5. Valore dell’atto ” contra legem“

 

I. Mancanza di una teoria generale

La prima constatazione che si impone è che la canonistica non ha ancora tentato una teoria generale dell’atto “contra legem”. Le ragioni sono molteplici. Sarebbe comunque inesatto attribuire unilateralmente il fatto solo a quella pigrizia intellettuale, da altri già denunciata, che nei decenni che seguirono la promulgazione del CIC ha spesso indotto la scienza canonistica ad optare per il metodo dell’esegesi, meno impegnato e anche meno creativo, a scapito di quello piu moderno e scientifico della teoria generale 1.
Le radici più profonde di questo fenomeno vanno infatti colte sia nella decadenza in cui è scivolata la scienza canonistica a partire dalla fine dell’età classica, sia nella natura teologica del diritto canonico e, di riflesso, della canonistica in quanto disciplina scientifica. Pur tenendo conto di alcune clamorose eccezioni, come quella dello “ius publicum ecclesiasticum” -sfociato peraltro in una scuola canonistica autonoma 2 – oppure, in tempi piu recenti, quella della canonistica laica italiana, si può senza dubbio affermare che la canonistica, soprattutto a partire dal Concilio di Trento, è restata di preferenza aggrappata alle soluzioni date dal pensiero cristiano-medioevale, che hanno trovato la loro sintesi più espressiva -ricorrente ancora nel sistema del CIC 3 – nella grande opera del Suarez, evitando il confronto con le correnti del pensiero filosofico e giuridico moderno e continuando di conseguenza a riproporre soluzioni dottrinali e pratiche non dialettizzate e perciò poco culturalizzate.
La scienza giuridica moderna per contro ha svolto una mole di lavoro immenso nel tentativo di risignificare a livello teorico tutti gli istituti giuridici tradizionali -creandone anche di nuovi- a partire dalle molteplici proposte avanzate dalla filosofia moderna. Se le fluttuazioni subite dal pensiero filosofico-giuridico moderno hanno provocato a catena soluzioni diverse per ogni singolo istituto -all’interno di un pluralismo giuridico ricco anche di contraddizioni- esse hanno però anche permesso alla scienza giuridica di affinare, con perfezione forse mai raggiunta nella storia, il proprio bagaglio concettuale.
A questa ragione storica che va di pari passo con la progressiva emarginazione che l’esperienza cristiana ha subito ad opera del pensiero moderno, deve essere aggiunta un’altra motivazione di carattere più teorico, la quale offre una spiegazione ancora più esauriente del ritardo accusato dalla canonistica moderna sulla scienza giuridica laica. In un’epoca di innegabile ripresa scientifica e di radicalizzazione del discorso metodologico in tutte le discipline, anche la canonistica ha preso piena coscienza, fino a investirne il Magistero 4 di essere una disciplina teologica. Per riflesso essa ha preso atto anche delle incertezze e degli errori in cui sono incorse quelle scuole che, come quella canonistica laica italiana, hanno fatto tentativi peraltro estremamente avvincenti di aggiornamento culturale e scientifico.
La canonistica ha così capito di non essere ancora in grado di controllare con assoluta padronanza le implicazioni mondano-positivistiche di natura dottrinale e sistematica insite nel metodo della teoria generale. Quest’ultimo, infatti, tende per sua natura a trattare il sistema canonico alla stessa stregua di quelle realtà giuridiche, ontologicamente sempre più autosufficienti, che nella scienza moderna passano sotto la denominazione di ordinamenti giuridici primari 5 .

II. Esigenze concettuali di una teoria generale

Comunque, ponendosi il problema dell’elaborazione di una teoria generale dell’atto “contra legem”, è lecito dubitare che essa sia possibile a partire dal significato indefinito che questo concetto ha all’interno della tradizione canonistica. Infatti più che una categoria dai contorni giuridicamente precisi, essa dà l’impressione di essere un concetto che la canonistica ha trascinato lungo la sua storia come un masso erratico, senza mai rielaborarlo con le tecniche proprie della scienza giuridica moderna.
Il concetto di atto o comportamento “contra legem” appare a prima vista, e forse a ragione, così vasto da essere difficilmente utilizzabile come punto di partenza per un discorso sintetico e organico, quando non si voglia correre il rischio di riassumere attorno ad esso, per pura preoccupazione formale, realtà giuridicamente eterogenee tra di loro.
Ci si può domandare, per il vero, fino a che punto si possa ricondurre alla categoria di atto contra legem, in vista di una sua utilizzazione reale, realtà giuridiche così diverse come gli atti compiuti in forza di una consuetudine “contra legem”, o di una scelta epicheietica, quelli giuridicamente viziati, i fatti antigiuridici ecc….. 6
I1 discorso si farebbe molto arduo proprio nel momento in cui avesse la pretesa di diventare preciso. Da un punto di vista del metodo sarebbe probabilmente necessario differenziare gli atti “contra legem” in diritto privato, da quelli in diritto pubblico, costituzionale e amministrativo, penale e disciplinare 7.
In questo caso però diventerebbe anche inevitabile ridiscutere a fondo l’applicabilità al diritto canonico di queste categorie, che nella scienza giuridica secolare delimitano settori della realtà giuridica rispondenti a logiche interne diverse.
Un esempio può dare l’idea dell’ampiezza che il discorso potrebbe assumere anche in diritto canonico proprio a partire dalla distinzione tra l’atto amministrativo e quello giudiziario, che fino ad oggi non hanno ancora trovato nella scienza canonica una elaborazione definitiva soddisfacente. La scienza giuridica secolare ha sviluppato per impulso della dottrina germanica un elaboratissimo discorso sulle diverse conseguenze dell’atto illecito -canonisticamente parlando qualificabile forse come atto “contra legem”- nel diritto amministrativo e in quello giudiziario.
In diritto amministrativo il provvedimento acquista efficacia, diventando perciò fonte di diritto, anche se “ictu oculi” è invalido. Anzi, conserva la sua efficacia anche se impugnato, fino a quando non è annullato dall’istanza competente, così da non perderla se non per volontà del suo autore, diventando, grazie al principio dell’autotutela, addirittura esecutorio.
Sia pure con alterna fortuna, la scienza giuridica si è inoltre accorta che l’atto amministrativo invalido risponde a leggi diverse rispetto a quelle della regiudicata. Infatti il provvedimento amministrativo non tende, come l’atto giudiziario, verso l’immutabilità, perché la sua autoritarietà è volta a tutelare la volontà dell’istanza emanante, in quanto disposizione, non in quanto decisione. Il provvedimento amministrativo nullo, mancando della perpetuità dell’eccezione di nullità, propria dell’atto giudiziario, resta sempre efficace se non impugnato in termine, perché non esige quell’accertamento dei fatti che nelle sentenze è presente come momento logico necessario, non separabile dalla disposizione8 .
Per contro, il giudicato ingiusto (o “contra legem”) -a differenza del disposto amministrativo, della usucapione o prescrizione ed eventualmente anche della transazione 9 – non diventa mai fonte di diritto. Mentre questi atti creano una realtà giuridica nuova sganciata da quella preesistente, essendo causa originaria di acquisto o di estinzione di diritto, il giudicato si limita ad enunciare una realtà giuridica che esistente o meno prima, deve essere considerata in modo irrefutabile come essere la realtà giuridica anteriore. In questo senso non crea una situazione giuridica nuova, ma fissa e rende incontrovertibile l’esistenza o inesistenza della situazione giuridica anteriore. Perciò il principio “ius facit inter partes” non può essere interpretato nel senso che il giudicato crei un “ius”, come lo farebbe una norma astratta, in quanto fonte di diritto obiettivo, o un atto amministrativo in quanto fonte di diritto prevista dalla norma oggettiva 10 .
Ad ogni buon conto il giudicato diventa l’unica realtà certa sia del passato che del futuro. 11
Questo esempio preso dalla dogmatica giuridica secolare mette in evidenza il cammino che la canonistica deve ancora compiere a livello di una teoria generale dell’atto “contra legem”, quando fosse possibile considerarlo come categoria sintetica, capace di abbracciare tutta la problematica dell’illecito giuridico-canonico.

III. Il metodo teologico come fondamento per una teoria generale canonica.

1. Il principio della certezza del diritto negli ordinamenti statuali.

Affermata la validità e la necessita di un discorso canonico a livello di teoria generale, deve però essere anche ribadito che non sarebbe possibile condurlo prescindendo dal fatto teologico. Una teoria generale non potrebbe mai cogliere la verità ultima del sistema canonico se dovesse muoversi semplicemente a partire da un tipo di riflessione propria al metodo della dogmatica giuridica 12.
Anzi non sarebbe neppure sufficiente usare della teologia come se fosse solo l’orizzonte esterno entro il quale il discorso giuridico deve muoversi per non sconfinare su conclusioni eterodosse da un punto di vista dell’ecclesiologia o della fede. L’elemento teologico deve informare dall’interno il metodo stesso della teoria generale, perché è una dimensione essenziale del discorso canonico in quanto tale. Ogni altro tentativo che dovesse prescindere o dovesse usare con criteri puramente estrinsecistici i contenuti teologici, di per se immanenti ai contenuti giuridico-canonici, è destinato a fallire. L’esperienza piena di equivoci, fatta in questo senso dalle scuole canonistiche più recenti, giustifica almeno in parte la reticenza con la quale una frangia della canonistica tradizionale e moderna ha accolto il metodo della teoria generale.
Dovendo affrontare il problema del valore degli atti “contra legem” all’interno di un discorso che verte attorno alle fonti formali o di produzione del diritto canonico 13 e dovendo fare delle scelte di priorità -dato che uno studio globale del problema supererebbe le possibilità offerte da questa esposizione- è necessario impostare con correttezza prima di tutto il problema del metodo.
In questa prospettiva è fondamentale rendersi conto che il discorso sul valore degli atti “contra legem” è sostanzialmente un discorso sulla certezza giuridica.
Da un punto di vista di una teoria generale, infatti, gli atti o comportamenti giuridici prodotti all’interno di istituti come l’epicheia, la consuetudine, “l’aequitas canonica”, la creatività del giudice nei casi di lacuna della legge, il procedimento amministrativo e la regiudicata, nella misura in cui sono atti “contra legem”, mettono direttamente in discussione il principio della certezza giuridica 14 .
Se è vero che la possibilità di conflitto tra legalità (o certezza del diritto) e giustizia (o verità effettiva) è un fenomeno comune a tutti gli ordinamenti giuridici, tra i quali non fa eccezione il diritto canonico, è altrettanto sintomatico il fatto che le soluzioni date dagli ordinamenti giuridici moderni e dal diritto canonico sono diverse.
Negli ordinamenti statuali moderni il principio della certezza del diritto prevale su quello della verità oggettiva. In caso di conflitto è la giustizia ad essere sacrificata per garantire sia la stabilità che la sicurezza dei rapporti giuridici, sia l’autorità dell’ordinamento come base della fiducia dei cittadini. Così avviene, come abbiamo visto, nel caso di errore giudiziario, dove l’immutabilità del giudicato -esperiti che siano i mezzi a disposizione per impugnarlo- prevale, in vista della certezza del diritto, su tutte le altre considerazioni.
Sarebbe comunque errato ritenere che questa garanzia formale data dagli ordinamenti statuali moderni ai rapporti giuridici sia giustificata solo da esigenze pragmatistiche, come potrebbe esserlo per esempio la necessità che i cittadini conservino la fiducia nell’ordinamento giuridico. Essa è imposta dall’impianto dottrinale stesso degli ordinamenti giuridici che trovano il loro momento genetico nella filosofia moderna, la quale, nel solco della scuola giusnaturalista di estrazione razionalista ha progressivamente escluso ogni possibilità di ricorso ad una istanza trascendente 15.
Questo riscontro filosofico spiega come, per attutire lo scandalo provocato dall’imporsi della legalità sulla giustizia, si sia potuto sostenere che non esiste altra possibilità di conoscere la verità e la giustizia al di fuori della sentenza giudiziaria 16.
In realtà non si tratta solo di un’attenuante, ma di una conseguenza strettamente dipendente dalla logica stessa di ogni ordinamento giuridico, che, a differenza del diritto ecclesiale e cristiano, non ammette più la possibilità per Dio di essere fonte immediata di diritto 17.

2. La certezza del diritto come criterio di ricupero in diritto canonico

Il diritto canonico esige che il principio della certezza giuridica, e perciò della legalità, venga sacrificato per lasciar spazio alla giustizia e alla verità oggettiva. Ciò è imposto dal fatto che non può esistere certezza giuridica ultima, vincolante a livello di salvezza, al di fuori della certezza teologica.
La sostanza di questo discorso è già stata colta dal Fedele nel suo Discorso generale sull’ordinamento canonico 18.
Tuttavia è giunto forse il momento di precisare questo discorso all’interno di una problematica teologica più stringente.
Il Fedele ha giustificato il prevalere della giustizia sulla legalità invocando esigenze di diritto divino 19le quali si specificano nel principio della “salus animarum”, considerata come realtà esprimente quel tipo di “bonum publicum” a cui tende e dal quale è determinato l’ordinamento canonico 20 .
Le precisazioni, fatte dal Capograssi 21 -in dialettica con il Giacchi, che ritiene eccessive le affermazioni del Fedele- 22 e riprese dal Mazzacane 23 , non colgono ancora a nostro avviso tutta la verità del problema.
Da una parte, infatti se può essere giusto affermare, che in diritto canonico “la certezza come legalità e la certezza come obbiettività si identificano”, formulare il problema dicendo che la “giustizia come certezza coincide con la giustizia come verità in quanto la giustizia, quale esplicazione ed applicazione della legge etica, diventa l’oggetto della instaurazione della certezza positiva dell’ordinamento” 24 può equivalere ad una “petitio principii” o all’instaurazione di un positivismo di tipo canonico.
Il problema non è quello di eliminare la possibilità di scarto effettivo tra certezza legale e verità obiettiva ma di affermare che la certezza legale ultimamente non esiste se non quando esiste la certezza obiettiva, cioè se non quando in essa è stata colta anche la verità obiettiva.
D’altra parte il problema non può essere affrontato cogliendo solo l’aspetto filosofico giuridico del rapporto tra forma e sostanza. Come abbiamo già notato, sarebbe insufficiente attribuire alla teologia una valenza solo estrinseca rispetto alla legge canonica, così come potrebbe averla l’etica rispetto agli ordinamenti statuali moderni, che nella migliore delle ipotesi la considerano come presupposto meta o extra-giuridico.
Il diritto canonico in quanto realtà teologica porta in sé stesso la verità dogmatica 25 , perché partecipa della normatività propria alla Parola e al Sacramento26 ; non è solo una sovrastruttura sociale o sociologica del mistero della Chiesa, come potrebbe essere il diritto moderno in rapporto all’etica, o come il diritto canonico potrebbe esserlo, nella concezione protestante tradizionale, rispetto alla Chiesa invisibile, considerata come unica vera Chiesa 27 .
Tra il diritto canonico e le altre discipline o realtà teologiche come la dogmatica, l’ecclesiologia o la morale, ecc., non esiste differenza essenziale, né intercorre solo un rapporto di interdipendenza. Il diritto canonico non coglie neppure un solo settore della teologia dogmatica o morale, come potrebbe farlo -almeno nella concezione tradizionale corrente- il diritto rispetto all’etica. Si tratta di discipline teologiche che colgono, con un’autonomia di mezzi propria, l’unico mistero dell’Incarnazione, il quale non si manifesta solo, e neppure principalmente a livello di dottrina dogmatica o morale, ma come fatto storico, come Tradizione che continua nella Chiesa, di cui la legge e gli istituti canonici, in quanto fatti storici concreti, portano in se stessi una pane del contenuto, esprimendo in modo tangibile la dimensione giuridicamente vincolante del mistero della Incarnazione e della Chiesa.
In quanto realtà ecclesiale, formata da istituti giuridici in cui si concretizza nella storia la dimensione giuridicamente vincolante della Chiesa, il diritto canonico è una delle realtà essenziali in cui si manifesta per fatti concludenti la Tradizione della Chiesa e di conseguenza la verità contenuta nella Parola e nel Sacramento.
Tutto ciò equivale ad affermare che in diritto canonico non solo esiste un’identità di principio e assoluta tra la certezza legale (o formale) e la giustizia obiettiva, ma anche che questa si realizza a partire più che da una convergenza estrinseca tra fatto giuridico e verità teologica (dogmatica o morale), dall’interno, in quanto il fatto giuridico -quando coglie con precisione il mistero della Chiesa- è in se stesso espressione di verità teologica. Bisogna però anche ammettere che in diritto canonico, come in ogni altra disciplina teologica, è possibile uno scarto di fatto tra la formulazione e la verità, tra la forma e la sostanza. Di conseguenza la certezza formale deve essere considerata come riformabile ogni qualvolta è in gioco, come dice il Fedele, il diritto divino e la “salus animarum”.
Queste considerazioni hanno un preciso riscontro istituzionale per es. negli istituti canonici citati sopra, come l’epicheia, l’“aequitas”, la regiudicata, ecc., perché tendono a relativizzare continuamente il valore della certezza formale rispetto a quello della verità teologica effettiva.
Il modo con il quale il diritto canonico regola il problema della regiudicata deve essere considerato come paradigmatico per definire il tipo di rapporto esistente tra verità formale e materiale, cioè tra certezza formale canonica e quella teologica.
Anche in diritto canonico la sentenza, esauriti che siano tutti i rimedi giuridici, pur godendo, almeno secondo la formulazione data dalla dottrina tradizionale, di una presunzione assoluta di rispondenza alla verità come negli altri ordinamenti giuridici 28 , subisce una deroga di fondo in tutte le sentenze emesse nelle cause “de statu personarum”.
Anzi il diritto delle Decretali, come osserva il Mazzacane, ammetteva una deroga al principio della immutabilità del giudicato per un numero molto più grande di controversie (quelle criminali e in materia di benefici, le sentenze chiaramente inique, quelle emesse su falsi documenti, in base a falso giuramento o testimonianza), accettando perfino il principio della sentenza nulla “ipso iure” 29 . Anche volendo riassumere parte di questi casi sotto quello dello “status personarum”, è evidente che la riduzione fatta del diritto codificatorio a quest’ultimo tradisce un adeguamento allo spirito positivista del diritto moderno che, per necessità immanente ai suoi fondamenti filosofici, ha assolutizzato sia il principio della uguaglianza davanti alla legge sia quello della certezza giuridica.
Alcune di queste cause, come del resto tante altre di natura prevalentemente civilistica, potrebbero eventualmente anche scomparire dal diritto canonico, man mano che questo accettasse di abbandonare la funzione di supplenza avuta nella cristianità medioevale, per ridiventare un diritto più esclusivamente ecclesiale.
Tuttavia, l’incidenza della deroga del c. 1903, ripresa a proposito dell’istituto matrimoniale nel c. 1938, è tale da investire alla radice, non solo questi casi particolari, ma tutto il sistema canonico.
La forza di questa deroga deve essere valutata prendendo anche atto che la dottrina ha abusivamente ristretto l’ambito della sua applicazione allo stato clericale, religioso, e matrimoniale. Il c. 1903, come ha ribadito il Mazzacane, è estensibile infatti a tutte le cause inerenti non solo allo “status religiosus” (stato giuridico dei fedeli, dei chierici e dei religiosi, con i diritti essenziali derivanti dallo stesso) e a quello “familiae” (filiazione, legittima e naturale, nullità del matrimonio e diritti fondamentali che nascono dal diritto matrimoniale), ma anche allo “status civitatis” (diritti essenziali dell’uomo, come libertà, capacità giuridica, ecc. 30 ).
Un diritto che in un settore essenziale come quello dello “status personarum”, che in quanto stato costituzionale comprende tutti i diritti fondamentali primari e derivati, scritti ma anche (dato che nel sistema canonico il diritto divino come quello naturale sono sempre applicabili anche se non canonizzati dal legislatore) non scritti, non tollera divario tra certezza legale e verità effettiva, denuncia il principio stesso della certezza del diritto, come principio fondamentale del sistema.
Non ha importanza far qui la critica al concetto di “salus animarum”, che pure vanta una grande tradizione teologica, come categoria incapace di esprimere per la sua connotazione individualistica e estrinsecistica il fine ultimo storico ed ad un tempo escatologico, verso il quale converge il diritto canonico e dal quale riceve la sua impronta fenomenologico-giuridica 31 .
Importante è constatare come questa categoria, teologicamente superata, esprima comunque una priorità rispetto a tutti gli altri valori giuridico-sociali di estrazione solo filosofico-giuridica.
È perciò necessario invertire rigorosamente i termini della questione. Quando e nella misura in cui sono in gioco i valori fondamentali, tentativamente espressi con l’idea della “salus animarum”, non è mai la certezza formale ma la verità teologica e soteriologica che fa stato. All’interno di un discorso teologicamente più corretto ciò significa che quando la norma canonica tocca gli elementi base su cui si articola la “communio ecclesiae et ecclesiarum”, cioè prima di tutto la struttura costituzionale della Chiesa stessa -colta dalle Decretali sotto la denominazione delle “cause beneficiali”- 32 e, subordinatamente, i diritti fondamentali dei cristiani, con tutte le implicazioni che da questi settori possono derivare, la certezza formale non può mai essere l’ultimo criterio.

3. La “communio” come fondamento della certezza del diritto

Si deve perciò anche avere il coraggio di affermare che in diritto canonico il principio secondo il quale la giustizia obiettiva prevale sulla certezza formale vale come regola fondamentale del sistema e non solo come importante deroga, o eccezione di ricupero, per alcuni casi particolari 33 . Il principio della certezza del diritto diventa perciò rigorosamente applicabile solo in questioni o ambiti giuridici che non hanno una incidenza strutturale per il realizzarsi della “communio ecclesiae et ecclesiarum” che, in quanto valore supremo dell’esperienza ecclesiale, coincide con il concetto tradizionale di “bonum publicum” cui tende il diritto canonico.
La differenza con gli ordinamenti statuali non potrebbe essere più radicale. Ciò fa capire come una riflessione sulla natura teologica del diritto canonico non può essere derivata dal diritto secolare, ma deve rimanere metodologicamente autonoma. Il diritto secolare resta solo un punto di riferimento analogico “a posteriori”. Se queste affermazioni relativizzano il principio della certezza del diritto, non relativizzano affatto la normatività del diritto canonico, al quale peraltro il concetto stesso di “diritto” non è applicabile univocamente 34.
Il diritto canonico deriva la pretesa intrinseca di essere vincolante in ordine al destino dell’uomo dall’autorità della Parola e del Sacramento che, garantite nella loro oggettività dalla Successione Apostolica, costituiscono la realtà inter-soggettiva della comunione nella quale e attraverso la quale si realizza la salvezza storico-ecclesiale ed escatologica del cristiano.
È una giuridicità che più di ogni altra ha forza vincolante perché profondamente radicata nella normatività stessa del cosiddetto diritto divino.
D’altra parte anche la certezza del diritto, laddove può e deve essere garantita, non lo è in forza di una logica puramente giuridica. Il criterio della certezza giuridica -quando non fosse possibile stabilire con assoluta sicurezza la verità effettiva- si impone non tanto come criterio formale ed estrinseco, ma piuttosto come esigenza intrinseca alla norma canonica il cui scopo primario è quello di garantire l’unità all’interno della “communio”.
L’unità, infatti, non è solo un valore formale, come potrebbe esserlo la certezza del diritto negli ordinamenti statuali, ma il contenuto essenziale dell’esperienza ecclesiale stessa. 35
Nella misura in cui non fosse possibile superare il dubbio circa la verità effettiva, il criterio che rende vincolante la legge canonica o la sentenza del giudice, non è tanto la volontà del legislatore o dell’ordinamento giuridico -come suggerirebbe una soluzione volontaristica del problema- ma l’unità tra i cristiani e le Chiese particolari, in quanto valore essenziale alla salvezza storica ed escatologica del cristiano. È la stessa “salus animarum” o “communio ecclesiae et ecclesiarum” che possono esigere il rispetto della certezza formale.

IV. L’epicheia come caso paradigmatico di atto “contra legem”
con rilevanza giuridica diretta

1. Significato dell’elasticità del diritto canonico

Queste premesse teologiche sul problema della certezza del diritto nel sistema canonico sono determinanti per impostare correttamente il problema del valore degli atti “contra legem”, a livello di teoria generale.
Quando è in causa la verità ultima della “communio”, in quanto “bonum publicum ecclesiae”, deve essere riconosciuto valore giuridico e perciò effetto creativo anche agli atti compiuti “contra legem” 36 quando esistessero sufficienti garanzie per escludere l’arbitrio e non dovessero emergere motivi, dettati dalla “communio” stessa, in favore dell’osservanza della certezza formale.
Questa esigenza regge tutto il diritto canonico da sempre ed è stata colta dalla canonistica italiana con la categoria della “elasticità” 37 .
Tuttavia, giova ripeterlo, neppure la nota dell’elasticità può essere ridotta a nota correttiva di natura solo giuridica, quasi che servisse unicamente a qualificare il diritto canonico rispetto agli ordinamenti statuali presi come termine di confronto per la loro rigidità giuridico formale. L’elasticità non esprime semplicemente la capacità del diritto canonico di adattarsi e piegarsi alla situazione specifica del caso particolare grazie alla presenza di istituti come l’“aequitas”, la dispensa, il privilegio, ecc., ma è una caratteristica più radicale, che investe non solo l’aspetto tecnico-giuridico del problema, ma anche e primariamente il modo -specifico e analogico rispetto agli ordinamenti statuali- con il quale il diritto della Chiesa intende essere giuridicamente e teologicamente vincolante. Significa perciò che una norma canonica è ultimamente vincolante solo nella misura in cui coglie un’esigenza della “communio”, sia in quanto esprima il contenuto di una sua struttura portante, sia in quanto la “communio”, come criterio formale d’unità, può imprimere forza vincolante ad una norma per la quale non è ancora stato possibile trovare un contenuto alternativo, più corrispondente alla verità teologica.
A partire da queste considerazioni, emerse da sempre nella canonistica in modo più o meno cosciente, si può affermare che il principio dell’elasticità è stato applicato ed è tuttora applicabile, dopo la codificazione, anche quando non è previsto dalla norma positiva. Basterebbe come verifica la breve disanima storico-sistematica fatta dall’Hering a proposito dell’“aequitas non scripta” o “contra legem” per rendersi conto del fatto che questo tipo di “aequitas” -soprannominata dagli autori, non senza scherno, “aequitas cerebrina” o “ex corde”- può essere fatta valere anche in quei casi non previsti dalla norma positiva, nei quali, o viene a cadere lo scopo della legge, o nasce una collisione di norme, o non è possibile ottemperare alla norma stessa 38 .
Di conseguenza ci sembra abbiano avuto ragione coloro che hanno contestato il Giacchi 39 per aver affermato che l’ordinamento canonico, più di ogni altro ordinamento “non tollera la sostituzione della volontà della singola persona fisica investita d’imperio alla volontà espressa dalla norma” a meno che questa sostituzione sia almeno implicitamente riconosciuta dalla norma stessa quasi che ciò implicasse “un sovvertimento non soltanto di principi giuridici, ma d’immutabili esigenze teologiche”40 .

2. L’epicheia come istituto giuridico

Fatte queste costatazioni si deve concludere che il problema dell’epicheia diventa veramente acuto solo quando è in causa la sua rilevanza giuridica in rapporto agli atti “contra legem” posti da persone fisiche non investite d’imperio, cioè da coloro che con espressione ecclesiologicamente discutibile, sono solitamente definiti come “sudditi” della legge.
La storia canonistica dell’epicheia è, da questo punto di vista, molto concludente. Salvo qualche eccezione 41 , la dottrina non ha mai riconosciuto valore giuridico diretto all’<<epikeia>> 42 . Ne ha costantemente circoscritto l’efficacia all’ambito morale, pur ammettendo, che per riflesso -cioè in quanto elemento attenuante da un punto di vista penale- essa può acquistare rilevanza anche giuridica 43 .
I problemi posti dall’epicheia a livello di definizione concettuale sono molto ardui. Ne sono la prova non solo il fatto che sarebbe possibile elencare definizioni diverse -quasi sempre derivate da presupposti filosofici d’impostazione realistica o volontaristica- ma anche il fatto che, a partire dalla stessa definizione, gli autori possono divergere nell’interpretazione o nell’applicazione della stessa al caso pratico.
Non mancano per il vero studi di grande erudizione che, percorrendo lo sviluppo storico-sistematico subito dall’epicheia lungo i secoli -da Platone, che se ne è occupato solo di striscio, ad Aristotele, che le ha dato un assetto solidissimo fino a S. Tommaso, che, identificandola con l’“aequitas” ha creato un equivoco protrattosi fino ad oggi, e a Suarez, che le ha impresso una forte svolta volontaristica 44 – hanno tentato di chiarire la sua specificità rispetto ad altri istituti giuridici paralleli 45 .
Il problema che ci interessa in questo contesto non è quello della definizione, bensì quello del valore giuridico da attribuire all’epicheia, in quanto istituto paradigmatico e perciò fondamentale in vista di una teoria generale, in forza del quale anche la persona fisica non investita d’imperio può porre atti “contra legem”.
Da questo punto di vista si deve costatare un fatto preciso. Nella misura in cui l’epicheia viene identificata dagli autori con l’“aequitas contra legem”, è riconosciuta come istituto giuridico che permette all’istanza investita del potere d’imperio d’intervenire e procedere anche “contra legem” 46Anzi, esiste una convergenza della dottrina piu autorevole nell’affermare che non solo l’“aequitas contra legem” -come abbiamo già visto-, ma anche l’epicheia -entrambe ignorate dal CIC, che pur fa riferimento all’“aequitas” ben 33 volte- sono applicabili nella prassi ecclesiale anche quando il testo della legge non lo prevede 47 .
Per contro, laddove il discorso diventa più rigoroso fino a distinguere l’epicheia dall’“aequitas non scripta” o “contra legem”, allora si deve constatare che la dottrina rinuncia a riconoscere all’epicheia qualsiasi rilevanza giuridica diretta.
Determinante per questa soluzione è stata senza dubbio la necessità di salvare dall’arbitrio il principio della certezza del diritto e di conseguenza la paura di ammettere che il “suddito”, sia esso rivestito di funzioni gerarchiche o meno, possa dare origine ad una realtà giuridica valida in forza di un atto o comportamento “contra legem”. È prevalso perciò il criterio giuridico.
Dato che l’epicheia si impone come fatto culturale insopprimibile, grazie alla forza con la quale rinvia all’intangibilità della coscienza e per riflesso alla trascendenza, si è preferito aggirare l’ostacolo relegando l’epicheia nell’ambito extragiuridico della morale, al quale essa fa oltretutto direttamente appello.
La consacrazione più pregnante di questa dottrina anche canonica può essere riscontrata nella formula usata dall’Hering secondo il quale, il ruolo assegnato all’“aequitas” nel foro esterno è svolto dall’epicheia per quello della coscienza 48 .
Questo sistema trova il suo risvolto preciso anche in quegli autori che sostengono, contro il Suarez e la maggior parte della dottrina, che nel caso delle leggi irritanti e inabilitanti si può applicare l’“aequitas”, ma non l’epicheia 49 , essendo quest’ultima un istituto non giuridico ma morale che interessa esclusivamente il foro della coscienza.
Una revisione della dottrina canonistica sull’epicheia si impone, oggi, a partire da considerazioni diverse.
Prima di tutto bisogna tener conto del primato della persona sull’istituzione, impostosi come fatto culturale universale, di cui la Chiesa si è fatta portavoce in questo ultimo secolo, soprattutto con le encicliche sociali. Ciò ha portato la teologia morale a rivalutare, tra le altre cose, anche l’epicheia, sia allargandone il campo d’applicazione50 , sia considerandola non più come eccezione da tollerare, ma come virtù morale da praticare normalmente nella vita cristiana.
Questo cambiamento nella dottrina è avvenuto negli anni quaranta, soprattutto in seguito ad un articolo di Egenter 51 , dove l’epicheia non è più considerata solo come principio giuridico d’interpretazione in vista di liberare il suddito dall’obbligo della legge sulla base di una presunta e benevola concessione del legislatore, ma come aspetto virtuoso di una vita cristiana matura. L’epicheia, però, non è più vista come “lesione” della legge, o come minor male, ma come “emendamento positivo” della stessa. L’uso prudente dell’epicheia non costituisce, di conseguenza una “diminuzione” del diritto, ma una sua “correzione”: aiuta ad applicare la legge positiva secondo il suo vero senso, sulla base dei più alti principi della legge naturale 52 .
Da una concezione intellettualistica e volontaristica di estrazione platonico-suaresiana, in cui si cercava soprattutto d’interpretare la volontà del legislatore, si è ritornati alla concezione oggettivistica di Aristotele e di San Tommaso, per i quali l’epicheia non si oppone al vero diritto, ma solo a quello positivo, per correggerlo in favore della vera giustizia. È considerata perciò come elemento soggettivo della giustizia, il cui oggetto è il miglior diritto 53 .
Esistono però anche motivi più strettamente canonistici per un ripensamento dell’istituto dell’epicheia.
La dottrina comune, che la relega all’ambito della coscienza, ha come sfondo, entro il quale si muove più o meno coscientemente, la distinzione tra foro esterno e foro interno, che è una distinzione così tipica del diritto canonico da distinguerlo da tutti gli altri ordinamenti giuridici.
Questa distinzione si è progressivamente trasformata in una vera separazione con il prevalere della confessione privata sulla prassi penitenziale pubblica, avvenuta nel medio evo. Mentre però gli scolastici continuarono ad attribuire carattere giuridico a tutti e due i fori, la canonistica posteriore ha identificato il foro interno con quello della coscienza, inteso come foro nel quale l’uomo, sottratto all’influsso mediatore e giuridico della Chiesa, si trova solo davanti a Dio. Questa riduzione ha provocato una separazione istituzionale dei due fori: al foro interno (o di coscienza) venne assegnata la morale, a quello esterno il diritto 54 .
In questa dicotomia affiora quella concezione dualistica della Chiesa -sfociata nella separazione netta tra Chiesa visibile e invisibile di Lutero- che risale alla distinzione medioevale tra il “corpus Christi verum” -sul quale ha potere solo la “hierarchia ordinis”- e il “corpus Christi mysticum” -riservato alla “hierarchia iurisdictionis”- 55.
Sotto l’impulso del Mörsdorf, parte della canonistica moderna ha riscoperto e ribadito con forza, che anche il foro interno è un foro giuridico “coram ecclesia”, né più né meno di quello esterno, e che la differenza dei due fori è legata solo al modo diverso con cui la Chiesa procede: in foro interno con una differenziata garanzia di segretezza -secondo che si tratti del foro sacramentale o extra sacramentale-, in foro esterno, invece, con piena pubblicità.
Malgrado questo ricupero dell’unità dei due fori e malgrado la canonistica moderna sia rimasta profondamente convinta, come quella antica, che la legge canonica vincola anche in coscienza, essa continua a sostenere, non senza contraddizione, che l’epicheia non ha effetti giuridici diretti.
Evidentemente non si può escludere l’esistenza di un foro di coscienza nel quale l’uomo, senza passare per la mediazione della Chiesa e del diritto canonico, viene in rapporto diretto con Dio. Dato che non si possono imporre limiti all’intervento salvifico di Dio, i teologi ammettono questa possibilità, la quale però non mette in discussione la struttura ordinaria dell’economia della salvezza, essenzialmente sacramentale ed ecclesiale 56.
D’altra parte, non bisogna dimenticare che anche il foro della coscienza, in quanto foro della morale distinto da quello giuridico interno, è -all’interno dell’economia ordinaria della salvezza- un foro “coram ecclesia”. La riscoperta della dimensione ecclesiale della penitenza da parte del Vaticano II, che l’ha definita come sacramento di riconciliazione con Dio e con la Chiesa 57 , non lascia nessun dubbio in merito. La coscienza morale del cristiano ha come elemento specifico e discriminante rispetto all’etica naturale, la dimensione ecclesiale, nel senso che il comportamento del cristiano è giudicato nella sua eticità non a partire dai principi della legge naturale, ma dalla sua conformità alla “communio”, vale a dire dalla sua ecclesialità.
Anche questa è una delle ragioni che impediscono di separare il diritto canonico dalla morale. Infatti, diritto e morale, che non sono realtà adeguatamente distinte dato che l’ambito morale può avere risvolti giuridici e viceversa, hanno in comune il fatto di essere due realtà che toccano gli stessi ambiti: la coscienza e la “communio”, cioè la Chiesa.
Fatte queste constatazioni ed affermata l’ecclesialità della coscienza, sia essa chiamata in causa in foro morale che in quello giuridico, il rifiuto della canonistica di riconoscere carattere giuridico all’epicheia, che in quanto istituto morale ha comunque già rilevanza ecclesiale, diventa sempre meno comprensibile.
Le principali ragioni per opporsi al riconoscimento del carattere giuridico dell’epicheia sono senza dubbio, da una parte, la paura di dover sacrificare il principio della certezza del diritto, dall’altra, quella di svuotare il sistema giuridico della Chiesa di ogni forza vincolante reale.
Per quanto concerne la certezza del diritto abbiamo già visto che non si tratta di un principio da cui dipende la giuridicità del diritto canonico. Nella sua accezione più stretta, vale a dire, come principio che fa prevalere la verità formale su quella sostanziale, non è applicabile in diritto canonico se non come criterio di ricupero, cioè quando l’unità della “communio ecclesiae et ecclesiarum” esige di attenersi ad una norma o ad una sentenza, anche se la loro corrispondenza con la verità teologica non fosse perfetta. In questo caso è l’unità in se stessa ad essere verità teologica.
Per quanto concerne il problema della giuridicità del diritto canonico si deve tener conto del fatto, che il riconoscere all’epicheia il potere di liberare dalla norma giuridica facendo appello alla coscienza morale, significa concepire il diritto canonico solo come una sovrastruttura sociale, cioè come realtà la cui verità risiede altrove, nella morale o nella dogmatica. Una simile concezione può eventualmente essere accettata per il diritto statuale. È sintomatico, del resto, che l’istituto dell’epicheia sia stato elaborato all’interno di una riflessione filosofica, dove il valore dell’etica, intesa come giustizia superiore, è contrapposto, come al diritto positivo, inteso come manifestazione meno perfetta della vera giustizia.
In diritto canonico una simile concezione non è possibile, perché né la dogmatica né la morale, in quanto realtà capaci di cogliere la verità teologica, sono necessariamente superiori al diritto canonico, quasi fossero la sua unica ragione e fonte di esistenza.
Il diritto canonico, come realtà in cui si istituzionalizza storicamente l’esperienza della Chiesa -assolutamente irriducibile ad esperienza dottrinale- porta in se stesso, come elemento essenziale in cui si declina la Tradizione, almeno una parte della verità rivelata, cogliendone il senso con autonomia di mezzi e con logica proprie.
Di conseguenza, nella misura in cui l’epicheia rinvia al foro morale, con la pretesa di dare al cristiano una sicurezza che il foro giuridico non può dargli, relativizza alla radice la verità e perciò la giuridicità del diritto canonico stesso.
Dato che il diritto canonico non può essere considerato come una sovrastruttura sociologica rispetto alla realtà ecclesiale, perché è un elemento essenziale attraverso il quale si manifesta la Chiesa nella forza vincolante della sua verità, l’epicheia deve poter essere riconosciuta come istituto le cui conseguenze restano immanenti al foro giuridico stesso. Invece di diminuire la forza vincolante del sistema giuridico della Chiesa, un’epicheia così strutturata non farebbe che rafforzarne la giuridicità.
Visto che la canonistica non ha ancora risolto in modo definitivo il problema dei diritti soggettivi, ci sembra che la questione se da un atto epicheietico possa nascere o meno un diritto soggettivo, può essere rinviata ad altra sede.
Ci basta qui, poter affermare che da un atto epicheietico, in quanto atto “contra legem”, può nascere non tanto un’attenuante morale di cui il giudice tiene conto, ma piuttosto una realtà giuridica valida, opponibile in foro esterno.
La dottrina dovrà, evidentemente, fissare, come del resto ha fatto con molta precisione per l’“aequitas non scripta” o “contra legem” 58, le condizioni per l’uso dell’epicheia. Se si accetta che l’“aequitas scripta” -contraria per sua natura al principio della certezza del diritto- non distrugge la giuridicità del sistema canonico, ma la qualifica nella sua specificità, allora si deve prendere atto che anche un’epicheia con valenza pienamente giuridica si inserirebbe nel sistema, senza portare squilibri di fondo.
Oltrettutto si tratta di un sistema giuridico, la cui forza vincolante non scaturisce primariamente dalla volontà del legislatore, quanto piuttosto dalla sua verità teologica ed ecclesiale. Infatti nella misura in cui la norma canonica diventa stringente per la salvezza, il legislatore canonico, più che essere chiamato a deciderla, la deve autorevolmente constatare 59.
Fatta questa premessa si deve pure ammettere che anche un cristiano non investito della potestà d’imperio è in grado di cogliere la verità teologica e comunionale di un comportamento o di un atto giuridico. Per impedire tuttavia, il rischio che un uso abusivo dell’epicheia dissolva l’esperienza cristiana in un’esperienza soggettivistica, sarebbe necessario che un atto o comportamento “contra legem”, risultante da un atto epicheietico, per essere opponibile in foro esterno, venisse constatato nella sua legittimità formale da chi nella Chiesa ha potere d’imperio, a partire da criteri che il diritto o la dottrina dovrebbero elaborare.

1  Sulla diatriba sorta a questo proposito tra canonisti laici e curiali, cfr. per es. P. Fedele, Lo spirito del diritto canonico (Padova 1962), pp. 155, 22-227; A. C. Jemolo, Recensione a F. Roberti, De processibus, I (Romae 1926) “Rivista di Diritto processuale civile”, V, 1 (1928), pp. 372 ss.; D. Staffa, Immobilità e sviluppo della scienza canonistica, “Apollinaris”, 29 (1956), pp. 413 ss.

2  Cfr. A. De La Hera-Ch. Munier, Le droit public à travers ses définitions, “Revue de Droit canonique, 14 (1964), pp. 32 ss.; A. De La Hera, Introducción a la ciencia del derecho canónico (Madrid 1967), pp. 38 ss.

3 Cfr. A. Stiegler, Der kirchliche Rechtsbegriff. Elemente und Phasen seiner Erkenntnisgeschichte (München-Zürich 1958), pp. 151 ss.

4 Il documento più esplicito del Magistero sul carattere teologico della canonistica e sulla necessità di una teologia del diritto canonico è il discorso di Paolo VI al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico (Milano 1973), “L’Osservatore Romano”, n.° 213, 17-18 sett. 1973.

5  La monografia più diffusa sul problema e quella di J. Hervada, El ordenamento canónico. I. Aspectos centrales de la construcción del concepto (Pamplona 1966); cfr. anche P. J. Viladrich, Hacia una teoria fundamental del derecho canónico, “Ius Cananicum”, X (1970), pp. 5 ss.

6  Cfr. per es. B. Albanese, Illecito, “Enciclopedia del Diritto”, XX (Milano 1970), pp. 50 ss.

7  Un esempio di come queste categorie non siano sempre recepite dalla canonistica è l’articolo di G. May, Rechtsfolgen schuldhaften Verhaltens ohne Strafcharakters im CIC, “Österreichisches Archiv für Kirchenrecht”, 128 (1959), pp. 174 ss.

8  Cfr. M. S. Giannini, Atto amministrativo, “Enciclopedia del Diritto”, IV (Milano 1959), pp. 181-194.

9 Su tutta la questione cfr. G. Pugliese, Giudicato civile “Enciclopedia del Diritto”, XVIII (Milano 1969), pp. 727 ss.

10 I sostenitori della teoria sostanziale pensano che il giudicato ingiusto crei la situazione sostanziale che in realtà era inesistente; i seguaci della teoria processuale per contro accettano che la situazione sostanziale realmente esistente rimanga immutata e che il giudicato vincoli solo il futuro giudice, ibid., p. 822, n.° 165.

11 Cfr. ibid., pp. 830, 887.

12  Solo non tenendo conto del fatto che la scienza canonistica è una disciplina teologica, il Del Giudice ha potuto affermare che “una questione del metodo nello studio del diritto canonico non esiste”, [Sulla questione del metodo nello studio del diritto canonico, “Il Diritto ecclesiastico”, 50 (1939), pp. 221 ss.], quasi si trattasse semplicemente di un problema di tecnica. Questa tesi ha avuto senza dubbio gravi strascichi per lo sviluppo della canonistica laica italiana.

13  Cfr. V. Del Giudice, Nozioni di diritto canonico (Milano 1970), pp. 36 ss.

14  Cfr. E. Mazzacane, Il giudicato canonico e la certezza del diritto, “Raccolta di scritti in onore di A. C. Jemolo”, I, 2 (Milano 1963), pp. 881 ss.

15  Cfr. per es. A. Verdross, Abendländische Rechtsphilosophie. Ihre Grundlagen und Hauptprobleme in geschichtlieher Form (Wien2 1965), pp. 100 ss.

16 Cfr. per es. A. Segni, Della tutela giurisdizionale dei diritti. Commentario del Codice Civile cura di Scialoia e Branca, libro sesto (art. 2900-2969) (Bologna-Roma 1953), p. 289.

17  Cfr. per es. K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, I11 (München-Paderborn-Wien 1964), p. 114.

18  (Padova 1941), per es. pp. 106 ss.; cfr. anche idem, Diritto canonico, “Enciclopedia del Diritto”, XII (Milano 1964), pp. 888 ss.

19   Cfr. per es. La certezza del diritto e l’ordinamento canonico, “Archivio di Diritto ecclesiastico”, 5 (1943), pp. 360 ss.

20  Su tutta la questione del fine ultimo del diritto canonico cfr. E. Corecco, Il rinnovo metodologico del diritto canonico, “La Scuola Cattolica”, 126 (1969), pp. 11 ss.

21  La certezza del diritto nell’ordinamento canonico, “Ephemerides Iuris Canonici”, 1 (1945), pp. 26 ss.

22  Diritto canonico e dommatica giuridica, “Foro italiano”, LXIV (1939), 41-47 estr.

23  Mazzacane, art. cit., p. 887.

24  Capograssi, art. cit., p. 28.

25 Un esempio estremamente significativo in questo senso è la formulazione del primato pontificio nel c. 218; cfr. Y. M. J. Congar, L’ecclésiologie de la révolution française au Concil du Vatican, sous le signe de l’affirmation de l’autorité: L’ecclésiologie au XX.e siecle (Paris 1960), pp. 100 ss.

26  Cfr. K. Mörsdorf, Zur Grundlegung des Rechtes der Kirche, “Münchener Theologische Zeitschrift”, 3 (1952), pp. 1 ss; id, Wort und Sakrament als Bauelemente der Kirchenverfassung, “Archiv für katholisches Kirchenrecht”, 134 (1965), pp. 72 ss.

27  Cfr. per es. Joh. Heckel, Initia iuris ecclesiastici protestantium: Das blinde, undeutliche Wort “Kirche”. Gesammelte Aufsätze hrsg. von S. Grundmann (Köln-Graz 1964), pp. 132 ss.

28  Cfr. P. Fedele, Giudicato (diritto canonico), “Encidopedia del Diritto”, XVIII (Milano 1969), pp. 924 ss.

29  Cfr. Mazzacane, art. cit., pp. 888 ss.

30  Le fonti del Mazzacane Sono il Pirhing e il Reiffenstuel (cfr. ibid., p. 888, n. 21).

31  Cfr. E. Corecco, Diritto Canonico, “Dizionario enciclopedico di Teologia morale”, diretto da L. Rossi e A. Valsecchi (Roma 1974), pp. 233 ss.

32  Cfr. nota 29.

33  Ci sembra che anche il Fedele, che pure ha usato espressioni molto decise come: “il principio della certezza del diritto è lettera morta nel diritto canonico”, oppure “che non si possa parlare di certezza del diritto” (cfr. Diritto Canonico, art. cit., pp. 888 ss.) abbia dato, malgrado tutto, una portata troppo limitata alla negazione del principio, come se si riferisse solo a determinati settori dell’ordinamento canonico. Ciò dipende probabilmente dal fatto di non aver stabilito una teoria generale a partire da una chiara impostazione teologica.

34  Cfr. A. Rouco Varela – E. Corecco, Sacramento e diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico (Milano 1971), pp. 62 ss.

35  Cfr W. Aymans, Die Communio Ecclesiarum als Gestaltgesetz der einen Kirche, “Archiv für katholisches Kirchenrecht”, 139 (1970), pp. 69 ss.

36   Sul problema del rapporto epicheia e diritto naturale o divino, cfr. Joh. Haring, Die Lehre von der Epikie. Eine rechtswissenschaftlich-moraltheologische Studie, “Theologischpraktische Quartalschrift” 47 (1899), pp. 806 ss.

37  Cfr. per es. Del Giudice, Nozioni, op. cit., pp. 21 ss.; Fedele, Diritto canonico, art. cit., pp. 888 ss.

38  Cfr. C. J. Hering, Die Billigkeit im kanonischen Recht: Beiträge zur Rechtsforschung hrsg. von Ernst Wolf, “Zeitschrift für Ausländiches und Internationales Privatrecht”, 15 (1950), pp. 107 e 109.

39  Cfr. Fedele, Diritto canonico, art. cit., pp. 889 ss.

40  Diritto canonico e dommatica giuridica, art. cit., p. 44.

41  Cfr. Hering, art. cit., p. 109, il quale però non cita nessuna fonte.

42  Cfr. per es. S. d’Angelo, De aequitate in Codice Iuris Canonici, “Periodica”, 16 (1927), pp. 222 ss.

43  Cfr. Mörsdorf, Lehrbuch, op. cit., p. 114.

44  Cfr. per es. E. Wohlhaupter, Aequitas canonica (Paderborn 1931); V.Del Giudice, Privilegio, dispensa e epicheia nel diritto canonico, “Scritti in onore del Prof F. Innamorati” (Perugia 1932), pp. 231 ss.; E. Hamel, Epicheia, “Dizionario enciclopedico diTeologia morale…”, cit., pp. 357 ss.

45  Come per es. l’interpretazione, il permesso presunto, la dispensa, l’autodifesa, la causa scusante ecc. Cfr. Haring, art. cit., pp. 581 ss.; Hamel, art. cit., p. 362; P. G. Caron, “Aequitas” romana, “misericiordia” patristica ed “epicheia” aristotelica nella dottrina dell’“aequitas canonica” (dalle origini al Rinascimento) (Milano 1971).

46  Cfr. per es. A. Szentirmai, Der Umfang der verpflichtenden Kraft des Gesetzes im kanonischen Recht, “Archiv des öffentlichen Rechts”, 47 (1960), pp. 349 ss. Gli istituti giuridici nei quali la nota dell’elasticità si è positivamente declinata sono quasi esclusivamente concepiti in vista dell’uso che di essi ne può fare l’autorità legislativa, giudiziaria e amministrativa. Anche l’istituto della “consuetudo contra legem”, soprattutto nell’assetto datole dal CIC -più positivistico rispetto a quello goduto sotto il regime delle Decretali-non fa eccezione alla regola, in quanto che l’affermarsi della consuetudine “contra legem”, come fonte di diritto, dipende ultimamente dall’approvazione da parte di chi detiene la potestà d’imperio. Sarebbe anche necessario rivedere le basi teologiche con le quali si intende oggi rilanciare il diritto consuetudinario canonico. Non ci sembra, anche se abbiamo condiviso questa opinione (cfr. Il rinnovo metodologico, art. cit., p. 29), che l’elemento carismatico della Chiesa possa essere preso come elemento discriminante. Alla stessa stregua si potrebbe giustificare anche la partecipazione del laicato all’attività legislativa della Chiesa, all’interno degli istituti sinodali moderni [Cfr. invece J. Arias, Las comunidades cristianas y la costumbre, “El Proyecto de ley fundamental de la Iglesia. Texto bilingüe y análisis crítico” (Pamplona 1971), pp. 191 ss.]. Per la consuetudine potrebbero bastare motivazioni più tecniche, essendo una tipica manifestazione della decentralizzazione [Cfr. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (Vicenza 1963), pp. 128 ss., 313 ss.]. Comunque anche la·decentralizzazione non implica necessariamente uno spazio per la consuetudine, per cui anche la problematica teologica concernente il rapporto tra Chiesa Universale e Chiesa Particolare non offrirebbe una base teologica indiscutibile.

47  Cfr. Hering, art. cit., pp. 100 ss.

48  Cfr. ibid., p. 100.

49  L’Haring cita alcuni di questi autori a p. 809 (art. cit.). Tra i moderni cfr. per. es. A. VAN Hove, Commentarium Lovaniense im CIC, II (Mecheln 1928), p. 294; Mörsdorf, Lehrbuch, op. cit., p. 115.

50  Oltre ai tre casi classici d’applicazione dell’epicheia enumerati dal Suarez (legge superiore alle forze, legge manchevole e perciò intollerabile, interpretazione restrittiva della presunta volontà del legislatore -quest’ultimo caso ha determinato in modo unilaterale le definizioni date dell’epicheia dopo il Suarez-), alcuni autori moderni, sostenitori della rivalutazione dell’epicheia come virtù morale, ne propongono un quarto, detto di giustizia sociale, in cui l’epicheia esige una prestazione superiore alla legge, quando la norma fosse incapace a cogliere con giustizia una situazione, cfr. Hamel, art. cit., pp. 363 ss.

51  Ueber die Bedeutung der Epikie im sittlichen Leben, “Philosophisches Jahrbuch”, 53 (1940), pp. 115 ss.

52  Cfr. Hamel, art. cit., pp. 358 ss.

53   fr. ibid., passim.

54  Su tutta la questione cfr. K. Mörsdorf, Der Rechtscharakter der iurisdictio fori interni, “Münchener Theologische Zeitschrift”, 8 (1957), pp. 161 ss.; Id., Der hoheitliche Charakter des sakramentalen Lossprechung, “Trierer Theologische Zeitschrift”, 57 (1948), pp. 335 ss., Id, Lehrbuch, II9, op. cit., pp. 68 ss.; M. Schmaus, Reich Gottes und Bussakrament, “Münchener Theologische Zeitschrift”, 1 (1960), pp. 20 ss.

55 Cfr. H. De Lubac, Corpus mysticum. L’Eucharistie et l’Eglise au Moyen Age (Paris 1949); J. Ratzinger, Leib Christi “Lexikon für Theologie und Kirche”, 2VI, pp. 910 ss.

56  Cfr. K. Rahner, Die Disziplin der Kirche, “Handbuch der Pastoraltheologie”, I (Freiburg-Basel-Wien 1964), pp. 336 ss.

57  Const. Lumen Gentium, n. 11.

58  Cfr. Wohlahupter, op. cit., p. 181; Hering, art. cit., p. 108.

59  Sul significato del voto e delle decisioni dei vescovi nel governo della Chiesa cfr. E. Corecco, Kirchliches Parlament oder synodale Diakonie?, “Internationale Katholische Zeitschrift: Communio”, 1 (1972), pp. 36 ss.; Id., Struttura sinodale o democratica della Chiesa particolare?, “Miscelánea en honor de Juan Becerril Y Antón-Miralles” (Madrid 1974), pp. 279 ss.