1. Il Vescovo, capo della Chiesa locale, protettore e promotore della disciplina locale

 

 



I. La Chiesa, Sacramento della Trinità

Come ogni realtà cristiana anche la Chiesa trova l’origine e la spiegazione esemplare ultima della sua struttura nel mistero dell’unità e pluralità del Dio uno e trino[1]. Non sarebbe possibile perciò spiegare l’unità e la pluralità della Chiesa argomentando semplicemente con motivazioni filosofiche o storiche[2]. La tensione nella quale si realizza la pluralità delle Chiese particolari nell’unità della Chiesa universale sfocerebbe inevitabilmente in una insuperabile antinomia, perché la Chiesa è «…il popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo»[3]. Questa polivalenza della Chiesa è stata percepita fin dagli inizi della riflessione teologica. San Paolo e poi San Cipriano imprimono al termine «Chiesa» un significato sia locale che universale[4]. Sembra tuttavia che nella patristica abbia prevalso la visione della Chiesa universale[5], mentre sul piano delle strutture si impose in un primo tempo l’esperienza della realtà ecclesiale locale. In Occidente e in Oriente queste due linee di fatti e di pensiero si sono sviluppate in modo unilaterale, nel segno di una estraneità reciproca, ispirando una ecclesiologia e un Diritto canonico diverso, che hanno offerto le motivazioni ultime per la consumazione del grande scisma[6].

 


II. L’ecclesiologia della Chiesa particolare o della comunione.

1. La concezione della Chiesa

L’ecclesiologia della comunione, tipica, anche se non esclusiva, del pensiero orientale, affronta il problema della Chiesa partendo empiricamente dalla comunità locale e attingendo a componenti storico-antropologiche diverse da quelle occidentali. A differenza di quella latina, che si china di preferenza sulle realtà ecclesiali terrestri, la teologia orientale è segnata da un gusto ellenistico per l’ontologia di quelle celesti. La Chiesa è come una icone; è sacramento della realtà spirituale celeste. L’ecclesiologia è perciò essenzialmente sacramentaria ed eucaristica, incentrata sulla comunità locale, nella quale la Chiesa universale si realizza in modo sempre uguale e perfetto[7]. Il principio informante del diritto inter-ecclesiale divenne in oriente quello di tradurre concretamente il mistero dell’alleanza universale in Cristo fra le Chiese dell’ecumene. Ciò fu realizzato non tanto con norme dettate dall’alto, quanto piuttosto dalla prassi dei rapporti tra le diverse comunità, al livello personale (lettere, ospitalità, diaconia), cultuale (eulogia, fermento, scomunica) e più tardi istituzionale (sinodi, ecc…). In questa dinamica ecclesiale il ruolo del vescovo di Roma è relativo. Più che autorità con un potere di diritto divino superiore a quello degli altri vescovi, è considerato come il custode dell’unità ecclesiale con un potere non «sulla» Chiesa, ma «nella» comunione ecclesiale[8]. Quest’ultima a sua volta è generata più da un vincolo di amore nello Spirito Santo («sobor- nost»), che dalla legittimità di un’autorità monarchica fondata sul possesso di un ufficio ecclesiastico[9].

2. La struttura sinodale

Questa ecclesiologia si è tradotta nell’ortodossia in un sistema sinodale acefalo[10]. Poiché la Chiesa deve rispecchiare con fedeltà l’uguaglianza esistente tra le Persone della SS. Trinità, e i vescovi, in forza della consacrazione, sono uguali tra di loro, la struttura del sistema sinodale è paritaria: la competenza ultima non spetta mai ad un’autorità individuale, ma al corpo dei vescovi[11]. L’istituto nel quale si è riflessa con maggiore precisione questa concezione ecclesiologica è il sinodo «endemousa», grazie al quale la Chiesa bizantina si sente in una situazione sinodale permanente. È a regime paritario. Il patriarca non vi ha lo stesso potere che il papa godeva sul sinodo romano, rivendicava su quello ecumenico e otterrà più tardi anche sui concili provinciali. Il sinodo non può procedere senza il patriarca e quest’ultimo non può decidere definitivamente senza di esso[12].

3. La funzione del vescovo

L’immagine mistico-cultuale prevale su quella canonico-giuridica. Il vescovo è l’immagine tipologica del Padre in mezzo alla Chiesa, il liturgo che riunisce tutta la comunità locale in una tensione di ritorno verso il Padre e in un vincolo di comunione con tutte le altre Chiese[13]. La dimensione collegiale fu vista come così coessenziale alla funzione episcopale[l4], da negare ogni autorità personale superiore di tipo monarchico. Per riflesso l’autorità episcopale risultò rafforzata sul piano della Chiesa particolare. I vescovi superiori (patriarca, metropolita) hanno dei poteri solo in quanto gli sono riconosciuti dal corpo episcopale (concilio ecumenico, sinodo patriarcale) [15]. Tecnicamente ciò si tradusse sul piano giuridico in un sistema di concessioni, non dall’alto verso il basso come nella Chiesa latina, ma dal basso verso l’alto, eliminando così ogni possibilità di interferenze di tipo personale nell’ambito giurisdizionale dei vescovi inferiori, che di conseguenza godono di un’ampia libertà d’azione locale[16].

 


III. L’ecclesiologia della Chiesa universale

1. La concezione della Chiesa

In occidente l’ecclesiologia ha subito uno sviluppo diverso grazie anche ad una differente teologia eucaristica. In Oriente prevale l’idea di trascendenza, per cui nella frazione del pane tutti i vescovi rappresentano Cristo allo stesso modo. In Occidente l’eucaristia è vista più giuridicamente; come sacrificio della riconciliazione, in rapporto con il potere di sciogliere e legare. L’atto redentivo celebrato dai vescovi nel sacrificio eucaristico è compiuto in modo eminente dal successore di Pietro (Mt 16, 19), che perciò gode di un primato sugli altri[17]. La concezione agostiniana, secondo la quale nella celebrazione locale dell’eucaristia si manifesta l’unità di tutta la Chiesa universale, è raccolta in modo unilaterale dal medioevo, per il quale la Chiesa diventa sinonimo di totalità, dove tutti i credenti sono incorporati in un vertice organizzativo[18].

La «Chiesa di Roma», intesa anticamente con riferimento locale, diventa equivalente a «Chiesa cattolica», in una visione imperiale universale, alla quale il genio latino delle decretali impone una disciplina uniformatrice. Con la riforma gregoriana avviene in Occidente uno sganciamento della Chiesa dalle strutture teocratiche feudali, che le permette di affermarsi come società perfetta, con una autonomia e un diritto propri, nei confronti del potere secolare[19], e di trasformarsi in una specie di grande diocesi, nella quale anche i nuovi ordini religiosi sono incorporati direttamente[20]. Il papa ha la «plenitudo potestatis», è la «fons et origo» di tutta la vita ecclesiale e il primo vescovo di ogni diocesi[21]. Il principio informatore dei rapporti giuridici con i vescovi diventa quello della distribuzione dei singoli pastori «in partem sollecitudinis papae». Ciò induce la dottrina a declassarli nella posizione di semplici vicari o legati[22].

2. La struttura sinodale

In questa visione universale e piramidale latina, si precisa anche una diversa struttura conciliare. I concili generali più che assemblee di vescovi deliberanti sono una rappresentazione di tutta la cristianità, riunita per consigliare il sommo pontefice. Il papa è il capo, i vescovi le membra. Non sono presenti sullo stesso piano e neppure come corpo, ma piuttosto come singoli individui[23]. Con il Tridentino è avvenuto un ricupero di fatto dell’episcopato nelle sue responsabilità collegiali[24]. Tuttavia l’ecclesiologia, condizionata dalle pressioni protestanti e gallicane, evolve ulteriormente verso una concezione incentrata sul papa e sulla Chiesa universale, che lascia in ombra il concetto di «communio», per insistere sul carattere societario, tradottosi nell’idea del primato giuridico[25]. Ciò compromise sempre di più l’autonomia e la vitalità sinodale delle Chiese particolari[26].

3. La funzione del vescovo

In seguito alla tensione nata nei rapporti tra la Chiesa universale e particolare, la figura giuridica del vescovo ha registrato in occidente forti fluttuazioni[27]. Come in Oriente fino al iv secolo l’autorità del vescovo come capo della Chiesa particolare, è indiscussa («Ein gewaltiger Herr»)[28]. Fa perno sul possesso delle funzioni legislative, giudiziarie e amministrative e si esprime simbolicamente nella celebrazione dell’unica eucaristia, alla quale partecipa tutto il presbiterio e tutto il popolo[29]. Nelle sue decisioni si sente legato al consiglio del presbiterio, ai desideri del popolo e alla tradizione locale. La necessità di adattarsi ad un mondo nuovo, che si impone per la sua unità politicoreligiosa, trasforma il vescovo in un rappresentante amministrativo locale di un’organizzazione onnipresente di governo ecclesiastico e statale, spersonalizzando i suoi rapporti con la comunità locale (prassi dell’ordinazione assoluta). La progressiva centralizzazione condotta da Roma, se da una parte indebolisce l’istituto metropolitano (concepito ormai solo come un’emanazione del Primato), dall’altra riduce i vescovi d’Occidente, che pure avevano consolidato la loro posizione in forza di rapporti di diritto privato (sistema della Chiesa propria) e di diritto pubblico (funzioni feudali, «bannus»), alla situazione di suffraga- nei, simile a quella esistente nelle diocesi suburbicarie[30]. L’autorità episcopale è minata profondamente anche all’interno della giurisdizione diocesana. Dal primo Medioevo la diffusione della struttura parrocchiale aveva poco a poco polverizzato il presbiterio, trasformando il prete in un ministro, che vanta poteri propri e che ha perso in grande parte il legame strutturale collegiale con il suo vescovo[31]. Nell’alto Medioevo la concessione di innumerevoli privilegi ed esenzioni (conventi, ordini religiosi, fondazioni, università) e la politica beneficiale della Santa Sede (riserve), hanno rafforzato, assieme al diritto particolare e consuetudinario, in modo sproporzionato i capitoli cattedrali (capitolazioni), i prelati superiori (arcidiaconi, vescovi ausiliari) e i laici (giuspatronato). Questo duplice fenomeno di indebolimento dell’ufficio episcopale sia verso l’alto che verso il basso, ha coinvolto anche la teologia scolastica. Il potere di giurisdizione, visto ormai slegato da quello di ordine[32], è considerato solo come una emanazione di quello papale, mentre sul piano del potere di ordine il vescovo è assimilato al semplice sacerdote (stesso potere di ordine, non sacramentalità dell’episcopato)[33]. Nella cultura universalistica medioevale, che non riesce a concepire un’autorità se non sotto la forma di un capo comandante a un corpo, il vescovo è visto isolatamente, come funzionario papale legato ad una realtà locale[34], tenuto al giuramento di obbedienza e alla visita «ad limina». E sottovalutato sia come custode della Chiesa particolare, per le troppe interferenze di terzi, sia come anello di congiunzione con le altre Chiese e quella universale, perché a dispetto di un’intensa attività sinodale, il Medioevo ha avuto una scarsa coscienza della collegialità episcopale[35]. La riforma tridentina ha intrawisto che la crisi ecclesiale proveniva dagli squilibri che avevano indebolito l’ufficio episcopale. Non avendo saputo risolvere la questione di fondo dell’origine divina o umana della giurisdizione dei vescovi[36], cercò di superare lo spinoso problema posto dalla necessità di rafforzare non solo il potere papale ma anche quello dei vescovi diocesani, ricorrendo pragmatisticamente all’istituto della delegazione «a iure», con la quale passò ad essi, «a prestito», facoltà ritenute proprie dell’ufficio prima- ziale[37]. Per ridurre gli abusi provocati dalle esenzioni restaurò il diritto di visitazione e di sorveglianza (amministrazione dei beni ecclesiastici) dell’ordinario, gli riconobbe il diritto di legiferare nel proprio territorio senza approvazione papale e quello di dispensare in casi particolari dal diritto comune. Impose anche degli obblighi (residenza), contribuendo a ricuperare un’immagine più sacrale del vescovo[38]. Non fu una vera restaurazione del potere dei vescovi, perché ancora una volta furono considerati, come del resto anche con la codificazione del 1917, in una visuale di dipendenza troppo stretta dal papa e in un contesto ecclesiologico individualistico, che non teneva debito conto della loro funzione e responsabilità collegiale.

 


IV. La riforma del Vaticano II

1. L’ecclesiologia

Il valore della Chiesa particolare è stato affermato dal Vaticano II come da nessun altro Concilio[39]. Nella dialettica del pensiero conciliare tuttavia essa emerge in una visuale leggermente strumentalizzata, quale mezzo e luogo di realizzazione della Chiesa universale[40]. L’affermazione di fondo (Vat. Eccl. 26, 1) sulla Chiesa particolare è stata introdotta tardivamente negli schemi della Lumen gentium, cosicché non ha potuto inserirsi come principio strutturale alla pari dell’idea della Chiesa universale. Resta il fatto comunque che il Concilio ha giustificato appieno un’ecclesiologia che prenda lo spunto dalla comunità eucaristica[41]. La tentazione di considerare la Chiesa particolare come una semplice circoscrizione amministrativa di quella universale, è stata nettamente superata; infatti la sua esistenza viene giustificata non partendo da imperativi storico-socio- logici, bensì dogmatici. Essa realizza in se stessa la totalità della Chiesa in quanto rende presente nella celebrazione episcopale della Parola e del Sacramento il mistero trinitario, offrendo nello stesso tempo il punto di incontro indispensabile attraverso il quale l’uomo concreto può venire in contatto con il mistero della salvezza[42], rappresentato nella sua totalità simbolica solo dalla Chiesa universale[43], che è il sacramento in Cristo dell’unione con Dio e con tutto il genere umano[44]. Poiché l’unità della Chiesa non nasce dall’uniformità, ma dalla pluralità[45], le Chiese particolari, nella loro originalità propria, diventano le componenti essenziali, in una scala gerarchica di possibilità rappresentative, che il Vaticano ha saputo valorizzare fino in fondo (patriarcato, diocesi, parrocchia, Chiesa domestica[46], comunità ecclesiali separate)[47]. Il Concilio non è entrato in merito alla questione dibattuta sulla priorità della Chiesa universale o particolare. Ha affermato la legittimità delle due ecclesiologie, purché siano concepite in una prospettiva di rapporto reciproco. In realtà esiste sia una struttura della Chiesa universale (primato, collegio episcopale), sia una struttura della Chiesa particolare (ufficio episcopale)[48]. Cristo non ha istituito prioritariamente né la Chiesa universale[49], né quella particolare, bensì la Chiesa come tale, con la complementarietà della sua duplice struttura.

2. La struttura collegiale

Partendo dall’esperienza concreta, l’antichità ha sempre considerato l’idea del collegio universale dei vescovi come secondaria, mettendo in primo piano quello delle Chiese particolari. La teologia moderna, che oltre a non aver conosciuto un’esperienza ecclesiale di attività sinodale, risente ancora della impostazione culturale illuministica, ha affrontato il problema, non storicamente ma speculativamente[50]. Il Vaticano II ha perciò subito, al livello strutturale della collegialità, l’influsso della teologia latina della Chiesa universale in misura ancora più marcata che non a quello puramente ecclesiologico. Infatti non ha riconosciuto il carattere della collegialità in senso stretto che al collegio di tutti i vescovi, ponendo come problemi centrali quello del rapporto con il primato e quello dell’esistenza di un unico o di un duplice soggetto di potere[51]. Se ha rivalutato le forme conciliari particolari[52], concentrandosi specialmente sulla forma moderna delle conferenze episcopali[53], non ha però attribuito ad esse, da un punto di vista del contenuto, la qualifica della collegialità, scartando l’ipotesi che potessero essere una forma di partecipazione al potere supremo del collegio universale[34]. In realtà sono vere forme collegiali, ma di tipo particolare, che si differenziano dalla prima per il fatto di non poter rivendicare un potere su tutta la Chiesa. Mentre il CIC aveva visto in esse solo delle istituzioni derivanti dal primato, il Vaticano II ha riconosciuto le forme collegiali particolari, come istituti che hanno la loro giustificazione ultima nel potere ordinario e proprio dei vescovi. In particolare ha fatto delle conferenze dei vescovi delle vere istanze intermedie di tipo sinodale tra il potere centrale e i vescovi locali, avviate ormai ad assumere competenze generali e non solo in casi particolari come attualmente[55].

3. La funzione del vescovo

a) La Chiesa particolare come criterio di definizione

La figura teologico-giuridica del vescovo è uscita dal Vaticano II radicalmente restaurata nella sua funzione originale, sia verso l’alto che verso il basso. La dottrina della collegialità ha rimesso in risalto le sue responsabilità giuridiche e morali nei confronti di tutta la Chiesa. La rivalutazione della Chiesa particolare ha restaurato le sue funzioni originali come responsabile della stessa. Poiché la Chiesa particolare è Chiesa solo in quanto è in grado di realizzare gli aspetti essenziali di quella universale, e parallelamente il vescovo è legittimo suo capo solo in quanto è membro del collegio episcopale, la Chiesa locale deve essere presa come criterio per definire le funzioni del vescovo, che la presiede e rappresenta in seno al collegio di tutti i vescovi[56]. Non è perciò solo per considerazioni organizzative che il Vaticano II, per la prima volta nella storia dei Concili, si è preoccupato di definire la natura della diocesi[57].

b) L’aspetto personale del potere

Analogicamente alla Chiesa universale esiste un principio personale ed uno collegiale di unità aü’interno della diocesi[58]. Il vescovo è il principio personale in quanto possiede per diritto divino tutto il potere di ordine e giurisdizione per esplicarvi gli uffici apostolici di insegnare, santificare e governare[59]. Il Concilio ha operato un capovolgimento radicale della prospettiva con la quale deve essere affrontato l’ufficio episcopale, restituendogli nella- sua pienezza la posizione goduta alle origini e conservata in modo più chiaro nella tradizione orientale. Ha definito il potere di ordine del vescovo non in rapporto a quello del prete, ma viceversa, attribuendo al primo la pienezza sacramentale del sacerdozio[60]. In rapporto al potere di giurisdizione invece ha eliminato la possibilità di vederlo come una derivazione da quello primaziale, affermando esplicitamente che il singolo vescovo ha «per sé» e originariamente tutti i poteri ordinari necessari per svolgere la sua funzione apostolica[61]. Dal sistema della concessione dei poteri dal papa al vescovo, si è passati a quello della riserva al papa. Poiché il diritto divino non esiste astrattamente, ma può realizzarsi solo storicamente attraverso l’esplicitazione del diritto umano[62], il problema è quello di sapere in concreto quali sono i poteri necessari al vescovo per poter custodire e promuovere la disciplina della sua Chiesa particolare, in modo che questa possa validamente rappresentare la Chiesa universale. La traduzione tecnico-giuridica del sistema della riserva urta contro una difficoltà di fondo. L’ufficio del vescovo deve essere circoscritto positivamente nei suoi contenuti, per evitare che la presunzione giuridica generale, creata dal Vaticano II in suo favore, non degeneri nell’arbitrio. Il problema evidentemente non può essere risolto solo con la concessione di una facoltà generale di dispensare dal diritto comune[63], ma anche ponendo il vescovo, con una revisione del CIC, nella possibilità di intervenire legislativamente, amministrativamente e giudiziariamente per sviluppare una disciplina particolare, che tenga conto della fisionomia e delle esigenze peculiari della sua diocesi[64]. Si tratta perciò di restituire alla Chiesa particolare quella autonomia e quell’unità interna, grazie alla quale sia possibile praticare una pastorale d’assieme omogenea, sotto la guida di un unico responsabile ultimo. In questa direzione si muovono per esempio quelle norme conciliari che positivamente tendono a mettere in risalto la responsabilità globale del vescovo in certi settori[65], e negativamente a rompere quegli elementi centrifughi che sottraevano il clero[66], i laici[67] e i religiosi[68], da un riferimento più diretto all’autorità del vescovo. In sostanza si tratta di tradurre in termini operativo- giuridici lo «specchio del vescovo» dato dal decreto Christus Dominus ai nn. 11-16[69].

c) L’aspetto sinodale del potere

Lo sviluppo assunto oggi dall’attività pastorale in una civiltà industrializzata e del consumo, dove le interferenze di tutti i settori sono in rapidissima espansione, implica il rischio di sopravvalutare le possibilità di una singola persona. Questa considerazione, ma soprattutto quelle teologiche di fondo, hanno fatto scoprire la dimensione dell’episcopato anche verso il basso.

La restaurazione teologica del presbiterio e la sua strutturazione rappresentativa nel consiglio presbiterale[70] e in misura solo analogica negli altri consigli e commissioni, nei quali non solo il clero e i religiosi[71], ma anche i laici sono chiamati ad agire con voto consultivo, mirano ad implicare tutti i settori diocesani in una responsabilità comunitaria e a sgravare il vescovo dall’isolamento in cui era caduto.

Questa situazione di isolamento conosciuta dal vescovo già nel medioevo, quando l’idea di una pastorale d’assieme era inconcepibile, data la scarsa coscienza collegiale dell’epoca[72], si era riflessa anche nei tempi moderni, malgrado lo sviluppo dell’impegno missionario, in un certo assenteismo dei vescovi dai problemi della Chiesa universale. La dottrina della collegialità e quella della Chiesa particolare, che deve rappresentare nel modo più veritiero quella universale, si sono tramutate in chiare direttive conciliari per il superamento nella Chiesa particolare di ogni particolarismo, verso una responsabilità inter-ecclesiale, per esempio sul piano della pastorale d’assieme[73], ecumenica[74] e missionaria[75].

In sostanza la dottrina centrale del Concilio sulla collegialità episcopale ha avuto come effetto quello di restaurare la posizione del vescovo nell’ambito della Chiesa universale, ma anche di rafforzarlo come capo della Chiesa particolare, legandolo però verso l’alto ad una disciplina inter-diocesana tramite l’istituzione di un’istanza intermedia collegiale (conferenze episcopali) e verso il basso al consiglio del presbiterio e dei laici.

 

 

[1] M. Philipon, La santissima Trinità e la Chiesa, in: La Chiesa del Vaticano II, ed. G. Barauna, Firenze 1965,328-331; E. Zoghby, Unità e diversità della Chiesa, in: ihid., 525, 535-537.

[2] W. Beinert, Die “Una Catholica” und die Partikularkirche, «Theologie und Phi- Iosophie» 42 (1967), 3-5.

[3] Vat. Eccl. 4, 2 (cfr. Documenti. Il Concilio Vaticano II, edizioni Dehoniane).

[4] Cfr. K. Rahner, Episkopat und Primat, Quaestiones Disputatae, II, Freiburg i.Br. 1961, 21-30; G. Dejaifve, La collegialità nella tradizione latina, in: La Chiesa del Vaticano II, cit., 838-840; J. Hajjar, La collegialità nella tradizione orientale, in: ihid., 816-817.

[5] A. Schmemann, La notion de primauté dans l’ecclésiologie orthodoxe, in: La primauté de Pierre dans l’Église Orthodoxe, Neuchâtel 1960, 141; M.-J. Guillou, Uexpérience orientale de la collégialité épiscopale et ses requêtes, in: La collégialité épiscopale, Unam Sanctam 52, Paris 1965, 176; Y. Congar, De la communion des Églises à une ecclésiologie de l’Église universelle, in: L’Épiscopat de l’Église Universelle, Unam Sanctam 39, Paris 1962, 228.

[6] Su tutta la questione e in particolare sui nn. II-III del presente articolo, cfr. Y. Congar, Neuf cents ans après. Notes sur le “schisme oriental’’, «Irénikon» (1954), 16- 181; Id., De la communion…, cit., 227-260; Id., Notes sur le destin de l’idée de collégialité épiscopale en Occident au Moyen Age (vii-xvi siècles), in: La collégialité épiscopale, cit., 99-129.

[7] Cfr. Y. Congar, De la communion…, cit., 231-235.

[8] Cfr. A. Alivisatos, Les conciles oecuméniques V, VI, VII, Vili, in: Le Concile et les Conciles, Unam Sanctam (hors-série), Chevetogne 1960, 120; H. Marot, Conciles anténicéens et conciles oecuméniques, in: ibid., 42-43.

[9] Cfr. M.-J. Guillou, Mission et Unité. Les exigeances de la communion, Unam Sanctam 34, II, Paris 1960, 184-200; E. von Ivanka, Sobornost, in: Lexikon für Théologie und Kircbe, IX, 1964, 841-842.

[10] II sistema dell’acefalia non è una emanazione necessaria di quello sinodale. È possibile anche in un sistema monarchico, come fu visto in parte nella dottrina della pentarchia dai teologi bizantini medioevali. Cfr. V. Pospiscml, Der Patriarci] in der Serbisch-Orthodoxen Kirche, Wien 1966, 63-78, 64. Cfr. Loi organique de l’Église au- tocéphale de Grèce (1923) e Charte constitutionelle de l’Église de Grèce, pubblicate in «Istina» 7 (1960), 153-172, 279-300, dalle quali appare chiaramente che il Santo Sinodo è il supremo organo legislativo, giudiziario e amministrativo della Chiesa autocefala di Grecia.

[11] M.-J. Guillou, Mission et Unité, II, cit., 189.

[12] J. Hajjar, La collegialità nella tradizione orientale, in: La Chiesa del Vaticano II, cit., 818-831; ìd., Synode permanent et collégialité episcopale dans l’Église byzantine au premier millénaire, in: La collégialité épiscopale, cit., 151-166.

[13] Th. Strotmann, Lévêque dans la tradition orientale, in: L’Épiscopat et l’Église universelle, cit., 309-314. Nella teologia latina il vescovo è paragonato di preferenza a Cristo: cfr. J. Pascher, Die Hierarchie in sakramentaler Symbolik, in: Studien über das Bischofsamt, Regensburg 1949, 292.

[14] J. Hajjar, La collegialità…, cit., 829.

[15] V. Pospischil, op. cit., 64-65. Circa la discussione sull’esistenza di diritti personali patriarcali assoluti, cfr. ibid., 69-72.

[16] Cfr. catalogo dei diritti dei patriarchi e dei metropoliti in: N. Milasch, Das Kirchenrecht der morgenländischen Kirche, Mostar 1905, 326-329, 335-338. Circa i diritti dei vescovi di una eparchia (diocesi), ibid., 372-386, 456-458.

[17] C. Andresen, Geschichte der abendländischen Konzilien des Mittelalters, in: Die ökumenischen Konzilien der Christenheit, hrsg. von H. Margull, Stuttgart 1961, 79-84.

[18] B. Neunheuser, Chiesa universale e Chiesa locale, in: La Chiesa del Vaticano II, cit., 628-630.

[19] Y. Congar, Id ecclésiologie, de la Révolution française au Concile du Vatican, sous le signe de l’affirmation de l’autorité, in: Lecclésiologie au xix siècle, Unam Sanctam 34, Paris 1960, 90.

[20] O. Rousseau, La doctrine du ministère épiscopal et ses vicissitudes dans l’Église ¿’Occident, in: L’Épiscopat et l’Église Universelle, cit., 286-287.

[21] Sull’incidenza ecclesiologica della querelle tra secolari e mendicanti nel xm secolo, che non fu una semplice controversia tra spiritualità diverse, cfr. J. Ratzinger, Der Einfluss des Bettelnordensstreites auf die Entwiklung der Lehre vom päpstlichen Universalprimat, unter besonderer Berücksichtigung des heiligen Bonaventura, in: Theologie in der Geschichte und Gegenwart. Festschrift zum 60. Geb. M. Schmaus, München 1957, 697-724; Y. Congar, Aspects ecclésiologiques de la querelle entre mendiants et séculiers dans la seconde moitié du xm et le début du xvi siècle, Arch. Hist. Doctr. Litér. MA, 28 (1961), 35-151.

[22] Y. Congar, De la communion…, cit., 238-240. Cfr. anche J. Rivière, In partem sollecitudinis… Évolution d’une formule pontificale, RSR 5 (1925), 210-231.

[23] C. Andresen, op. dt., 75-149; G. Fransen, Lecclésiologie des condles médiévaux, in: Le Concile et les Conciles, cit., 125-141; H. Jedin, Strukturprobleme der ökumenischen Konzilien, Köln 1963, 2-27.

[24] II conciliarismo di Costanza ebbe, malgrado la sua insistenza su «/’ecclésiologie de l’Église», uno scarso senso della collegialità. Cfr. Ch. Moeller, La collégialité au Condle de Constance, in: La collégialité épiscopale, cit., 149.

[25] Sull’impostazione dell’ecclesiologia in questo periodo, cfr. Y. Congar, Chiesa. II: nella storia del dogma, in: Dizionario teologico, I, Brescia 1966, 229-241; cfr. anche H. Fries, III: in teologia sistematica, ihid., 242-253.

[26] Dal Tridentino alla fine del xix secolo furono celebrati nella Chiesa latina circa 260 concili provinciali e plenari (13). Prendendo come base un minimo di 90 province ecclesiastiche si deve concludere che l’attività conciliare in questo periodo corrisponde in termini statistici al 2% di quella che a termine di legge avrebbe dovuto aver luogo. Cfr. E. Corecco, La formazione della Chiesa negli Stati Uniti d’America attraverso l’attività sinodale, con particolare riguardo al problema dell’amministrazione dei beni ecclesiastici, München 1962 (Kan-Diss. in pubblicazione), appendice, tabella comparativa.

[27] Su tutta la questione cfr. W. PlöCHL, Geschichte des Kirchenrechts, I, Wien I9602, 342-343, 165-166; II, 19622, 141-144; III, 1959, 257-258; H. Feine, Kirchliche Rechtsgeschichte, Köln 19644, 124-127, 213-219, 364-379, 533-539.

[28] U. Stutz, Kirchenrecht, in: Sonderabzug aus vom Holtzendorffs-Kohlers Enzyklopädie der Rechtswissenschaft, s.l., 1904, 825-826.

[29] Alla fine del IV secolo a Milano e a Cartagine si celebrava una sola eucaristia domenicale per tutta la città; cfr. V. Monachino, La cura pastorale a Milano, Cartagine e Roma nel secolo lv, Roma 1947, 55-56, 188-190.

[30] Sul problema delle tre zone di influenza di Roma, cfr. P. Batiffol, Cathedra Retri, Unam Sanctam 4, Paris 1938, 41-59.

[31] B. Bazatole, Leveque et la vie chrétienne au sein de l’Église locale, in: L’Épisco- pat et l’Église Universelle, cit., 342-348. Sulla storia dello sviluppo della parrocchia, cfr. A. Blöchlinger, Die heutige Pfarrei als Gemeinschaft, Einsiedeln 1962, 57-122.

[32] Sul problema cfr. K. Mörsdorf, Die Entwicklung der Zweigliedrigkeit der kirchlichen Hierarchie, «Münchener Theol. Zeitschrift» 3 (1952), 1-16; K. Nasilowski, De distinctione potestatis in ordine in primaeva canonistarum doctrina, Monachii 1962 (in pubblicazione); E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. ’Aspetti storico-giuridici e metodologico-sistematici della questione, «La Scuola Cattolica» 96 (1968) gennaio-aprile.

[33] O. Rousseau, op. cit., 279-296.

[34] Y. Congar, Notes sur le destín…, cit., 113-127; G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale, Roma 1964, 4-7.

[35] Secondo Y. Congar (Notes sur le destín…, cit., 118-127), l’idea della collegialità episcopale fu «confiscata» nel medioevo dalla dottrina del diritto divino del collegio cardinalizio. Cfr. anche M. García Miralles, El Cardinalato de institución divina y el Episcopado en el problema de la succesión apostòlica según Juan de Torquemada, in: XVI Semana Española de Teologia, Madrid 1957, 249-274.

[36] W. Bertrams, De quaestione circa originem potestatis iurisdictionis episcoporum in concilio tridentino non resoluta, PRMCL 52 (1963), 458-462; G. Alberigo, op. cit., 11-101; H. Grisar, Die Frage der päpstlichen Primates und des Ursprunges der bischöflichen Gewalt auf dem Tridentinum, «Zeitschrift für katholische Theologie» 8 (1884), 453-507, 727-784.

[37] E. Rösser, Die gesetzliche Delegation (Görres-Gesellschaft Sektion für Rechtsund Staatswissenschaft, 26), Paderborn 1937, 113-127.

[38] H. Jedin, Das Bischofsideal der katholischen Reformation, Brügge 1953.

[39] F. Kantzenbach, Luthers Konzilstheologie und die Gegenwart, «Lutherischen Monatshefte» 5 (1966), 169.

[40] Cfr. W. Beinert, op. dt., 8-9.

[41] K. Rahner, Das Zweite Vatikanische Konzil, Kommentare 1, in: Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg 1966, 242-245 (abbr. Kommentare).

[42] W. Beinert, op. dt., 10-11.

[43] La Chiesa particolare esprime la totalità simbolica ecclesiale solo in quanto vive in comunione con la Chiesa universale. La comunione ecclesiale è una dimensione che trascende la sola Chiesa particolare.

[44] Vat. Eccl., 1.

[45] Vat. Eccl., 13.

[46] Vat. Eccl., 11,2; Vat. Late., 11,4.

[47] Vat. Oec., 13.

[48] Y. Congar, Neuf cents ans après…, cit., 84-85.

[49] Questo punto di vista è stato sostenuto dall’arcivescovo Veuillot nella relazione sul Textus emendatus 1964, cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, cit., 151, n. 4.

[50] J. Ratzinger, La collegialità episcopale: spiegazione teologica, in: La Chiesa del Vaticano II, cit., 745-747.

[51] Sulla questione cfr. W. Bertrams, II potere pastorale del papa e del collegio dei vescovi, Roma 1967, 62-122; C. Colombo, Costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare dell’episcopato, in: La Costituzione «De Ecclesia», a cura di G. Ceriani, Milano 1965, 237-261; K. Mörsdorf, Vrimai und Kollegialität nach dem Konzil. Über das bischöfliche Amt (Veröffentlichungen der Kath. Akademie der Erzdiözese Freiburg), Karlsruhe 1966, 42-45.

[52] Vat. Ep., 36.

[53] Vat. Ep., 37-38; Eccl. Sane., I, 41.

[54] Bisogna distinguere tra l’aspetto formale e materiale della collegialità. Cfr. W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung, München 1967, cap. 4, § 1 (Kan. Diss. in pubblicazione).

[55] Su tutta la questione cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, cit., 228-232, 237-238.

[56] K. Rahner, Bischof und Bistum, in: Handbuch der Vastoraltheologie, I, Freiburg 1964, 167-179.

[57] Mat. Ep., 11,1; 22-23.

[58] Circa la relazione di subordinazione dei due principi, cfr. K. Mörsdorf, Über die Zuordnung des Kollegialitätsprinzips zu dem Prinzip der Einheit von Haupt und Leib in der hierarchischen Struktur der Kirchenverfassung, in: Wahrheit und Verkündigung, M. Schmaus zum 70. Geburtstag, München 1967, II, 1435-1445.

[59] Vat. Eccl., 25-27. La Lumen gentium ha distinto espressamente tra ufficio e potere, perché non fosse confusa la dottrina dei tre uffici con quella dei «tre poteri». Sul rapporto del potere di ordine e giurisdizione con i tre uffici, cfr. K. Mörsdorf, Heilige Gewalt, in: Sacramentum Mundi, Freiburg 1967 ss., II (in pubblicazione), nn. I-III.

[60] Vat. Eccl., 21,2.

[61] Wat. Ep., 8/a.

[62] K. Rahner, Bischof und Bistum, cit., 176; Id., Über den Begriff des «Ius Divinum» im kath. Verständnis, in: Schriften zur Theologie, V, Einsiedeln 1962, 249-277; Id., Über Bischofskonferenzen, in: ibid., VI, Einsiedeln 1965, 438-442.

[63] Wat. Ep., 8/b.

[64] Su tutta la questione, cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, cit., 158-161, Exkursus, II, 166-171; Id., Neue Vollmachten und Privilegien der Bischöfe, AfkKR 133 (1964), 82-101.

[65] Mentre il CIC aveva riconosciuto al vescovo un compito prevalentemente negativo di sorveglianza sull’applicazione delle norme liturgiche (cfr. can. 1261), il Concilio, abrogando il can. 1257, gli ha ridato una competenza generale di regolare la liturgia nella sua diocesi a norma del nuovo diritto. Cfr. Vat. hit. 22,1, Instr. Wat. hit. 22; K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, II, Paderborn 196711, 365-370.

[66] Wat. Ep., 31-32; Eccl. Sane., 20-21. Cfr. H. Schmitz, Amtsenthebung und Versetzung der Pfarrer im neuen Recht, «Trierer Theol. Zeitschrift» 76 (1967), 357-371.

[67] Vat. Ep., 28; Eccl. Sane., I, 18.

[68] Vat. Ep., 34-35; Eccl. Sane., 1,22-40. A. Scheuermann, Kommentar zum Ordensdekret des II. Vatikanischen Konzils, in: Das Konzil und die Orden, Köln 1967, 105- 108; Id., Die Ausführungsbestimmungen zu den Konzilsweisungen für die Ordensleute, in: ibid., 122-137.

[69] K. Mörsdorf, Kommentare II, cit., 173.

[70] Cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyteriums, AfkKR 136 (1967), 341-391; L. Weber, Der Priesterrat, «Der Seelsorger» 38 (1968), 105-118.

[71] I religiosi sono annoverati tra il clero diocesano, cfr. Vai. Ep., 34, 1.

[72] Y. Congar, Notes sur le destin…, cit., 118.

[73] Per esempio, Vat. Ep., 6; Val. Presb., 10; Vat. Miss., 19,4 e 20,1; Eccl. Sane., I, 1-5.

[74] Per esempio, Vat. Oec., 4, 11; 5 e 10, 1.

[75] Per esempio, Vat. Miss., 20 e 38, 1-2.