti i carismi. Malgrado le apparenze e malgrado le teorizzazioni avvenute nel corso della storia, la tensione reale manifestatasi nella esperienza storica della chiesa non è stata quella tra il carisma e l’istituzione – fatta riduttivamente coincidere con il sacerdozio ministeriale o gerarchico -, ma tra i laici e i chierici, cioè tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, cioè tra i due poli della istituzione[4]. Se è stata teorizzata la loro antinomia è perché il presupposto tacitamente sotteso fin dall’epoca montanista, e mai sufficientemente verificato, fu sempre che il carisma fosse l’appannaggio quasi esclusivo dei laici, intesi non nel senso ecclesiologico dato a loro dal Vaticano II, ma come elemento sociologico in cui si esprime la “base” della Chiesa. In realtà anche la Riforma protestante, in cui sono sfociati tutti i movimenti spiritualistici della Chiesa antica e del Medio Evo, ha contrapposto il sacerdozio comune dei laici, sottovalutati durante tutto il Medio Evo, e quello ministeriale dei chierici, da sempre in posizione egemone nella Chiesa, dando l’impressione di contrapporre il carisma all’istituzione. Il Concilio Vaticano II, ribadendo che il carisma è dato dallo Spirito Santo ai “fedeli di ogni ordine”, ha espunto questa antinomia, senza per altro negare l’esistenza di carismi specifici dell’ordine sacerdotale, come per es. quello dell’infallibilità del papa (LG 25, 3). Il carisma, concesso sempre a tutte e due i poli dell’istituzione (il sacerdozio comune e quello ministeriale), ha il compito di provocare quest’ultima verso una purezza più grande di valori e relativizzarla nella sua eventuale pretesa di erigersi a guida autonomamente esclusiva della Chiesa. Il problema strutturale della Chiesa non è perciò quello di realizzare l’unità tra il carisma e l’istituzione, scavalcando la funzione costitutiva del Sacramento e della Parola per derivare l’istituzione del carisma, bensì l’unità tra il sacerdozio comune e quello ministeriale. Essi si rapportano oltrettutto secondo una relazione di immanenza reciproca (principio strutturale specifico della comunione «Ecclesiae et Ecclesiarum»[5], poiché il sacerdozio comune continua a sussistere nel sacerdozio ministeriale e quello ministeriale esiste e si giustifica solo in funzione di servizio a quello comune. Il carisma è sempre dato all’interno della istituzione per aiutarla a realizzare l’equilibrio insito alla sua polarità. Richiamandola alla priorità assoluta dello Spirito e relativizzando il suo potere affinché non diventi autarchicamente assoluto, il carisma la vivifica, aiutandola a superare lo scoglio della competitività propria ad ogni forma di potere, che nella Chiesa si è sempre tradotto in preminenza della gerarchia sui laici o dei laici sulla gerarchia. Cedendo all’obiezione ricorrente, secondo cui il carisma non sarebbe apprezzabile dal profilo giuridico, il CIC si è sottratto all’incombenza di penetrare fino al cuore della struttura costituzionale della Chiesa affrontando il problema del carisma. In effetti il fedele non è costituito solo dalla sua struttura sacramentale battesimale, grazie alla quale è investito del sacerdozio comune e del «sensus fidei», ma anche dalla possibilità di diventare soggetto titolare di un carisma. Senza questa potenziale dimensione carismatica il fedele (e di conseguenza tutto il Popolo di Dio) rimane gravemente mortificato nella sua identità ecclesiale e giuridica. Il Vaticano II, non esita a riconoscere tra i diritti principali dei fedeli, quello di esercitare i loro carismi (AA 3, 4). Non mancano evidentemente nel CIC accenni alla presenza dello Spirito Santo nella Chiesa. Così, nel can. 879 a proposito del sacramento della confermazione; nel can. 369 come forza aggregante della Chiesa particolare; nel can. 375 § 1 come elemento costitutivo della successione apostolica, o nel can. 747 § 1 in relazione con l’assistenza al magistero della Chiesa. Un chiaro riferimento ai “doni dello Spirito Santo” appare nella normativa sugli Istituti di Vita Consacrata (can. 573-746), ma bisogna tener conto del fatto che questa espressione (can. 605) assieme ad altre, come «donationes» (can. 577), oppure «patrimonium instituti» (can. 631 § 1), con ogni evidenza ritenute dal legislatore più anodine se non addirittura totalmente diverse, sono state di proposito scelte per sostituire il termine “carisma” inesorabilmente stralciato dal CIC. Esso appariva ancora ben 7 volte nello Schema Preparatorio del 1982[6]. Contrariamente però al Concilio Vaticano II, dove i carismi sono sempre attribuiti a tutti i fedeli in quanto tali nello Schema essi erano riservati esclusivamente ai membri degli Istituti di Vita Consacrata. L’imbarazzo del legislatore di fronte alla realtà del carisma è perciò molto evidente, malgrado non abbia carattere istituzionale, il carisma ha una precisa valenza giuridica. Basterebbero due soli testi del Vaticano II per provarlo: quello di LG 12, 2, dove si afferma, nel solco della tradizione paolina, che i carismi devono sottomettersi al giudizio dei Pastori e si fa obbligo a quest’ultimi di non estinguere i doni dello Spirito; e quello di AdG 38, 1 (conseguente al testo di AA 3, 4, già menzionato), in cui il carisma è considerato come fondamento del dovere-diritto dei fedeli di collaborare alla diffusione del Vangelo. La valenza giuridica del carisma si rivela in tutta la sua evidenza nel fatto che esso, parallelamente ai doveri-diritti del fedele in quanto tali, erige un limite imprevalicabile all’esercizio della «sacra potestas» dei Pastori[7], cui tocca non solo la responsabilità di giudicare l’autenticità dei carismi, ma anche e soprattutto quella di rispettarli nel loro diritto ad esistere e ad essere praticati. Attenua questo giudizio negativo sulla espunzione del carisma dall’ordinamento canonico il fatto che il CIC, contrariamente ai Progetti Preparatori fino al 1980, ha conosciuto agli Istituti di Vita Consacrata carattere costituzionale e non semplicemente associativo. Il CIC, nella scia del Vaticano II, senza voler risolvere l’annosa «quaestio disputata» circa l’origine dei Consigli evangelici nello «ius divinum», che rappresentano comunque una forma istituzionalizzata del carisma, ne ha voluto rafforzare lo spessore ecclesiologico-costituzionale, non solo dichiarandoli appartenenti alla “vita e alla santità della Chiesa” (can. 207 § 2), ma sottolineando chiaramente che essi sono un “dono divino che la Chiesa ha ricevuto dal Signore” (can. 575).

[1] Cfr. K. Rahner, Das Charismtische in der Kirche, in LThK, Freiburg, 1958, II, 1027-1030.

[2] Cfr. Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, 3 Bde. Tübingen, 1920.

[3] “Das Kirchenrecht steht mit dem Wesen der Kirche in Widerspruch”, in Kirchenrecht, I, Leipzig, 1892, 1 e 700.

[4] Cfr. Corecco, Profili istituzionali dei Movimenti nella Chiesa, in I Movimenti nella Chiesa negli anni ‘80. Atti del 1° Convegno Internazionale, Roma, 23/27-9-1981. A cura di Camisasca e Vitali, Milano, 1982, 203-234.

[5] Cfr. Corecco, Il catalogo dei doveri-diritti del fedele nel CIC, in I Diritti Fondamentali della Persona Umana e la Libertà Religiosa. Atti del V Colloquio Giuridico (8/10-3-1984), Roma, 1985.

[6] Cfr. i can. 580, 590 § 3, 631 § 1, 708, 716 § 1, 717 § 3, 722 §§ 1-2.

[7] Cfr. Corecco, Aspetti della ricezione del Vaticano II nel Codice di Diritto Canonico, in Il Vaticano II e la Chiesa, a cura di Alberigo e Jossua, Brescia, 1985, 333-397.

 

4. Istituzione e carisma in riferimento alle strutture associative

 

Dopo il Concilio Vaticano II, superata la crisi profonda degli anni ‘60, la Chiesa ha conosciuto “una nuova stagione associativa dei fedeli”, come osserva giustamente l’«Istrumentum Laboris» della VIIma Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi[1]. Di fronte a questo sorprendente fenomeno d’aggregazione ecclesiale era stata da più parti avvertita l’esigenza, «de iure condendo», di una sua regolamentazione giuridica, fondata su basi diverse da quelle tradizionali[2]. Tale esigenza era accentuata dal fatto che mentre il Codice piano-benedettino presupponeva l’esistenza del diritto di associazione, senza però tuttavia una adeguata individuazione di contenuti né la formulazione di idonei strumenti di tutela di esso, tale diritto aveva ricevuto una esplicita dimensione in due documenti conciliari: quello sull’apostolato dei laici (AA 19) e quello sul ministero sacerdotale (PO 8).

Se dal profilo legislativo i cc. 215-216 del nuovo Codice di Diritto Canonico garantiscono ampiamente l’esercizio del diritto di associazione formulato dal Concilio, rimane tuttavia ancora aperto il problema di sapere se la nuova normativa codiciale sulle associazioni dei fedeli (cc. 298-329) rappresenta di fatto una regolamentazione giuridica sostanzialmente adeguata alla varietà delle nuove forme di aggregazione ecclesiale fiorite nel post-concilio. Altri canonisti, in questo stesso Congresso internazionale[3], cercheranno di dare una risposta precisa e dettagliata a tale domanda; sulla quale, in altra sede[4], ho avuto modo di sottolineare l’impossibilità di sussumere sotto la figura giuridica dell’associazione i nuovi movimenti ecclesiali originati dal carisma donato al loro fondatore o alla loro fondatrice.

Dal profilo dottrinale, però, un’altra e ben più importante questione s’impone al canonista che voglia rimanere fedele al dato teologico previo all’ordinamento giuridico: quali sono i fondamenti ecclesiologia del fenomeno giuridico associativo all’interno del sistema canonico? Per rispondere in modo adeguato a questa domanda occorre anzitutto liberarsi dalla tentazione di considerare, in sintonia con la dottrina del «Ius Publicum Elcclesiasticum», il diritto di associazione dei fedeli come un «ius nativum» fondato esclusivamente sul diritto naturale[5]; in senso improprio superare lo schema miope, imposto da una certa filosofia della religione, che riduce il rapporto fra carisma e istituzione all’opposizione dialettica fra individuo e autorità[6]. Se si cede alla prima tentazione, qualsiasi fenomeno aggregativo, tipicamente ecclesiale perché nato dall’ascolto della Parola, dalla celebrazione dei Sacramenti ed in particolare dell’Eucaristia, nonché dalla sequela ad un carisma, sarà inevitabilmente considerato come un fenomeno meramente sociale fino al momento in cui l’autorità gli conferisce, con la sua approvazione, una valenza ecclesiale. Se ci si adegua al secondo schema si finisce per misconoscere, o comunque sminuire, l’ascendenza teologica del diritto canonico[7].

L’esatta individuazione dei fondamenti ecclesiologici del fenomeno giuridico associativo e la elaborazione, a partire da questi fondamenti, di una sua teoria generale esigono dunque una duplice chiarificazione previa: da una parte occorre mettere a fuoco la nozione di Istituzione nella Chiesa, dall’altra mettere in luce il ruolo ecclesiologico e le implicazioni giuridiche del carisma. Entrambe le chiarificazioni non possono essere compiute a prescindere da una terza nozione di grande rilevanza per tutto il diritto canonico, e fatto oggetto anche della prossima relazione di Javier Hervada Xiberta: cioè la Costituzione della Chiesa. Entrambe le chiarificazioni sono inoltre ben lungi dall’essere un dato acquisito per la canonistica contemporanea, nonostante il suo indubbio sforzo di rinnovamento metodologico ed epistemologico[8].

Sarebbe affrettato pretendere di dare in questa sede una risposta esaustiva a questioni preliminari di così vasta portata; mi auguro tuttavia di offrire materiali e nuovi spunti alle ricerche canonistiche in corso su tali questioni fondamentali[9], affrontando le stesse sotto la specifica angolatura posta dalla prima delle tre tematiche del nostro Congresso: la determinazione ecclesiologica delle strutture associative.

 

1. La nozione di Istituzione nel sistema canonico

Sebbene nel linguaggio comune il termine “Istituzione” indichi sempre in qualche modo – come osserva Santi Romano – qualcosa di durevole, una realtà o “unità ferma e permanente, che cioè non perde la sua identità, almeno sempre e necessariamente, pel mutarsi dei singoli suoi elementi …”[10], tuttavia esso ha conosciuto, non solo in sociologia ma anche a livello della teoria generale del diritto, una lunga evoluzione semantica[11]. La sua stessa etimologia latina lo lascia facilmente presagire[12].

Anche la tradizione giuridica e filosofica cristiana non è sfuggita ad una riduzione teorica del concetto di Istituzione, soprattutto all’interno del «Ius publicum ecclesiasticum», che eserciterà un’influenza tale da permettergli di diventare, verso la fine del secolo scorso l’indirizzo ufficiale della Santa Sede. Infatti, nei manuali di diritto canonico di questa scuola,- quasi tutti intitolati «Institutiones Iuris Publici Ecclesiastici» da quello del Cardinale Soglia (1779-1856) fino a quello del Cardinale Ottaviani, – la nozione di “Istituzione” si identifica nella sua sostanza con quella di “Costituzione”. Quest’ultima, a sua volta, è tutta e quasi esclusivamente centrata sulla natura e organizzazione del potere ecclesiastico, che è la questione costituzionale fondamentale di una cosiddetta «societas iuridice perfecta», avente per definizione un vero e proprio «summum imperium» e dunque tutti i mezzi giuridici necessari al raggiungimento del proprio scopo.

Applicando una simile dottrina giuridica alla Chiesa, non solo l’elemento giuridico viene praticamente a coincidere con quello istituzionale, ma il cosiddetto «ius subiectivum» rischia di non trovare un posto adeguato e di essere totalmente assorbito dal «ius obiectivum»[13]. Non a caso all’interno di tale prospettiva non manca chi, ancora dopo il Vaticano II, ricorre al diritto naturale per giustificare il diritto di associazione dei fedeli, oppure tenta di configurare lo stesso come una facoltà concessa dalla gerarchia attraverso uno specifico “mandato”[14].

Dall’altra parte la sovrapposizione della nozione di “Istituzione” con quella di “Costituzione”, operata dai cultori del «Ius publicum ecclesiasticum», finisce per ingenerare in non pochi teologi e canonisti la grande confusione secondo cui lo stesso «Ius publicum ecclesiasticum» viene «tout court» fatto coincidere con il diritto costituzionale della Chiesa[15]. Quest’ultima identificazione è però falsa, sia perché il diritto canonico, essendo una disciplina teologica, ha un principio epistemologico diverso da quello giusnaturalistico del «Ius publicum ecclesiasticum»; sia perché l’oggetto del diritto costituzionale della Chiesa, a differenza di quello dello Stato, oltre ad avere una diversa ascendenza dogmatica e un’altra finalità è più vasto, come si vedrà in seguito, delle questioni riguardanti il potere e la sua organizzazione. Anzi, seguendo fino in fondo l’orientamento metodologico indicato dall’«Optatam Totius» al no. 16, bisogna concludere che le questioni riguardanti l’organizzazione del potere ecclesiale vanno considerate come secondarie o derivate, dato che gli elementi primari della struttura costituzionale della Chiesa sono oltre che la Parola e il Sacramento, anche il Carisma. E mentre i primi due vanno considerati come i luoghi genetici dell’Istituzione ecclesiale[16], il Carisma – proprio perché donato come vedremo ai due poli dell’Istituzione (cioè al sacerdozio comune e a quello ministeriale) – è l’unico elemento non istituzionale della Costituzione della Chiesa. Infatti, tutti gli elementi strutturalmente costitutivi della Chiesa, sia di diritto divino che di diritto umano, fanno capo alla Parola e al Sacramento, oppure al Carisma.

Nella realtà ecclesiale, “Costituzione” e “Istituzione” sono dunque due entità ben distinte, anche se non sono né separate, né tantomeno in opposizione l’una con l’altra. La “Costituzione” è un’entità più grande della “Istituzione”, tanto che il teologo Hans Urs von Balthasar, in piena sintonia con una lunga tradizione dogmatica, arriva a definire l’Istituzione ecclesiale come una sorta di «Kenotische Verfassung», cioè come di una riduzione kenotica del mistero della Chiesa, atta ad impedire – attraverso la logica dell’obbedienza ecclesiale che garantisce il permanere della «Memoria Christi» – la privatizzazione dell’esperienza ecclesiale[17]. Questa importante e suggestiva conclusione del grande teologo svizzero, va purtroppo relativizzata perché è evidente che von Balthasar nel suo giudizio identifica ancora, come tutti, l’Istituzione con gli elementi gerarchici (Papa, Concilio, Vescovi, ecc.), vale a dire con il Sacramento dell’Ordine Sacro, mentre, come vedremo dettagliatamente, ogni sacramento (e dunque anche il battesimo che conferisce il sacerdozio comune) è nella Chiesa elemento istituzionale. Malgrado questa evidente riduzione dei dati ecclesiologici su cui poggia l’Istituzione nella Chiesa, sulla scia di von Balthasar ed altri dogmatici[18], si comprende più facilmente come entrambi gli aspetti della realtà ecclesiale, ossia la Costituzione e l’Istituzione, sono soggetti all’intervento costante dello Spirito Santo il cui «opus proprium» è la costruzione di quella dimora – la «communio» – in cui l’uomo può ritrovare pienamente la sua libertà. Ora, la «communio» quale opera specifica dello Spirito Santo non è solo l’idea centrale dell’ecclesiologia insegnata dal Concilio Vaticano II ma costituisce anche, per usare la terminologia scolastica, il “principio formale” di tutto il diritto canonico[19], per cui entrambe le entità in questione, Costituzione ed Istituzione, hanno un significato giuridico che non va confuso con quello a loro attribuito dalla scienza giuridica statuale. Giuridico non è dunque sinonimo di istituzionale e le due categorie di “Istituzione” e “Costituzione” hanno nella Chiesa un significato diverso da quello da loro assunto nell’ordinamento giuridico dello Stato moderno.

L’ampio dibattito sul progetto di una «Lex Ecclesiae Fundamentalis» prima, e sulla sistematica del nuovo Codice dopo, dovrebbe aver sufficientemente chiarito come la Costituzione ecclesiale, anche nei suoi aspetti giuridico-formali, è retta da principi ben diversi da quelli su cui normalmente poggia la Costituzione dello Stato moderno[20]. Ci sembra infatti ormai superata l’opinione di coloro che non vogliono attribuire carattere costituzionale a tutti gli elementi del diritto divino o ai Sacramenti e alla Parola in quanto tali[21].

Ho tuttavia l’impressione che quando si parla di Costituzione della Chiesa il pensiero corra con soverchia disinvoltura al modello delle Costituzioni statali moderne, che pretendono di formalizzare la totalità degli elementi materiali in cui si articola, in un dato momento storico, la complessiva esperienza giuridica, sociologica e politica dello Stato.

Se si riflette però sul dato che neppure tali Costituzioni appaiono così esaustive come pretenderebbero – tant’è che in ordinamenti costituzionali formali, esistono diritti fondamentali non scritti – si evidenzia la necessità, per meglio comprendere in cosa consista la Costituzione della Chiesa, di staccarsi dal riferimento ai modelli statuali; così come si avverte l’ulteriore necessità di andare oltre le norme materiali ritenute costituzionali che si rinvengono nel CIC.

Appartengono infatti alla Costituzione materiale, e di conseguenza potenzialmente anche formale della Chiesa, tutti quegli elementi di diritto divino che costituiscono la sua natura e tutti quegli elementi di diritto positivo che li specificano storicamente. Ora, come abbiamo visto, gli elementi genetici della Costituzione, nella sua essenza e nella sua articolazione storica, sono da una parte la Parola e il Sacramento, dall’altra il Carisma. Quest’ultimo è sì riconducibile a Cristo come lo sono la Parola e il Sacramento, ma attraverso lo Spirito Santo che è lo Spirito di Cristo. La presenza nella Chiesa dello Spirito Santo, e perciò del Carisma, è stata garantita da Cristo stesso. Pertanto, non esiste Chiesa senza la presenza del Carisma, quale che ne sia poi lo specifico contenuto.

Il processo di chiarificazione del significato acquisito dalla nozione di Istituzione all’interno della teoria generale del diritto canonico è invece meno avanzato. È quindi opportuno dedicargli maggiore attenzione. Ho già accennato al fatto che l’Istituzione ecclesiale non è riducibile al sacerdozio ministeriale. Ad essa appartiene anche il sacerdozio comune che, assieme al «sensus fidei», costituisce il fondamento della partecipazione di tutti i fedeli alla missione della Chiesa nel mondo. Ne è una prova inconfutabile il fatto che il sacramento del battesimo, da sempre considerato la «ianua sacramentorum», costituisce il criterio di differenziazione tra il regime di “religione” cristiana, – proprio di molte sette e fondato esclusivamente sulla fede in Cristo attraverso la Parola, – e il regime di “ecclesialità”, che per essere tale, esige almeno lo spessore sacramentale del battesimo[22]. Questa incorporazione irreversibile di una persona nella Chiesa che scaturisce dal sacramento del battesimo rivela tutta la valenza istituzionale dei Sacramenti e della Parola. Infatti il battesimo non è solo un evento soteriologico, i cui effetti potrebbero risultare irrilevanti dal profilo sociale, ma anche un atto giuridico costitutivo che determina l’appartenenza di una persona alla Chiesa e che nello stesso tempo condiziona in profondità tutta la struttura giuridica del sistema canonico. In questo modo, nel battesimo affiora paradigmaticamente la valenza giuridica di tutti i Sacramenti e di conseguenza anche della Parola, la quale, pur non essendo sempre annunciata in concomitanza con i Sacramenti, converge sempre, almeno nella forma sintetica e definitoria di ogni sacramento, a produrre l’effetto soteriologico e socio-giuridico del segno simbolico sacramentale.

La funzione del battesimo quale elemento portante non solo della Costituzione ma anche dell’Istituzione ecclesiale dà la misura di come il rapporto fedele-Chiesa non sia identico, né omologo a quello cittadino-Stato. Infatti, nella Chiesa come realtà di comunione, contrariamente a quanto avviene nello Stato moderno, ogni rapporto interecclesiale non si realizza secondo la dialettica persona-Istituzione, bensì come rapporto tra Istituzione e Istituzione, cioè tra persona e persona. Infatti i Sacramenti e i Ministeri non esistono a guisa di realtà a sé stanti, cioè astrazioni istituzionali così come avviene invece nell’ipostatizzazione che caratterizza gli uffici nell’ambito dello Stato, ma esistono come componente ontologica delle persone battezzate e ordinate con il sacramento dell’ordine. Se per Istituzione si intendono le strutture stabili e costitutive di una realtà sociale, bisogna convenire che questa struttura è conferita alla Chiesa dal Sacramento e dalla Parola, che si compenetrano a vicenda, dando origine tra l’altro a quella figura di soggetto canonico, che è il «Christìfidelis», soggiacente ed immanente in tutti i tre stati di vita ecclesiale e dunque nelle persone dei laici, dei preti e dei religiosi. La Chiesa come Istituzione non coincide perciò semplicemente con l’organizzazione dei pubblici poteri, cioè dell’autorità. L’Istituzione ecclesiale si invera sempre attorno ai due poli del battesimo e dell’ordine sacro, convergenti con gli altri Sacramenti nell’Eucaristia. In effetti l’Eucaristia è la rappresentazione di tutta la Chiesa, perché è nel contempo la «fons et origo» nonché il «culmen» di tutta la vita della Chiesa, come afferma il Vaticano II (SC 10).

In altri termini l’Istituzione consiste sostanzialmente negli sviluppi giuridicostrutturali conferiti storicamente dalla Chiesa sia al sacerdozio comune, sia al sacerdozio ministeriale. Nel sacerdozio comune, che comprende anche il «sensus fidei», si realizza la partecipazione «suo modo e pro sua parte» (LG 31, 1)di ogni fedele al sacerdozio di Cristo nella dimensione soggettiva. Nel sacerdozio ministeriale, che comprende anche la Parola nella sua forma magisteriale, invece, si realizza la partecipazione dei chierici al sacerdozio di Cristo nella dimensione oggettiva. Questa ultima partecipazione ministeriale si realizza nel conferimento della «sacra potestas»[23]. Poiché queste due forme di sacerdozio, pur essenzialmente diverse (LG 10, 1), consistono in una partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo non possono essere né disgiunte, né contrapposte, ma nella loro reciprocità ed interazione costituiscono i due elementi imprescindibili dell’Istituzione nella Chiesa: i laici e i chierici.

Nella Chiesa l’elemento che non permette di identificare la Costituzione con il fatto istituzionale è il Carisma. Pure quest’ultimo appartiene alla Costituzione in qualità di suo elemento primario, anche se è liberamente suscitato dallo Spirito Santo nei due poli o elementi principali dell’Istituzione: chierici e laici. In questa prospettiva non ci sono quindi dubbi sulla grande rilevanza giuridica del Carisma. Infatti, se è vero che l’esistenza del diritto canonico non deriva dalla dimensione sociale inerente alla natura dell’uomo e alla socialità umana emergente nella Chiesa, ma dalla forza giuridicamente vincolante insita ai Sacramenti e alla Parola (elementi generanti l’aggregazione sociale specifica alla «communio» ecclesiale), allora anche il Carisma – nella sue forme più compiute emergenti per esempio nei carismi dei fondatori o delle fondatrici e definito anche “carisma originario”[24] in quanto sta all’origine sia degli ordini religiosi, sia delle molteplici tipologie associative, sia dei nuovi movimenti ecclesiali – è sorgente di fraternità e di comunione ed è dunque elemento ontologico, come tale tipicamente costituzionale. Infatti, non esiste Chiesa senza la presenza costituente e costituzionale del carisma. Purtroppo questa verità centrale dell’ecclesiologia di comunione, insegnata a chiare lettere dal Concilio Vaticano II, non si è ancora liberata da alcune strumentalizzazioni ideologiche di diverso segno che hanno talmente imbarazzato il legislatore ecclesiastico da suggerirgli lo stralcio netto del termine Carisma dal CIC.

Per queste ragioni per poter meglio cogliere il ruolo svolto dal Carisma a livello del cosiddetto diritto di associazione è opportuno tenere ben presente oltre a quanto detto finora, anche il fatto che malgrado le teorizzazioni avvenute nel corso della storia, la tensione costituzionale reale manifestatasi nell’esperienza storica della Chiesa non è stata quella tra Carisma e Istituzione – considerata riduttivamente coincidente con il sacerdozio ministeriale o gerarchico -, ma tra i laici e i chierici, cioè tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, ossia tra i due poli dell’Istituzione ecclesiale stessa[25]. Se è stata teorizzata la loro antinomia, è perché il presupposto tacitamente sotteso sin dall’epoca montanista, e mai sufficientemente verificato, fu sempre che il Carisma fosse l’appannaggio quasi esclusivo dei laici, intesi non nel senso ecclesiologico dato loro dal Vaticano II, ma come elemento sociologico in cui si esprime la “base” della Chiesa. In realtà anche la Riforma protestante, in cui sono sfociati tutti i movimenti spiritualistici della Chiesa antica e del Medio Evo, ha contrapposto il sacerdozio comune dei laici, sottovalutati durante tutto il Medio Evo, a quello ministeriale dei chierici, da sempre in posizione egemone nella Chiesa, teorizzato unilateralmente dalla dottrina come contrapposizione tra Carisma e Istituzione. Il Concilio Vaticano II, ribadendo che il Carisma è dato dallo Spirito Santo ai “fedeli di ogni ordine” (LG 12, 2) ha espunto questa antinomia, senza peraltro negare l’esistenza di carismi specifici dell’ordine sacerdotale, come per esempio quello dell’infallibilità del Papa (LG 25, 3). In realtà non si vuol negare che più a monte della tensione tra chierici e laici esista anche una tensione tra carisma e istituzione; le manifestazioni storiche di questa tensione hanno però, provocato l’eliminazione di tutti e due i poli dell’Istituzione ecclesiale: sia i chierici che i laici. Ciò è avvenuto ad esempio ad opera di quelle sette sedicenti cristiane che, fondandosi esclusivamente sulla Parola hanno eliminato anche il sacramento del battesimo, perché considerato in sé stesso come fatto istituzionale contrastante la libertà assoluta dello Spirito e del Carisma.

Il Carisma, concesso sempre a tutti e due i poli dell’Istituzione (il sacerdozio comune e quello ministeriale), ha il compito di provocare l’Istituzione verso una purezza più grande di valori e di relativizzarla nella sua eventuale pretesa di erigersi a guida autonomamente esclusiva della Chiesa rispetto all’intervento dello Spirito Santo. Il problema strutturale della Chiesa non è perciò quello di realizzare l’unità tra il Carisma e l’Istituzione, scavalcando la funzione costitutiva del Sacramento e della Parola per eventualmente derivare l’Istituzione in modo diretto dal Carisma, come fanno alcuni; bensì realizzare l’unità tra il sacerdozio comune e quello ministeriale. Essi si rapportano oltretutto secondo una relazione di immanenza reciproca (principio strutturale che è, come abbiamo già segnalato, specifico della comunione «Ecclesiae et Ecclesiarum»), poiché il sacerdozio comune continua a sussistere nel sacerdozio ministeriale e quello ministeriale esiste e si giustifica solo in funzione di servizio a quello comune. Il Carisma è sempre dato all’interno dell’Istituzione per aiutare quest’ultima a realizzare, accanto alla fedeltà alla volontà fondazionale di Cristo, anche l’equilibrio insito alla sua bipolarità[26]. Richiamando l’Istituzione alla priorità assoluta dello Spirito relativizzante il suo potere affinché non diventi autarchicamente assoluto, il Carisma la vivifica, aiutandola a superare lo scoglio della competitività propria ad ogni forma di potere, che nella Chiesa si è sempre tradotto in preminenza della gerarchia sui laici o talvolta dei laici sulla gerarchia.

Ma cos’è esattamente il Carisma? Il suo ruolo ecclesiologico di cerniera fra Costituzione e Istituzione che significato ha per il diritto associativo canonico? Incominciamo col dare una risposta, chiara anche se non esaustiva, alla prima questione.

 

2. La nozione di Carisma e sue implicazioni giuridiche

Il termine “Carisma”, ritenuto dalla critica letteraria più rigorosa estraneo al vocabolario extra-biblico, è stato coniato dall’Apostolo Paolo quale voce semantica alternativa per elucidare i cristiani di Corinto sulla natura dei fenomeni straordinari dello Spirito Santo sperimentati nella loro Chiesa e da essi descritti con il termine ellenistico «pneumatika»[27]. San Paolo attribuisce a questo nuovo termine una chiara valenza cristologica ed ecclesiologica. Tuttavia, malgrado sia chiaro che nell’ecclesiologia paolina l’elemento carismatico appartiene all’essenza del mistero della Chiesa e dell’esperienza cristiana – alla stessa stregua del ministero o ufficio ecclesiale nonché dei Sacramenti -, la teologia si è continuamente posta la domanda se con la dottrina dei carismi San Paolo abbia voluto semplicemente esprimere l’idea di un’operazione dello Spirito Santo in seno alla Chiesa che esige dai cristiani un comportamento etico, oppure se abbia prevalso in lui – come nelle due lettere pastorali – l’idea che il Carisma sia un elemento costitutivo del ministero ordinato in quanto tale e, perciò un elemento costituzionale. L’Apostolo delle Genti ha inteso individuare nel Carisma un elemento della vita morale e spirituale del cristiano, oppure un modello organizzativo della comunità cristiana?

Attorno a questa interpretazione delle intenzioni di San Paolo si sono divise la tradizione protestante e quella cattolica[28]. Mentre la propensione della dottrina protestante è sempre stata quella di definire il ministero ordinato come Carisma, così da escluderne l’origine sacramentale, la dottrina cattolica ha valutato il Carisma prevalentemente in un’ottica mistico-spirituale, enfatizzando unilateralmente la struttura sacramentale-istituzionale della Costituzione della Chiesa. Una convergenza, oggi in atto tra queste due concezioni, avviene in campo protestante con il recupero del ministero e in campo cattolico con il recupero del Carisma come elemento fondamentale della Costituzione della Chiesa. Il Magistero stesso ha dato un’importantissimo contributo con la «Mystici Corporis» e soprattutto con il Vaticano II, i cui testi sui Carismi rivelano una straordinaria ricchezza[29]. Questa concordanza converge verso un progressivo svuotamento della conclamata antinomia tra la natura e la soprannatura, la fede e la ragione, la carità e la legge, il Carisma e l’Istituzione[30].

Ora, se si prescinde dall’accezione prevalentemente sociologica assunta dal termine Carisma nella cultura moderna, a seguito di Max Weber[31], – secondo cui carisma e carismatico significano ogni forza spirituale e culturale capace di creare una «leadership» di qualsiasi genere, – va sottolineato che nel lessico teologico moderno il termine ha assunto una valenza cristologica ed ecclesiologica sempre più intensa. Ciò è avvenuto, da una parte rivisitando elaborazioni concettuali messe a disposizione specialmente dalla Scolastica, le quali hanno permesso di distinguere tra il Carisma e le altre forme di intervento dello Spirito Santo (come per esempio la grazia creata, i doni dello Spirito conferiti nel battesimo, le virtù soprannaturali infuse e la grazia dell’ufficio), tutte profuse per la salvezza personale o per l’edificazione della Chiesa attraverso la sua economia sacramentale ordinaria; dall’altra riflettendo sull’esperienza carismatica di antiche e recenti forme aggregative ecclesiali.

La sostanza delle distinzioni scolastiche, confermata dal Concilio Vaticano II[32], mette in luce come la proposta, oggi avanzata da taluno di eliminare la presunta antinomia fra Carisma ed Istituzione utilizzando una nozione fondamentale di Carisma ed una accezione evolutiva di Sacramento, quasi che il Sacramento fosse una derivazione del Carisma, appare teologicamente discutibile e comunque inadeguata allo sviluppo di un’ecclesiologia di comunione. Per altro il ricorso a queste due nozioni non è in grado di elidere la tensione dottrinale creatasi storicamente tra il Carisma e l’Istituzione. Infatti il battesimo e l’ordine sacro, come del resto tutti gli altri sacramenti, pur avendo origine nel dono o carisma fatto agli uomini dallo Spirito di Dio attraverso la vocazione o chiamata di Cristo, rimangono elementi istituzionali, che hanno la loro genesi immediata o mediata nell’incarnazione del Cristo e sulla cui esistenza e natura la Chiesa può intervenire solo limitatamente. Non sembra perciò teologicamente giustificata la possibilità che la Chiesa istituzionalizzi i Carismi conferendo loro una struttura propriamente sacramentale[33], come sostengono per esempio Küng in Germania e Sartori in Italia. Anche nell’ipotesi che si possa definire genericamente la chiamata di Cristo alla salvezza come Carisma dato nello Spirito Santo, bisogna tuttavia tenere distinti i concetti teologici. Parola e Sacramento, infatti, sono una partecipazione ontologica alla persona di Cristo, Verbo fatto carne; per contro i carismi dello Spirito Santo postulano l’esistenza della struttura istituzionale della Chiesa, fondata, come abbiamo già ampiamente constatato, nella Parola e nel Sacramento. Nell’economia ordinaria della salvezza lo Spirito Santo non interviene prescindendo dalla struttura istituzionale conferita da Cristo alla Chiesa. Infatti, la Chiesa è «Ecclesia Christi» e non la Chiesa dello Spirito Santo; non si può cioè attribuire allo stesso modo la Chiesa al Cristo e allo Spirito Santo. Confondendo tali attribuzioni si intacca l’essenza stessa del mistero trinitario.

Per superare la tensione emersa storicamente dal rapporto bipolare tra Carisma ed Istituzione teorizzato come antinomia da Lutero con il binomio “Legge e Vangelo” (sfociato nella dottrina delle due chiese, visibile ed invisibile) e radicalizzato ulteriormente dal manifesto antigiuridico di Rudolf Sohm sull’esistenza di una contradditorietà assoluta tra il diritto e la Chiesa[34], non è necessario attribuire alla Chiesa una struttura fondamentale solo carismatica. Per contro è necessario, da una parte recuperare il significato ecclesiologico dell’istituzione nel senso indicato precedentemente, dall’altra approfondire il significato canonistico del Carisma analizzandone più da vicino le implicazioni giuridiche. Paradossalmente, quest’ultima operazione trova maggiori appoggi nell’esperienza carismatica delle nuove forme aggregative ecclesiali che non nel nuovo Codice di Diritto Canonico.

Infatti, cedendo all’obiezione ricorrente, secondo cui il Carisma non sarebbe apprezzabile dal profilo giuridico, il CIC si è sottratto all’onere di penetrare fino al cuore della struttura costituzionale della Chiesa e quindi di affrontare il problema del Carisma. Così facendo, il legislatore ecclesiastico dimentica che il fedele non è costituito solo dalla sua struttura sacramentale battesimale, grazie alla quale è investito del sacerdozio comune e del «sensus fidei»; ma anche dalla possibilità di diventare soggetto titolare di un carisma. Senza questa potenziale dimensione carismatica il fedele (e di conseguenza tutto il Popolo di Dio) rimane gravemente mortificato nella sua soggettività ecclesiale e giuridica. Proprio per questo il Vaticano II, come abbiamo già avuto modo di ricordare, non esita a riconoscere fra i diritti principali dei fedeli quello di esercitare i carismi (AA 3, 4). Nel CIC, invece, pur non mancando accenni allo Spirito Santo nella Chiesa[35], è stato inopinatamente stralciato il termine “Carisma”, che appariva ancora ben sette volte nello Schema Preparatorio del 1982. In quello Schema, tuttavia, i carismi erano riservati esclusivamente ai membri degli Istituti di Vita Consacrata, contrariamente al Concilio Vaticano II, dove i Carismi sono sempre attribuiti a tutti i fedeli in quanto tali. L’imbarazzo del legislatore ecclesiastico di fronte alla realtà del Carisma è perciò doppiamente evidente[36].

Ben diversa è la nozione di Carisma messa in luce dai movimenti ecclesiali e sulla quale il canonista deve riflettere. Non a caso la funzione ecclesiale di questi movimenti è stata riconosciuta come insostituibile da Papa Giovanni Paolo II in forza della loro origine carismatica[37]. Il che conferma come ogni tipo di aggregazione ecclesiale nata dalla sequela al “carisma originario” del fondatore o della fondatrice, sia costantemente caratterizzato da una forte esperienza della «communio fidelium», quasi fosse una concreta realtà familiare.

Il “carisma originario”, espressione compiuta del Carisma in genere, è dunque un dono particolare dello Spirito Santo che suscita una concreta fraternità la cui ragion d’essere coincide di fatto con il cosiddetto “fine apostolico generale della Chiesa” (AA 19, 1) che, per sua natura, è essenzialmente missionaria. Tale coincidenza, se per un verso impedisce di applicare meccanicamente a queste forme di aggregazione ecclesiale lo schema classico dell’associazione mutuato dalla scienza giuridica statuale, il cui significato analizzeremo in seguito, per questo verso evidenzia la dimensione dell’evento carismatico.

Due testi del Concilio Vaticano II costituiscono una precisa conferma della valenza costituzionale del Carisma: quello di LG 12, 2, dove si afferma – nel solco della tradizione paolina – che i carismi soggiacciono al giudizio dei Pastori e si fa obbligo a quest’ultimi di non estinguere i doni dello Spirito; e quello di AG 28,1 in cui il Carisma è considerato come fondamento del dovere-diritto dei fedeli di collaborare alla diffusione del Vangelo. La valenza giuridica del Carisma si rivela dunque in tutta evidenza nel fatto che esso, parallelamente ai doveri-diritti del fedele in quanto tali, erige una barriera invalicabile all’esercizio della «sacra potestas» dei Pastori[38], cui toccano non solo la responsabilità di giudicare l’autenticità dei carismi, ma anche soprattutto di rispettarne l’esistenza e l’effettiva possibilità di essere praticati.

Queste tre asserzioni di rilevanza costituzionale sul Carisma, ossia il suo essere un dono particolare che lo Spirito elargisce per la costruzione della comunione ecclesiale; il suo essere, quando esiste, uno dei fondamenti ecclesiologici del dovere-diritto dei fedeli di collaborare alla missione della Chiesa; ed infine il suo costituire un limite preciso all’esercizio della «sacra potestas», che significato hanno in riferimento ai fondamenti dottrinali della normativa che regola il fenomeno associativo della Chiesa?

 

3. I fondamenti dottrinali della normativa canonica concernente le associazioni

L’analisi dei dibattiti sulla sistematica del nuovo Codice di Diritto Canonico ha permesso a Winfried Aymans di formulare una interessante sintesi dottrinale sulla difficile distinzione fra «Verfassungsrecht» e «Vereinigungsrecht», cioè tra diritto costituzionale e diritto delle associazioni[39]. Mentre il diritto costituzionale trova il suo concetto chiave nella nozione conciliare di «communio», il diritto delle associazioni sembra svilupparsi interamente intorno alla nozione di «consociatio». Due sarebbero, sempre secondo Aymans, gli elementi costitutivi di una «consociatio» e come tali caratterizzanti tutto il diritto delle associazioni: innanzitutto il fatto che una «consociatio» si riconosce dalla libera e comune volontà di associarsi (la cosiddetta «Vereinigungswille»), espressa all’atto di fondazione da parte dei futuri consociati; in secondo luogo il fatto che questa volontà si pone uno o più scopi specifici che in qualche modo rientrano nella missione della Chiesa, ma non coincidono mai con la sua missione globale[40].

Ora, se è vero che questo modo di distinguere il diritto costituzionale canonico da quello delle associazioni ha il pregio di evidenziare come il vivere nella «communio» sia una condizione necessaria alla salvezza, contrariamente alla scelta di partecipare alla vita di una «consociatio», tuttavia la stessa distinzione non presta sufficientemente attenzione sia al fatto che molte aggregazioni ecclesiali, antiche (come per esempio gli ordini e le confraternite) o recenti (come ad esempio i movimenti ecclesiali) non sono nate dalla volontà puramente umana di associarsi, dalla forza aggregativa acquisita dal loro fondatore, o dalla loro fondatrice, attraverso il dono di un “carisma originario”; sia al fatto che, spesso, tali forme di vita ecclesiale, conformemente all’insegnamento del Concilio Vaticano II, non hanno scopi specifici o particolari, bensì “si propongono il fine generale della Chiesa” (AA 19, 1). Se così è, occorre andare alla ricerca di una nuova definizione del diritto delle associazioni canonico, in grado di rispettare fino in fondo i dati ecclesiologici emergenti dalla “nuova stagione associativa dei fedeli”; il tutto alla luce delle precedenti chiarificazioni circa le nozioni di Carisma, Costituzione ed Istituzione.

Questa definizione potrebbe essere formulata nel modo seguente: nella Chiesa il diritto delle associazioni è la rappresentazione in schemi e formule giuridiche – e quindi la regolamentazione funzionale – di un elemento costituzionale, il carisma. Ne consegue che la normativa canonica non concernente le associazioni struttura giuridicamente gli altri due elementi costituzionali: la Parola e il Sacramento. Entrambi questi “insiemi” normativi hanno carattere costituzionale. Mentre nel diritto statuale la costituzione e l’attività di una associazione dipendono esclusivamente dalla libera scelta volontaristica di chi intende associarsi, e quindi l’associazione stessa è un fenomeno dell’autonomia privata (sussistente entro i limiti formali fissati della legislazione positiva); nel sistema canonico, invece, un’associazione assume rilevanza ecclesiale non tanto perché nasce da un processo volontaristico dei fedeli, nell’esercizio di un diritto di decidere autonomamente, quanto piuttosto perché sorge da un impulso dello Spirito Santo e dunque dal manifestarsi di un carisma. Ne segue che, a monte della volontà fondazionale – o, per dirla in termini giuridici, del negozio di fondazione – esiste sempre nella Chiesa un impulso sovraordinato, un carisma che impedisce di collocare il fenomeno associativo entro i meri limiti dell’autonomia privata. Anzi, l’esistenza di tale impulso determina addirittura il superamento stesso della categoria giuridico-concettuale di “privato” e, per tanto, il superamento del binomio pubblico-privato. Distinzione la cui precarietà se è da più parti avvertita nell’esperienza giuridica statuale, è addirittura inconcepibile nel sistema canonico, perché inesistente dal profilo ecclesiologico.

Ciò non impedisce che una associazione possa esistere di fatto, come in effetti avviene nella Chiesa, anche quando non nasce da un’impulso dello Spirito Santo. È evidente, tuttavia, che tale associazione non ha rilevanza ecclesiologica, e dunque salvifica, apprezzabile. La distinzione tra pubblico e privato, introdotta nel nuovo CIC, è solo una categorizzazione didascalica con cui il legislatore distingue i vari gradi di ecclesialità propria ad una determinata associazione o a un determinato movimento. Le associazioni canoniche, definite private, se realizzano il principio della comunione sono sempre una realtà ecclesiale, cioè un fenomeno in cui si realizza la Chiesa; sono sempre, se realizzano il principio della comunione, un fatto ecclesiologico, di conseguenza esse non sono mai un fatto meramente privato nei termini della dogmatica giuridica laica. E ciò anche prima che l’autorità ecclesiastica intervenga a lodarle o raccomandarle ai sensi del c. 299 § 2. Ne è conferma il fatto che, se lo scopo di un’associazione canonica può essere particolare e quindi non ricomprendere esplicitamente tutte le finalità della Chiesa, tale scopo specifico implica comunque «in nuce» tutto il contenuto della vita cristiana e perciò tutta l’esperienza universale della Chiesa. Nel caso contrario, tale associazione non sarebbe nemmeno ecclesiale. Il tutto non si realizzerebbe nel frammento. Verrebbe meno il principio della «communio» che è il principio dell’immanenza dell’universale nel particolare come insegna il no. 23 della «Lumen Gentium».

Quanto detto non deve ovviamente portare alla conclusione che il Carisma sia l’unico fattore costituzionale che fa sorgere nuove strutture associative ecclesiali. Con esso e prima di esso, infatti, anche gli altri due fattori costituzionali, ma di natura istituzionale (cioè la Parola e il Sacramento) sono fattori eminentemente aggreganti: ed in modo primordiale ed imprescindibile lo è l’eucaristia: «fons et origo» della Chiesa come «aggregatio fidelium». L’eucaristia tuttavia ha dato vita ad un paradigma di aggregazione ecclesiale che ha assunto solo dopo il 3° e 4° secolo carattere di stabilità nella struttura giuridica della parrocchia. La parrocchia pertanto, a differenza della comunità eucaristica non è un’entità teologica ma storico giuridica, e per quanto importante sia a livello pastorale, non può essere considerata, dal profilo teologico, realtà costituente la Chiesa particolare. Infatti, mentre la Chiesa universale nasce dalle Chiese particolari («ex quibus») e si invera in esse («in quibus») la Chiesa particolare non nasce dalle parrocchie. Il principio «in quibus et ex quibus» della LG non è applicabile se non per analogia all’interno della Chiesa particolare, come emerge tra l’altro anche dalla costatazione che non c’è identità di struttura fra il Collegio dei Vescovi e il Presbiterio di una Chiesa particolare.

La parrocchia non è perciò un’entità giuridica ecclesiologicamente necessaria. Rispetto ad essa, infatti, il principio «in quibus et ex quibus» opera con ben maggior intensità, sia pure solo analogica, tra la Chiesa particolare e le legittime comunità eucaristiche in essa esistenti. Va tuttavia precisato che queste comunità eucaristiche possono assumere forme giuridiche differenti: quella fissa, della parrocchia appunto, e quelle variabili delle associazioni o dei movimenti. Quando un’associazione o un movimento celebra in proprio l’Eucaristia, si realizza il punto di convergenza, la cerniera, tra l’elemento istituzionale della Parola e del Sacramento e quello carismatico che ha dato origine al fatto associativo. In questo punto di convergenza si saldano l’elemento istituzionale e quello carismatico; ciò spiega il perché, spesso, nella Chiesa le esperienze associative sono più ricche e più intense di quelle vissute nella parrocchia; in forza della sequela al “carisma originario”, il fedele è sollecitato a vivere più consapevolmente la comunione ecclesiale. In effetti il carisma, come abbiamo già visto, ha la funzione di vivificare l’Istituzione.

Evidentemente la convergenza tra carisma ed istituzione può avvenire, con identica intensità, anche in seno alla parrocchia.

Va notato tuttavia che in essa il carisma non nasce in forza della sua strutturazione giuridico-territoriale, sibbene in forza dell’essere la parrocchia una comunità eucaristica; ed in quanto tale egualmente aperta – così come i Movimenti – all’impatto dell’evento carismatico.

Che poi tale impatto possa eventualmente apparire con minore frequenza, almeno statisticamente rispetto all’altissimo numero di parrocchie, è dovuto proprio al condizionamento che la struttura nella sua fissità determina inevitabilmente nei confronti di un fenomeno così libero e non prefigurabile quale il fiorire della fede nella sua creatività in forza dell’afflato dello Spirito Santo.

Sempre prendendo come punto di riferimento questa operatività del Carisma viene naturale sottolineare un’ulteriore differenziazione relativa questa volta a quelle forme giuridiche delle comunità eucaristiche (cioè le associazioni e i movimenti) che abbiamo convenzionalmente denominate “non fisse” di fronte all’enunciarsi del Carisma. Mentre il diritto delle associazioni segue criteri corporativistici applicando il principio assembleare e quello della maggioranza, i movimenti ecclesiali, invece, postulano generalmente un sistema cooptativo, similare alla struttura gerarchica stessa della Chiesa. Un’altra differenza sta anche nel fatto che nelle associazioni si esercita maggiormente un controllo sul rapporto tra singolo e struttura, ad esempio mediante una formalizzazione dei criteri di ammissione o di dimissione, nonché sui diritti e sui doveri dell’associato. L’assenza nei Movimenti di queste formalizzazioni spiega in parte le difficoltà della gerarchia di integrarli sotto il profilo organizzativo-pastorale, nel contesto della vita ecclesiale. È forse sulla base di quest’ultimo dato che il Codice del 1983 non ha saputo offrire una regolamentazione dei movimenti, preferendo la via giuridicamente forse più facile, ma dogmaticamente di certo più insoddisfacente, di non garantire loro, a differenza delle associazioni, un quadro normativo di riferimento.

Dal profilo dottrinale mi sembra che, dall’analisi fatta, si possa proporre la seguente conclusione: qualunque possa essere la valutazione di dettaglio della normativa codiciale sulle associazioni sarebbe errato ricondurla ad una espressione dell’autonomia privata del fedele, alla stregua di quanto avviene negli ordinamenti civili. Il diritto delle associazioni, come quello che dovesse «de iure condendo» regolare i movimenti, ha infatti carattere costituzionale perché è l’emanazione storica e positiva di un elemento fondamentale della Costituzione della Chiesa: il Carisma. Differisce dagli altri settori del sistema canonico, derivanti dalla Parola e dal Sacramento, non per il fatto di non essere costituzionale, bensì di non avere la qualifica di istituzionale.

 

[1] Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II. Strumento di lavoro per il Sinodo, Milano 1987 (Collana Magistero no. 125), n. 59.

[2] A tale proposito si rinvia in modo esemplificativo, soprattutto per quanto riguarda la bibliografia in merito (ordinata però secondo diverse prospettive), a: B. Primetshofer, Il principio del diritto di associazione nel Diritto Canonico, in: Concilium 5 (1969) 112; M. Tedeschi, Preliminari per uno studio dell’associazionismo spontaneo nella Chiesa, Milano 1974, soprattutto 1-13.

[3] In particolare si rinvia alla comunicazione congressuale dì: P. Krämer, Kein neuer kirchlicher Verein? Zur Ordnung für die Charismatische Erneuerung im Bereich der Deutschen Bischofskonferenz, soprattutto laddove l’autore sottolinea come questo movimento, pur configurandosi quale concretizzazione delle libertà sancite dai cc. 214, 215 e 216 non possiede alcuna delle caratteristiche fondamentali della figura giuridica di associazione. Dello stesso autore, cfr. pure: Charismatische Erneuerung der Kirche als Anfrage an das Kirchenrecht, in: P. Krämer, J. Mohr, Charismatische Erneuerung der Kirche. Chancen und Gefahren, Trier 1980 79-133.

[4] Cfr. E. Corecco, Profili istituzionali dei Movimenti nella Chiesa, in: I Movimenti nella Chiesa. Atti del I. Congresso Internazionale (Roma 23-27 settembre 1981), hrsg. von M. Camisasca, M. Vitali, Milano 1982, 203-234.

[5] Fra i saggi canonistici che sembrano porre il problema ancora in questi termini, oltre a quello del già citato Tedeschi (vedi sopra nota 2 ed in particolare le pagine 3-5 e 60-62), va pure segnalato: A. del Portillo, Ius associationis et associationes fidelium iuxta Concilii Vaticani II doctrinam, in: IusCan 8 (1968) 5-28.

[6] Per una critica lucida delle ecclesiologie che si rifanno a tale schema interpretativo, cfr. E. D. O’Connor, Charisme et Institution, in: NRT 106 (1974) 3-19.

[7] Infatti, come giustamente osservava più di dieci anni orsono Pedro Lombardia, al canonista reca uguale preoccupazione “… sia la posizione che nega o sottovaluta la funzione ecclesiale del diritto canonico per sottolineare l’importanza dei carismi, sia quella che esalta l’elemento giuridico, perché tanto l’una quanto l’altra … sembrano unilaterali. Ambedue coincidono, in definitiva, nel concepire il diritto della Chiesa come qualcosa che ha senso solo alla luce del dato istituzionale e nel vedere il dinamismo carismatico come qualcosa che, per la sua vitalità, resta ai margini del diritto.” (Carismi e Chiesa istituzionale, in: Studi in onore di Pietro Agostino D’Avack, II, Milano 1976, 957-988, 965).

[8] Per uno studio approfondito di tale rinnovamento rinvio al mio saggio: Theologie des Kirchenrechts, Trier 1980. Le tappe principali dello sviluppo dottrinale che ha portato la canonistica a questo rinnovamento sono sintetizzate nella relazione finale del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico: E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella Società. Aspetti metodologici della questione in: I Diritti Fondamentali del Cristiano nella Chiesa e nella Società. Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Friburgo (Svizzera) 6-11 ottobre 1980. A cura di E. Corecco, N. Herzog, A. Scola, Fribourg-Freiburg-Milano 1981, 1207-1234 soprattutto 1210-1213.

[9] Mi riferisco in particolare alla Tesi di abilitazione che L. Gerosa ha presentato alla Facoltà di Teologia dell’Università Cattolica di Eichstätt (BRD) e che ho tenuto costantemente presente nello svolgere questa mia relazione. (L’edizione tedesca è uscita durante la correzione delle bozze: L. Gerosa, Charisma und Recht. Kirchenrechtliche Überlegungen zum “Urcharisma” der neuen Vereinigungsformen in der Kirche, Einsiedeln-Trier 1989). Alcuni spunti dello stesso lavoro, sebbene in una prospettiva diversa e del tutto particolare, sono ripresi in una comunicazione relativa alla prima Sessione di questo Congresso, cfr.: L. Gerosa, La consacrazione episcopale: Punto sorgivo dell’unità fra Istituzione e Carisma nella Chiesa?

[10] L’ordinamento giuridico, Firenze 1951 (II. Ed.), 39.

[11] Cfr. F. Modugno, Istituzione, in: Enciclopedia di Diritto XXII (1973) 69-96 ed in particolare il primo paragrafo: “Pluralità di significati” (69-70).

[12] Infatti, se nel diritto romano, per derivazione da uno dei significati comuni di “Institutio” (l’insegnamento di una data disciplina, come ad esempio l’“Institutio Oratoria” di Quintiliano), da Gaio in poi “Institutiones” significava l’insegnamento propedeutico al diritto, in epoca molto più recente con lo stesso termine si arriva, sotto l’influenza dell’istituzionalismo moderno, ad indicare la “produzione di diritto” o la posizione di un ordine giuridico. Di conseguenza, anche a livello teorico, l’indagine giuridica viene arbitrariamente ridotta allo studio della cosiddetta “Istituzione” intesa come realtà unitaria, fissa e durevole, quasi essa fosse l’unica forma in cui il diritto possa manifestarsi direttamente. (Cfr. F. Modugno, Istituzione, 70-71).

[13] A tale proposito, cfr. G. Gundlach, Institution. I. Die Institution in sozialphilosophischer Sicht, in: Staatslexikon. Recht – Wirtschaft – Gesellschaft, hrsg. von der Görres-Gesellschaft IV (61959) 324-327.

[14] Cfr. M. Tedeschi, Preliminari ad uno studio dell’associazionismo (vedi sopra nota 2), 60. Lo stesso autore (Preliminari, 84 ss.) saluta positivamente il tentativo di quei canonisti spagnoli come Díaz (cfr. Derecho Fundamental de asociacion en la Iglesia, Pamplona 1972) che, tentando di offrire uno statuto giuridico alle nuove forme di aggregazione ecclesiale, sviluppano dal profilo canonistico la nozione, oggi ampiamente accolta in campo civilistico, del “soggetto collettivo non personificato”. L’errore di metodo è però analogo dato che il diritto statuale non può mai essere considerato come l’analogatum princeps del sistema canonico.

[15] Per una descrizione critica di tale processo di identificazione si rinvia a: J. Hervada, P. Lombardía, El Derecho del Pueblo de Dios, I. Pamplona 1970, 229 ss.

[16] A tale proposito cfr.: C. Bauer, Institution. II. Die Institution in historischer Sicht, in: Staatslexikon IV. op. cit., 327-330 ed in particolare 329.

[17] Cfr. Pneuma und Institution. Skizzen zur Theologie IV., Einsiedeln 1974, I, 129-130 e 229-233.

[18] In proposito è davvero illuminante il saggio di: J. Ratzinger, Der Heilige Geist als “communio”. Zum Verhältnis von Pneumotologie und Spiritualität bei Agustinus, in: C. Heitmann, II. Mühlen, Erfahrung und Theologie des Heiligen Geistes, München 1974, 225-238.

[19] A proposito di questo principio si rinvia al paragrafo “La nozione di communio” del saggio: Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali (vedi sopra nota 8) 1222- 1225.

[20] Per un’analisi approfondita di questa diversità vedi: E. Corecco, Prospettive per la “Lex Ecclesiae Fundamentalis” e la revisione del Diritto Canonico nel documento di Puebla, in: DirEccl 1 (1980) 3-23.

[21] I molteplici risvolti giuridici di questa verità, che qui non è nemmeno possibile elencare, convergono tutti nel mettere in evidenza come la struttura profonda del mistero della Chiesa è essenzialmente quella di essere una communio Ecclesiarum. Per le principali conseguenze di questa verità, che trova la sua sintesi nella formula ecclesiologica di LG 23, 1 (secondo cui la Chiesa universale si realizza nelle e dalle Chiese particolari: in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia catholica existit), si rinvia a: W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung, München 1970, 318-330 e al mio più recente saggio: Chiesa particolare, in: Digesto, Torino (in corso di stampa).

 [22] Cfr. E. Corecco, Battesimo, in: Digesto, Torino (in corso di stampa).

[23] Per un’ampia analisi delle teorie relative alla sacra potestas, cfr.: E. Corecco, Natur und Struktur der “sacra potestas” in der kanonistischen Doktrin und in neuem CIC, in: AfkKR 153 (1984) 354-383.

[24] Preferiamo questa espressione a quella di “carisma di fondazione” perché, come giustamente osserva Hans Urs von Balthasar, anche storicamente è più volte provato che il carisma originario del fondatore pur avendo dato origine ad un ordine, ad una associazione o a un movimento non era necessariamente ordinato a tale fondazione particolare, ma piuttosto al rinnovamento dello spirito ecclesiale in genere (cfr. Riflessioni per un lavoro sui movimenti laicali nella Chiesa in: I laici e la missione della Chiesa, Milano 1987, 85-106 ed in particolare 87).

[25] Cfr. E. Corecco, Profili istituzionali dei Movimenti nella Chiesa, in: I Movimenti della Chiesa negli anni ‘80 (vedi sopra nota 4), 203-234.

[26] Cfr. E. Corecco, Il catalogo dei doveri-diritti del fedele nel CIC, in: I Diritti Fondamentali della Persona Umana e la Libertà Religiosa. Atti del V. Colloquio giuridico (8-10 marzo 1984), Roma 1985, 101-121.

[27] Tutti i diciassette testi neotestamentari, in cui la voce Carisma ricorre, appartengono agli scritti paolini ad eccezione della I Pt 4, 10. Che il termine non sia stato utilizzato nei Vangeli e negli altri scritti neotestamentari, e che la sua frequenza sia trascurabile anche nei Padri apostolici, è un indice che la questione dei carismi è emersa solo raramente nella predicazione primitiva. Per un’analisi più approfondita di tutti i dati biblici relativi al Carisma oltre che alla tesi di L. Gerosa (vedi sopra nota 9), rinvio pure al mio recente saggio: Carisma, in: Digesto, Torino (in corso di stampa).

[28] A tale proposito vedi l’ampio saggio di: L. Sartori, Carismi e ministeri, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare, I. Torino 1977, 504-516.

[29] Per un’analisi di questi testi rinvio al paragrafo 3 della Comunicazione congressuale di L. Gerosa (vedi sopra nota 9) e al saggio di: G. Rambaldi, Uso e significato di “Carisma” nel Vaticano II. Analisi e confronto di due passi conciliari sui carismi, in: Gregorianum 66 (1975) 141-162.

[30] Il tentativo più radicale in atto in campo cattolico è quello di rovesciare i termini del problema. Non si tratta semplicemente di riconoscere che non esiste nessuna contraddizione strutturale tra Carisma e Istituzione, poiché tutte e due provengono da Dio e dal suo Spirito come unica fonte, ma di affermare che la stessa sacramentalità e gli stessi ministeri sono di origine e di natura carismatica. Questa tesi, dapprima abbozzata da Hans Küng (cfr. Die charismatische Struktur der Kirche, in: Concilium 1 [1965] 282-290) sotto la forte influenza dell’esegeta protestante Ernst Käsemann, è sviluppata ecclesiologicamente da un discepolo del teologo di Tubinga (cfr. G. Hasenhüttl, Charisma. Ordnungsprinzip der Kirche, Freihurg-Basel-Wien 1969) e più tardi nella prospettiva di una sociologia della religione da un famoso rappresentante della Teologia della Liberazione (cfr. L. Boff, Igreja: Carisma e Poder, Petropolis 1981). Per un’analisi critica di tutte queste opere vedi la già citata Tesi di abilitazione di L. Gerosa (cfr. sopra nota 9); qui è invece sufficiente ricordare come nella prospettiva teologica appena segnalata i ministeri sacramentali sarebbero solo l’esito della autentificazione ufficiale e storica fatta a posteriori dalla Chiesa che con la sua autorità sancisce in modo più o meno definitivo i carismi consolidatisi come più funzionali alla edificazione e conduzione della Chiesa. Il presupposto di questa tesi è l’affermata esistenza di una struttura fondamentalmente carismatica della Chiesa. Che la dinamica di questo processo di rivalutazione coincida esattamente con quella in atto nella teologia e nella prassi di un certo protestantesimo contemporaneo in rapporto ai ministeri dovrebbe essere verificato. Esempi, comunque, di questa progressiva istituzionalizzazione del Carisma possono essere stati: nel passato l’istituzione degli ordini minori, come per esempio quello dell’esorcista, e nel futuro potrebbe essere il riconoscimento di nuovi ministeri ecclesiali clericali e laicali, con carattere più o meno dichiaratamente sacramentale (cfr. K. Rahner, Das Charismatische in der Kirche, in: LThK2 II (1958) 1027-1030). Non va infine dimenticato che in questa tesi la nozione di Carisma è utilizzata secondo una accezione fondamentale valevole per tutte le forme assunte dalle operazioni e dai doni dello Spirito Santo, così da essere applicabile a Cristo stesso e alla Chiesa, senza tener conto delle specificazioni formali e materiali individuate nel frattempo dalla teologia.

[31] Cfr. Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, 3 Bde. Tübingen 1920.

[32] Vedi sopra nota 9.

[33] Dall’altra parte non è possibile prescindere dal fatto che l’istituzione dei Sacramenti (anche quando fosse avvenuta per la mediazione degli Apostoli) non è attribuibile direttamente allo Spirito Santo, allo stesso modo dei carismi. Se è vero che Cristo è l’Epifania totale dello Spirito di Dio, per cui non è possibile contrapporre lo Spirito Santo a Cristo – supreme espressioni della nozione stessa di unità -, è altrettanto vero che se non si distinguono le diverse operazioni dell’una e dell’altra Persona si mette a repentaglio la nozione stessa di Trinità.

[34] Il famoso canonista protestante afferma infatti che: “Das Kirchenrecht steht mit dem Wesen der Kirche in Widerspruch.”, cfr.: Kirchenrecht, I, Leipzig 1892, 1 e 700.

[35] Così, ad esempio, nel c. 879 a proposito del sacramento della confermazione; nel c. 369 come forza aggregante della Chiesa particolare; nel c. 375 § 1 come elemento costitutivo della successione apostolica, o nel c. 747 § 1 in relazione con l’assistenza al magistero della Chiesa. Un chiaro riferimento ai “doni dello Spirito Santo” appare nella normativa sugli Istituti di Vita Consacrata (cc. 573-746), ma bisogna tener conto del fatto che questa espressione (c. 605) assieme ad altre, come donationes (c. 577), oppure patrimonium instituti (c. 631 § 1), con ogni evidenza ritenute dal legislatore più anodine se non addirittura totalmente diverse, sono state di proposito scelte per sostituire il termine “Carisma”. Tuttavia, proprio in forza di questi ripetuti accenni all’azione dello Spirito Santo, è possibile concludere che l’infelice soppressione drastica del termine “Carisma” non è riuscita a cancellare completamente il “principio carismatico” dal sistema canonico (cfr. G. Chantraine, La Chiesa come comunicazione e movimento, in: I laici e la missione della Chiesa, [vedi sopra nota 24], 27-46 e soprattutto 32-37).

[36] Attenua questo giudizio negativo sull’espunzione del termine Carisma dall’ordinamento canonico il fatto che il CIC, contrariamente ai progetti preparatori fino al 1980, ha riconosciuto agli Istituti di Vita Consacrata carattere costituzionale e non semplicemente associativo. Il CIC, nella scia del Vaticano II, senza voler risolvere l’annosa quaestio disputata circa l’origine di consigli evangelici nello ius divinum, che rappresentano comunque una forma istituzionalizzata del Carisma, ne ha voluto rafforzare lo spessore ecclesiologico-costituzionale, non solo dichiarandoli appartenenti alla “vita e alla santità della Chiesa” (c. 207 § 2), ma sottolineando chiaramente che essi sono un “dono divino che la Chiesa ha ricevuto dal Signore” (c. 575).

[37] Cfr. Giovanni Paolo II. Discorso del Santo Padre, in: I Movimenti nella Chiesa. Atti del II Colloquio Internazionale, Milano 1987, 23-26, e soprattutto 24.

[38] Cfr. E. Corecco, Aspetti della ricezione del Vaticano II nel Codice di Diritto Canonico, in: Il Vaticano II e la Chiesa. A cura di G. Alberigo, J.P. Jossua, Brescia 1985, 333-397.

[39] Vedi soprattutto il saggio: Kirchliches Verfassungsrecht und Vereinigungsrecht in der Kirche, in: ÖAKR 32 (1981) 79-100.

[40] “Der Zweck einer kirchlichen Vereinigung ist stets ein spezifischer Ausschnitt aus der Gesamtsendung der Kirche, nie die Sendung; als Ganze.” (W. Aymans, Kirchliches Verfassungsrecht und Vereinigungsrecht in der Kirche, 92).