3. Istituzione e carismi

Quarta lettera. Roma 27 ottobre 1987

Carissimi fratelli e sorelle nel Signore, se al Sinodo non ci fossero le Beatitudini sarebbe un vero peccato. Dominerebbe sovrana la tensione efficientista e qualche volta l’acribia concettuale, tipiche della cultura occidentale, antica e moderna. Le Beatitudini, invece, capovolgono tutto. Fanno ridiventare serena l’atmosfera, permettendo a un sole ridente di far capolino tra le nuvole. È il sole d’Oriente, portato dai Patriarchi, che assomigliano un po’ ai Re Magi e che come loro sono arrivati al Sinodo dall’Oriente. Non si fanno salutare con l’epiteto di «Eminentissimo» come i Cardinali latini (diventato un po’ troppo manageriale) ma con quello di «Beatitudine»: Vostra Beatitudine.
Il colore delle loro vesti non è fisso come quello dei signori Cardinali. Può essere il rosso, il verde, l’arancione o il nero. AI posto della croce pettorale mettono volentieri in mostra medaglioni (encolpion), fantasmagorici, con l’effigie della Madonna. In testa non insediano una semplice mitra, ma una tiara con qualche piano in meno di quella portata dai papi fino a Paolo VI, che se la tolse e la depose nei musei vaticani. Forse è per questo che durante il Concilio erano stati contrari a che anche i Patriarchi venissero creati Cardinali; lo sentivano come una “diminutio capitis”.
Ognuno di loro è un programma unico, religioso, rituale, teologico e culturale. Sono tutti molto poveri, malgrado i colori vivaci, perché vivono in paesi disastrati come quelli del Medio Oriente o in Abissinia. Nel ‘500 il duca di Kleve (in Germania), dopo aver rubato la spada spirituale al Vescovo, diceva che lui era Papa e Imperatore nel suo territorio: «Dux Cliviae, papa et imperator in territorio suo». I Patriarchi cattolici orientali riconoscono il Papa e gli sono molto obbedienti, ma nel loro territorio sono quasi-papi anche loro. Sono veneratissimi dal popolo cristiano e musulmano e tutti gli Arcivescovi e Vescovi di quei paraggi fanno loro profonde riverenze.
Di Beatitudini al Sinodo ce ne sono solo 6: il Patriarca dei Copti, dei Melchiti, dei Siri, dei Maroniti, dei Caldei e degli Armeni. Parlano raramente e qualche volta sembra vadano fuori tema. Fanno però sempre sfoggio di una ricchezza spirituale e dottrinale che fa bene al cuore di tutti, come un ricostituente. Non spaccano mai un capello in quattro come fanno spesso gli occidentali, nel solco soprattutto di S. Tommaso d’Aquino, che ha ridotto tutta la teologia. a «quaestiones», cioè ad un catalogo di problemi da risolvere. Ciò ha fatto spesso perdere ai teologi,
meno intelligenti di lui, il nocciolo della questione sulla fede.
Se qualche volta le loro Beatitudini, i Patriarchi, sembrano andare fuori tema, ma non fuori strada, non ci si deve meravigliare. Ditemi voi come si fa a parlare in un Sinodo tutto dedicato ai laici, senza far salti mortali, quando nelle Chiese orientali ortodosse e cattoliche non esiste neppure il concetto di “laico”.
In effetti, la parola “laico” viene dall’etimo greco “làos”, che non significa laico, ma popolo. Allora, parliamo del Popolo di Dio, cui appartengono tutti, chierici e religiosi compresi, oppure parliamo solo dei laici? In Occidente la nozione di laico ha preso via via diversi significati, qualche volta addirittura strani. Prima ha significato“popolo”, anche in Occidente; poi, passati un paio di secoli, ha incominciato a designare, nel Popolo di Dio, quelli che non erano chierici e religiosi, cioè i fedeli laici nel senso moderno. Nel Medio Evo i laici erano i re e le regine, i baroni e i baronetti (tutti, almeno sulla carta, perfetti cristiani), cioè coloro che al cinturone. Portavano appesa la spada secolare. La spada spirituale era portata invece dai chierici. Evidentemente, non dal basso clero, ma da quello alto, dai Papi e dai Vescovi… quando non se la lasciavano rubare, perché, da che uomo è uomo, chi ha una cosa vuole anche l’altra. E’ incominciata così una specie di altalena: una volta erano i laici (sono stati i periodi di gran lunga più lunghi) che rubavano la spada ai Vescovi, per comandare anche nelle cose spirituali; un’altra volta, 0erano i chierici che la rubavano ai laici per fare un po’ di politica. Questa, in sunto, la storia dei rapporti tra Chiesa e Stato in Occidente; storia dalla quale non siamo ancora usciti del tutto.
Dopo di allora, la parola “laico” ha cambiato ancora significato almeno quattro volte. Nel secolo dei lumi (il
‘700) ha incominciato a designare i personaggi che non andavano più in chiesa. Da questa metamorfosi è nata la denominazione dei così detti partiti dell’area laica, di cui in Italia, molti sono orgogliosissimi. La Chiesa, se potessero, loro la sopprimerebbero, perché per loro il fumo delle candele non fa solo male, ma è addirittura l’oppio dei popoli.
Se si pensa alla prosopopea culturale di certi illuministi alla Voltaire, che sputava su tutti («Ecrasez l’infame!», diceva della Chiesa), non è senza una punta di ironia che nella storia si sia ripetuta la pena del contrappasso; quella con la quale Dante Alighieri, nella Divina Commedia, si era divertito un mondo. Pensate per esempio alle pene inflitte, giù nell’inferno, ai golosi e agli accidiosi. Infatti, il termine “laico”, è diventato, a poco a poco, sinonimo di ignorante. «lo sono laico in materia», significa, io non ci capisco proprio nulla!
Di questo fenomeno sono rimasti vittima anche i laici che andavano in chiesa, perché anche loro, più come categoria che presi uno ad uno, sono purtroppo diventati o rimasti ignoranti nelle questioni riguardanti la fede. La colpa non è certo solo del clero. Il Sinodo .sui laici, nel solco del Concilio Vaticano II, vuoI correre ora ai ripari. La parola “laico”, presa nel suo quarto significato, quello ecclesiastico antico e attuale, definisce quelle persone che, avendo ricevuto il battesimo, appartengono a Cristo e alla Chiesa. Il laico non dovrebbe però essere laico nel senso secolarizzato del concetto, cioè, ignorante circa il mistero di fede, da cui è determinata tutta la sua persona. Essere fedeli laici esige la consapevolezza di appartenere a Cristo Risorto, che nella storia è presente attraverso la comunità di tutti i cristiani, la Chiesa.
Questo senso di appartenenza a Cristo e alla Chiesa dovrebbe prevalere su ogni altro tipo legittimo di appartenenza: ad un’etnia, ad una razza, ad una cultura, ad una nazione, ad un partito. Non oso parlare dei club e delle associazioni di ogni genere, di cui oggi tutti, anche in Svizzera, diventano sempre più matti. Eppure questo è tutt’altro che scontato. In questa appartenenza a Cristo e alla Chiesa sta tutta la questione. Il fedele laico dovrebbe assumerne tutte le conseguenze, nella sua vita privata e familiare, nella vita pubblica, sociale, culturale e, soprattutto, nel suo modo di pensare. Altrimenti rimane “stupido”, in senso etimologico (dal latino stupere), cioè stupito, smarrito, attonito, di essere quello che è… senza saperlo.
Una delle conseguenze sarebbe anche di partecipare con più interesse alla vita della Chiesa e all’elaborazione delle sue decisioni. Su quest’ ultima questione, che nel Sinodo affiora un po’ marginalmente, perché il problema non si pone con la stessa focalizzazione di tutte le culture, come in quelle democratiche, non ho l’impressione che si intenda andare molto lontano, oltre le norme dell’attuale diritto canonico, che nei confronti dei laici non parla di voto deliberativo, ma di voto consultivo. Due termini questi, presi dalla cultura giuridica universale che comunque non esprimono con esattezza il rapporto ottimale di corresponsabilità che dovrebbe esistere tra laici e chierici nella Chiesa. Del resto è difficile, anche nella vita civile, trovare un giusto equilibrio di forza tra la maggioranza che vince e la minoranza che perde. Da ciò si vede che il problema di una corretta gestione del potere è la suprema arte dell’umanità. Mai risolta totalmente, poiché tutte le formule hanno il loro tallone d’Achille.
In sostanza però il problema fondamentale non è quello di affinare le modalità di partecipazione, bensì quello della consapevolezza, che tutti i laici dovrebbero avere di se stessi. Se fossero consapevoli della loro fede e dei loro doveri nei confronti del mondo, la sfida culturale, che il cristianesimo si appresta ad affrontare alla vigilia del terzo millennio, potrebbe avere un esito molto positivo per tutta l’umanità, poiché i laici cattolici sono quasi un miliardo. E una sfida in cui i problemi hanno assunto orizzonti sconfinati, non più del tutto riducibili alle quaestiones della Somma Teologica di S. Tommaso.
A sentire certi Vescovi, del cosiddetto Terzo mondo,
parlare del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest, del debito presso la Banca mondiale, del commercio delle armi reso possibile dal contrabbando della droga, dell’egoismo nazionale di tutti i paesi, industrializzati o meno, della borsa delle materie prime (anche noi ricchi ci indispettiamo della ruberia compiuta alla borsa del petrolio di Amsterdam); a sentire parlare questi Vescovi su queste cose e delle gravissime inadempienze dei laici cattolici, si ha quasi l’impressione che, per un po’ di tempo, sarebbero disposti a cingere loro la spada secolare, se i laici cattolici di tutto il mondo non si decidono a svegliarsi.
Su questo discorso si innesta quello dei carismi. E difficile trovare un comune denominatore da dare a questa parola. Alcuni parlano del carisma dell’uomo e della donna, della famiglia; altri lo confondono con la competenza professionale. Il rischio dell’inflazione è grande anche al Sinodo. Se non stiamo attenti a non “carismatizzare” tutto, potrebbe avvenire un crollo di borsa, come quello avvenuto nei passati giorni a New York. Ci si deve con-centrare su quei doni speciali ricevuti da certe persone, laici o chierici, uomini o donne, capaci di proclamare la fede con più forza di persuasione di altre. Si è constatato così che questo fenomeno, spesso legato a quello dei movimenti ecclesiali, mette in difficoltà l’istituzione. Il carisma è un dono quasi incommensurabile dello Spirito Santo. Dopo secoli che non se ne parlava quasi più, anche se sono di fatto sempre esistiti, il problema ora è stato messo finalmente a tema, in termini dottrinali.
Il carisma è un fatto di sovrabbondanza dello Spirito Santo, che può esserci, ma che potrebbe anche non esserci, oppure è un elemento che nella Chiesa non può mai mancare? In termini più rigorosi il carisma appartiene alla Costituzione, cioè all’essenza della Chiesa, oppure no? E fuori dubbio che all’essenza della Chiesa appartengono la Parola e i Sacramenti, da cui deriva tutta l’istituzione.
Questa coincide con tutte quelle realtà, come per esempio il Collegio dei Vescovi, il Papa, i singoli Vescovi, il Sinodo, il Presbiterio, i Consigli pastorali, le Parrocchie, i laici con i loro doveri-diritti religiosi, le suore e tutte le altre realtà fisse, che le norme di diritto canonico regolano e collegano tra di loro, per dare la garanzia che quando celebriamo l’Eucaristia (espressione culminante e totalizzante della Chiesa), tutti e tutto siano al posto giusto.  L’Eucaristia, infatti, deve essere espressione vera di quello che la Chiesa veramente è.
Se anche i carismi appartengono, come l’istituzione, all’essenza della Chiesa, cioè alla sua Costituzione, allora vuoI dire che i vescovi ne devono tenere conto: non possono ignorarli e tanto meno estinguerli, anzi li devono difendere e promuovere come tutto il resto.
Evidentemente il carisma non si giudica da se stesso: non tocca a lui dire se è autentico o no. Se fosse così, con i tempi che corrono, capiterebbe che tutti potrebbero dire di aver visto la Madonna o di aver ricevuto una rivelazione privatissima da Nostro Signore, in persona. Di fenomeni di questo tipo ce ne sono anche troppi, ma è carisma solo ciò che è vero e, purtroppo tocca ai Vescovi, prima da soli, poi collegialmente o con il Papa, tifar fuori le castagne dalla brace e dare un giudizio sulla loro autenticità.
Ma la vera questione dei carismi al Sinodo non è affatto quella delle apparizioni, bensì quella dei Movimenti ecclesiali, perché sono realtà che oggi mobilitano in massa soprattutto i laici. Visto che per loro natura disturbano l’istituzione, perché sono dati dallo Spirito Santo proprio per vivificare l’istituzione, la tentazione rimane identica a quella delle due spade del Medio Evo. L’immagine delle due spade è stata inventata da papa Gelasio nel quinto secolo per definire il rapporto tra Chiesa e Stato.
Ci sono Vescovi che vorrebbero tenere tutte e due le spade, quella della istituzione e quella del carisma, per poter controllare tutto, a puntino, sul piano giuridico e su quello pastorale; per poter inserire tutti i cristiani dentro un piano pastorale che spesso ha l’aria di un progetto di sviluppo di una grande azienda, dove nessuno può sgarrare, fino a quando si constata che è andata male.
Ci sono Vescovi al Sinodo che si accontenterebbero invece di avere la spada della istituzione, lasciando, con tutta magnanimità, quella del carisma a chi la possiede, cioè i fondatori, nella convinzione che, se è vero, come è vero, che i veri carismi possono venire solo dallo Spirito Santo, almeno Lui non cadrà in contraddizione. Oltretut-to nessuno contesta che l’istituzione (in questo caso i Vescovi) ha l’ultima parola da dire, quando si tratta di giudicare sull’autenticità del carisma, come avveniva già nel Medio Evo; perché già allora alla spada spirituale si riconosceva l’ultima parola in tema di fede e di morale, anche quando la spada temporale era brandita vigorosamente dai Principi.
Ma non è finita; ci sono teologi (che magari riescono a tirar dalla loro anche certi Vescovi) a sostenere che nella Chiesa tutto è carisma, anche l’istituzione. Allora, il pericolo di non capirci più nulla diventa veramente grande.
Su questi temi e su mille altri: definizione del laico; riscoperta della presenza della donna (magari le diaconesse, ma la quotazione è di 1 su 99); nuovi ministeri da introdurre accanto al lettorato e all’accolitato, come quello del catechista, degli assistenti pastorali, degli assistenti degli infermi, degli “operadores de la Palabra” (in America Latina), dei mokambi (in Africa); la questione della conferibilità di questi nuovi ministeri alla donna, giù giù fino alla chierichette, tutti questi temi il Sinodo, in questa terza settimana, si è diviso in 12 gruppi di studio linguistici, i cosiddetti “circuli minores”.
Tutti i “circoli” hanno steso lunghi rapporti, per un totale di almeno 500 pagine. In una notte il Segretario speciale del Sinodo, assistito da uno stuolo di periti, ha preparato un distillato di 30 pagine, scontentando, inevitabilmente, un po’ tutti, perché ognuno, almeno in un primo momento, si aspetta di trovare nella sintesi la frase che aveva dettato proprio lui. Questo rapporto di 30 pagine è ritornato nei “circoli” a farsi criticare e completare.  Durante il fine settimana il Segretario speciale (sempre attorniato da un nugolo di esperti) rifarà un compendio presentato ieri, lunedì 26, al plenum di tutti i Vescovi.  Questo secondo compendio prende il nome di “propositiones”.  Proposizioni che saranno votate una per una dai vescovi. In un primo «round» si può votare “placet”, oppure “placet iuxta modum” (significa “sì, ma presento un emendamento”), oppure “non placet”. Raccolti tutti i “placet iuxta modum”, con i relativi emendamenti, si passa alla seconda votazione: questa volta, però, solo con scheda secca: “placet” o “non placet” (cioè sì o no).
Il risultato finale sarà presentato nelle mani del Papa, che dovrà ricavarne un documento, ricuperando idee andate perse per strada, scritte su mille e mille fogli volanti.  Forse è ora di introdurre il computer, perché uno non abbia l’impressione che il suo intervento, passando da una sintesi all’altra, si sia volatilizzato. Se non ne trovasse traccia nel documento del Papa avrà almeno la consolazione di sapere che la sua idea è stata giudicata sbagliata.  Il Papa ci metterà forse un anno a rielaborare il tutto.
Noi Vescovi nel frattempo saremo già rientrati nelle nostre sedi, stanchi ma contenti di aver lavorato per la Chiesa e per i laici. Prima di partire però manderemo un messaggio, per dire a tutti voi laici nella Chiesa di Cristo e dello Spirito Santo: contiamo, oggi più che mai, su tutti voi, perché tutti assieme dobbiamo affrontare la nuova evangelizazione dell mondo, incominciando dalla nostra parrocchia o dal nostro ambiente di lavoro. Aveva infatti ragione Delannoy quando, all’indomani della catastrofe della seconda guerra mondiale, ha girato il film «Dio ha bisogno degli uomini».