3. Dimettersi dalla Chiesa per ragioni fiscali

 

 


I. LO «STATUS QUAESTIONIS»

La valutazione dal profilo canonistico del fenomeno delle dimissioni dalla Chiesa per ragioni economico-fiscali o politico-sociali, non necessariamente qualificate dallo smarrimento della fede personale, è un problema che la legislazione canonica particolare e la dottrina non hanno ancora saputo risolvere in modo soddisfacente

L’importanza sociologica di questo fenomeno, tipico delle Chiese particolari di lingua tedesca[2] e direttamente connesso con la normativa ecclesiastica che regge il loro sistema di prelievo delle imposte di culto (o ecclesiastiche), non può essere sottovalutata, anche se le crisi degli anni Sessanta in Germania e Settanta in Svizzera sembrano affievolirsi[3].

La recrudescenza ciclica delle crisi collettive in quest’ultimo mezzo secolo[4] testimonia che le dimissioni dalla Chiesa, anche quando non implichino una negazione soggettiva della fede, investono le Chiese particolari dell’Europa centrale, non solo alla superficie, ma al cuore stesso della istituzione sia canonica che ecclesiastica su cui poggia il sistema del rapporto tra Chiesa e Stato. Dal momento che il fenomeno investe il rapporto costituzionale della Chiesa con i suoi fedeli non può essere affrontato dal profilo pastorale senza essere prima valutato nella sua rilevanza ecclesiologica.

Se si deve far credito a un canonista che nel 1977 ha fatto una analisi delle motivazioni che spingerebbero la maggioranza dei cattolici della Germania Federale a pagare puntualmente le imposte ecclesiastiche pur disponendo del diritto di dichiarare le proprie dimissioni dalla Chiesa – in virtù della libertà di coscienza garantita in Germania, come negli altri Paesi implicati nel fenomeno, dalla Costituzione[5] – la situazione potrebbe apparire preoccupante.

Secondo l’ipotesi di questo autore, il 70% dei cattolici tedeschi non avrebbe più alcun rapporto essenziale con la Chiesa, pur accettando, perché deboli e non sufficientemente emancipati, di figurare ufficialmente come membri della stessa e di versarle il loro contributo fiscale. Questo atteggiamento, non

più plausibile razionalmente, sarebbe provocato dalla paura inconscia di perdere la loro identità sociale, dalla preoccupazione – caratteristica di una società dei consumi – di assicurarsi l’avvenire (funerali), dal rispetto sentimentale del modo di pensare delle generazioni precedenti, dalla preoccupazione di garantire ai figli un’integrazione sociale anche nel «milieu» cattolico, dal timore del controllo sociale o da quello di subire eventuali svantaggi professionali ed economici.

Questo modo di presentare la situazione potrebbe apparire sconveniente agli occhi di molti[6]. In ogni caso esso è discutibile dal profilo scientifico, poiché l’autore non sembra inquietato dal fatto che la sua analisi non risulta – almeno apparentemente – fondata su un’inchiesta condotta con criteri professionali. Si tratta allora di una proiezione di opinioni soggettive o di un semplice processo alle intenzioni? Non è importante stabilirlo in questa sede[7]. E importante, per contro, constatare che le dimissioni e le non-dimissioni dalla Chiesa rappresentano il duplice risvolto di un unico e medesimo problema: quello del valore indicativo, per l’appartenenza o la non appartenenza alla Chiesa, attribuibile al fatto che un cristiano paghi o rifiuti di pagare le proprie quote fiscali[8].

Nel valutare la situazione canonica dei fedeli che pagano o non pagano le loro imposte bisogna comunque tener conto che la situazione è a doppio taglio. Effettivamente, esistono dappertutto cattolici che non avendo più una vera fede né un vero rapporto con la loro Chiesa, continuano ad accettare un rapporto fiscale con essa, anche sulla base di motivazioni che possono non più apparire plausibili razionalmente, come ve ne sono altri che, pur avendo ancora un rapporto di fede con la Chiesa (e talvolta proprio in virtù della loro fede), dichiarano le loro dimissioni e cessano ogni rapporto fiscale.

La domanda è allora se il fatto di adempiere un dovere d’ordine finanziario o il fatto di rifiutarlo con un atto di dimissioni dalla Chiesa, può essere considerato, dal punto di vista canonico, come un atto che permetta di giudicare dell’appartenenza di un cristiano alla Chiesa. In quest’ultimo caso, bisogna pure porsi la domanda se si tratta di una fattispecie che possa giustificare anche la comminazione di una pena canonica.

La situazione è chiara soltanto per il caso tipico, che si può ritenere corrisponda pure al caso statisticamente più frequente: quello del fedele che crede ancora e accetta il sistema delle imposte obbligatorie, e quello del fedele che non crede più e che dichiara pure la sua uscita dalla Chiesa. In questi due casi, l’appartenenza o la non-appartenenza possono essere giudicate sulla base del concorso di due elementi: la fede o la non-fede e l’accettazione o il rifiuto delle imposte ecclesiastiche.

Nel caso atipico, invece, il giudizio è difficile, perché bisognerebbe statuire sull’adesione o la non-adesione alla Chiesa sulla base di un solo dato formale: il pagamento o il non-paga- mento delle imposte di culto. L’eventuale cedimento nella fede di coloro che nondimeno pagano e l’eventuale esistenza della fede in coloro che rifiutano di pagare, non possono invece essere verificati. Sembra dunque impossibile stabilire un’equazione secondo cui quelli che pagano le imposte ecclesiastiche aderiscono alla Chiesa e coloro che non le pagano non vi appartengono. Quest’ultimo elemento dell’equazione si complica ulteriormente nelle Chiese dell’Europa centrale, per il fatto che i cristiani che non intendono pagare le proprie imposte sono costretti, di fronte a una istanza dello Stato, a dichiarare le proprie dimissioni dalla Chiesa.

L’esame del primo elemento dell’equazione supera il nostro intento. I campioni delle motivazioni che non derivano dalla fede forniti dall’autore citato sopra (70% dei cattolici tedeschi) mostrano certamente che il problema esigerebbe un’analisi e una riflessione teologica molto sfumate.

Il secondo elemento dell’equazione costituisce l’unico problema da studiare in questo lavoro. Se l’ipotesi è che il rifiuto di pagare contributi finanziari in favore della Chiesa può essere interpretato legittimamente come un segno di non-adesione o di non-appartenenza alla Chiesa, allora un problema si pone: perché le Chiese dell’Europa centrale insistono sul carattere giuridicamente obbligatorio delle imposte, malgrado il fenomeno delle dimissioni, e perché le sanzionano con pene canoniche? Si pensa che le Chiese temono che l’abolizione del carattere obbligatorio sia fatale alle loro finanze, oppure si pensa che esse mantengano le imposte obbligatorie perché le considerano elemento atto ad offrire un’indicazione sufficientemente chiara per dare un giudizio sull’appartenenza dei fedeli?

La prima ipotesi non può essere presa seriamente in considerazione, anche se si deve riconoscere che essa gioca un ruolo importante dal punto di vista emozionale e psicologico. Essa sarebbe troppo grave per l’autenticità del rapporto tra le Chiese e i fedeli. La seconda ipotesi è la sola possibile, ma se ne deve verificare la consistenza oggettiva. Infatti sembra andare contro la tradizione della Chiesa universale, che si è sempre mostrata non solo molto prudente nell’impostazione dei contributi generalizzati a tutti, ma anche molto restia nella penalizzazione dei fedeli non-contribuenti. Non si tratta, evidentemente, di negare il diritto della Chiesa di esigere contributi finanziari dai propri fedeli, ma di saperlo cogliere nella sua dimensione teologica specifica. Questo sforzo deve essere compiuto ugualmente per il principio dell’obbedienza, dal momento che l’obbedienza all’autorità ecclesiale non ha il medesimo fondamento né le medesime implicazioni dell’obbedienza all’autorità dello Stato.

La dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa si rivela come estremamente complessa in quanto profondamente dipendente dal sistema di rapporti esistenti tra le Chiese e lo Stato, nei paesi dell’Europa centrale. Ne risulta che la difficoltà nella valutazione canonica dell’atto di dimissioni dalla Chiesa deriva da parecchi elementi. Da una parte, dal fatto che il diritto canonico comune e di conseguenza la riflessione teologica a livello di Chiesa universale non prevedono la possibilità di dimissioni dalla Chiesa così come è conosciuta nelle Chiese particolari dell’Europa centrale. D’altra parte, dal fatto che le dimissioni dalla Chiesa sono parte integrante del sistema che regge il rapporto tra la Chiesa e lo Stato in questa stessa regione culturale. Ci si trova dunque davanti a due differenti origini del problema che, all’occorrenza, sono molto difficili da separare: l’origine canonica e l’origine ecclesiastica. Anche se ciò può sembrare artificiale, bisogna distinguere le due dimensioni del problema prima di riunirle per farne la sintesi.


II. L’aspetto canonico del problema

  1. Analisi della normativa canonica vigente
  2. A) Le dimissioni dalla Chiesa

Il CIC del 1917 non prevede per il cristiano la possibilità di dimettersi dalla Chiesa di Cristo. La teologia sacramentale lo vieta affermando che il battezzato è incorporato per sempre a Cri-

392 SEZIONE II: QUESTIONI DI DIRITTO COSTITUZIONALE sto. La dottrina del «character indelebilis» ha tentato bene o male di dare una spiegazione a questa verità dogmatica, profondamente radicata nella tradizione della Chiesa.

Il cristiano non può sottrarsi all’appartenenza a Cristo, così come l’uomo non può sottrarsi al fatto di appartenere al Padre che lo ha creato.

L’appartenenza a Cristo originata dal Battesimo implica l’appartenenza alla Chiesa. Il Battesimo è il sacramento costitutivo di questa appartenenza e la «janua» di tutti gli altri sacramenti[9]. E vero che tutti gli uomini appartengono al Cristo redentore, poiché questi ha versato il suo sangue per la salvezza della moltitudine. Ma dal momento in cui questa appartenenza è stata consacrata dal sacramento del Battesimo, che presuppone la fede, non è più possibile regredire al livello antecedente. Così come non c’è regressione possibile dal livello soprannaturale a quello naturale[10], non c’è più ritorno possibile dal livello sacramentale a quello non-sacramentale, dal livello dell’appartenenza all’unica Chiesa di Cristo a quello della non-appartenenza. È ciò che esprime il principio «semel christianus, semper christia- nus». Persino gli apostati che, per definizione, hanno perso ogni fede cristiana e non appartengono più a nessuna Chiesa e comunità ecclesiale specifica, restano tuttavia membri della sola e unica Chiesa di Cristo.

D’altra parte, il principio «semel catholicus, semper catholi- cus» non ha valore assoluto. Esso è applicato dalla Chiesa cattolica in certi settori del suo ordinamento giuridico, ma a titolo puramente disciplinare[11]. Ciò significa che è possibile passare da una confessione cristiana all’altra, senza tuttavia smettere d’appartenere alla sola e unica Chiesa di Cristo. Questa dottrina che è stata affermata dal Vaticano II, laddove ha riconosciuto l’esistenza di altre Chiese e di altre comunità ecclesiali separate, non è d’altronde nuova nella tradizione teologica cattolica. È già presente nel canone 87 del CIC, al quale corrisponde il canone 2225 sulla scomunica. Si tratta di due norme che trasmettono la tradizione ecclesiologica più antica, anteriore alla Riforma. Con il Battesimo, l’uomo è costituito persona nella Chiesa di Cristo e in essa gode di ogni diritto e dovere, nella misura in cui non è limitato nel loro esercizio da un impedimento (indipendente da errore personale) o da una censura (dipendente da errore personale) che lo priva della piena comunione.

Vi sono dunque due livelli d’appartenenza alla Chiesa: un livello costituzionale (irreversibile) e uno operazionale (mutevole), dove questa appartenenza subisce limitazioni per ciò che concerne l’esercizio dei diritti e dei doveri[12].

La novità profonda portata dal Vaticano II in questa dottrina tradizionale concerne esclusivamente il modo di valutare teologicamente e giuridicamente la situazione ecclesiale dei cristiani che non godono (o non godono più) della piena comunione nella Chiesa di Cristo.

Seguendo un’altra tradizione ecclesiologica di origine «controversista» e apologetica, posteriore alla Riforma, il CIC tende a considerare i cristiani separati (per esempio gli eretici e gli scismatici) in una prospettiva puramente individuale, senza saper localizzarli in un contesto ecclesiologico che non sia quello del soggettivismo riduttivo della setta. Il Vaticano II, invece, ha riconosciuto formalmente, come si è appena detto, l’esistenza di cristiani sacramentalmente incorporati nell’unica Chiesa di Cristo, ma appartenenti a gruppi ecclesiali separati dalla Chiesa cattolica, che hanno conservato la struttura oggettiva propria di una Chiesa o di una comunità ecclesiale.

Esiste perciò, secondo il Vaticano II, una realizzazione a gradi diversi della comunione con Cristo, resa esplicita dall’apparte-

 

nenza alla comunione ecclesiale che si realizza pienamente nella Chiesa cattolica, nella quale la Chiesa di Cristo sussiste, senza peraltro che si possa affermare l’esistenza, tra la Chiesa cattolica e la Chiesa di Cristo, di una identità tale che possa escludere le Chiese separate dall’appartenenza alla Chiesa di Cristo[13].

È nel progetto del nuovo codice del 1980 che le conseguenze giuridiche di questa dottrina sono state tratte. Contrariamente al CIC del 1917, le nuove norme generali prevedono, nel canone 11 § 2, che i cristiani appartenenti a una Chiesa o a una comunità ecclesiale separata non sono più sottomessi alle leggi puramente ecclesiastiche della Chiesa cattolica.

Questa norma, che rappresenta una svolta radicale nella storia del diritto canonico, non è tuttavia applicabile (secondo il § 3 dello stesso canone) ai cristiani che abbandonano la Chiesa cattolica senza tuttavia aderire ad un’altra confessione cristiana, cioè per gli apostati. Questi cristiani restano addirittura sottomessi, per principio, alle leggi puramente ecclesiastiche della Chiesa cattolica, salvo per alcuni casi previsti dalla legge stessa.

Il diritto matrimoniale del progetto per il nuovo codice del 1980 applica questa riserva a tre casi molto importanti. I cristiani battezzati nella Chiesa cattolica o accolti in essa sono esonerati dall’impedimento della disparità di culto (progetto, can. 1039 § 1), della forma canonica (progetto, can. 1072), e dalla interdizione dei matrimoni misti (progetto, can. 1078), nel caso in cui dichiarano, con atto formale, la propria defezione dalla Chiesa cattolica. Ciò significa che il Diritto canonico prevede, per il futuro, dei casi in cui una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa ha effetti liberatori globali (can. 11 § 2) o parziali (can. 1039 § 1, 1072, 1078) in rapporto alle leggi puramente ecclesiastiche (cioè umane) della Chiesa cattolica.

Contrariamente alle dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali, si tratta in questi casi di dichiarazioni che attingono al fondamento stesso della fede. Materialmente, l’effetto liberatorio non è prodotto dalla dichiarazione formale ma dalla defezione in quanto tale dalla fede cattolica. L’atto formale di dichiarazione di dimissioni (o l’iscrizione formale a un’altra comunità ecclesiale) non è costitutivo in sé. È richiesto innanzitutto per ragioni di certezza giuridica da un lato, dall’altro per limitare gli effetti giuridici stessi della defezione dalla fede (per gli apostati).

Bisogna da ciò concludere che nella nuova normativa canonica, un atto formale di dimissioni dalla Chiesa non è previsto né operante giuridicamente se non coinvolge nello stesso tempo il livello della fede. E dunque evidente che un atto di dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali non può essere messo «tout-court» in relazione con il fatto dell’appartenenza alla Chiesa. Dev’essere innanzitutto valutato come manifestazione della volontà di non voler assolvere certi doveri finanziari e, di conseguenza, sembra che non sia possibile punirlo con le stesse misure applicabili all’apostasia, all’eresia e allo scisma.

Per principio, ogni colpa grave implica una diminuzione della piena comunione. Tuttavia la Chiesa non le attribuisce rilievo a livello giuridico che nel caso in cui essa superi il livello puramente soggettivo per riversarsi nella sfera esteriore e sociale. Seguendo criteri oggettivi ma spesso anche convenzionali, dettati dalla coscienza ecclesiologica propria di un’epoca, la Chiesa fissa la scriminante fra livello soggettivo e livello oggettivo, rilevanti ai fini della non-comunione. La tecnica giuridica di questo intervento è nella maggior parte dei casi quella propria del diritto penale. Una colpa che implica una violazione esteriore della legge è qualificata come delitto e, per definizione, può essere colpita con pena[14].

Se ogni delitto implica, dal punto di vista sostanziale, una diminuzione della piena comunione, ciò nondimeno solo certi delitti sono considerati, in virtù della loro natura specifica, come delitti direttamente contrari allo statuto d’appartenenza alla Chiesa. Si tratta di delitti che, nella prospettiva teologica bellar- miniana, ledono uno dei tre legami costitutivi della Chiesa, il «vinculum symbolicum, liturgicum et hierarchicum». Il CIC tratta questi delitti nei canoni 2314 ss. dando loro il titolo di delitti scontra fidem et unitatem ecclesiae». Si tratta dell’apostasia, dell’eresia e dello scisma. I delitti contro il «vinculum liturgicum» sono previsti invece nei canoni 2320 ss.

  1. B) Dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa e scisma

Per l’esame della natura canonica della dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa che non implichino una negazione della fede personale, è inutile prendere in considerazione l’apostasia, che presuppone la negazione totale della fede, né l’eresia che implica la negazione di certe verità di fede. Il solo delitto che può essere preso in considerazione è quello dello scisma, che consiste nella rottura dell’unità con la gerarchia cattolica della Chiesa universale e particolare.

Tuttavia, il problema è complesso perché non è evidente l’esistenza di una distinzione adeguata tra eresia e scisma, e quindi che possa essere senz’altro affermata l’esistenza dello «schisma purum». La distinzione nella fattispecie è di natura formale: l’eresia concerne il contenuto della fede, lo scisma concerne la sottomissione alla gerarchia cattolica.

Dal punto di vista storico, gli scismi hanno quasi sempre avuto delle implicazioni dottrinali[15]. Tuttavia il problema non si pone a livello storico ma a livello sistematico. Infatti, l’unità non ha, nella Chiesa, una portata puramente morale e disciplinare: essa è costitutiva dell’essenza stessa della Chiesa. Essa appartiene di conseguenza come ogni altra verità al contenuto della fede: è una verità di fede. Nella professione di fede, si afferma infatti di credere nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Ne consegue che colui che credesse nell’esistenza di parecchie Chiese di Cristo dovrebbe essere considerato apostata. Dividere Cristo e la sua Chiesa sarebbe equivalente a una distruzione totale del fondamento stesso della fede. Ma già l’affermazione della legittimità dell’esistenza di parecchie confessioni ecclesiali, cioè di parecchie Chiese e comunità ecclesiali come manifestazioni ugualmente legittime dell’unica Chiesa di Cristo, implica una riduzione sostanziale della nozione di unità.

L’unicità della Chiesa di Cristo postula l’unità nella comunione. Ne consegue che la distinzione tra eresia e scisma non è adeguata. Infatti anche quando lo scisma non si accompagni con la negazione di altre verità, implica comunque la negazione di quella verità di fede che concerne l’unità della Chiesa. Pur riconoscendo la possibilità di una distinzione formale e sostanziale tra l’eresia e lo scisma, bisogna dunque concludere che quest’ultimo presuppone un cedimento oggettivo a livello di fede.

Il problema è sapere se le dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali (o analoghe) che non implicano un cedimento nella fede possono essere definite come scisma. Non mancano autori che lo sostengono, senza peraltro dare l’impressione di avere affrontato il problema in profondità[16]. La loro ipotesi è quella della possibilità dello «schisma purum», non nel senso storico ma nel senso teorico, per cui gli estremi dello scisma possono verificarsi anche quando l’atto di disobbedienza non implica la negazione di problemi di fede.

  1. C) Scisma e disobbedienza

Cionondimeno, le dimissioni fiscali dalla Chiesa rappresentano una disobbedienza nei confronti di essa e per ciò stesso coinvolgono la fede nell’unità. Ma questa disobbedienza può essere considerata come abbastanza grave da assumere l’intensità dello scisma? Esistono parecchie ragioni che permettono di negarlo.

Il C1C stesso distingue tra la disobbedienza che può essere definita come semplice e lo scisma, per il fatto che prevede, senza peraltro darne le ragioni dottrinali, due fattispecie penali differenti. Il can. 2331 prevede che una disobbedienza – nella misura in cui non raggiunge la qualifica propria allo scisma (can. 2314) – può essere punita dal Papa e dai Vescovi. Certamente non è sempre facile stabilire con precisione la differenza tra lo scisma e una semplice disobbedienza, dato che ogni scisma implica una disobbedienza e una disobbedienza semplice può portare allo scisma. Tuttavia, si può considerare come elemento costitutivo di differenziazione il fatto che la disobbedienza semplice non coinvolge in linea di principio l’autorità della gerarchia. Essa si oppone piuttosto a una decisione concreta della Chiesa senza contestare globalmente la sua autorità. Invece lo scisma mira per sua natura alla costituzione di una Chiesa alternativa. Anche se, a rigore, bisogna ammettere la possibilità teorica che lo scisma possa essere consumato da un atto individuale, non è tuttavia meno vero, come la storia dimostra, che esso tende alla costituzione di un’altra realtà ecclesiale autonoma e indipendente in rapporto a quella preesistente. Sembra essere un atto che si realizza nella sua pienezza solo al momento in cui si trasforma in atto collettivo di rottura di comunione con il Papa e con i Vescovi uniti con lui (can. 1325 § 2).

L’analisi del Diritto canonico particolare tedesco e svizzero porta alla conclusione che la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa non può essere assimilata al delitto di scisma, punito in diritto comune con la scomunica «latae sententiae speciali modo Sedi Apostolicae reservata» (can. 2314 § 1, 2).

Due sinodi diocesani tedeschi del dopoguerra, quello di Colonia del 1954 e quello di Treviri del 1959[17], riprendendo nella loro sostanza alcuni decreti diocesani del 1937, hanno colpito con la pena della scomunica riservata all’Ordinario i cattolici che – davanti a una istanza dello Stato – dichiaravano le loro dimissioni dalla Chiesa per motivi fiscali o per altre considerazioni similari (politiche), pur restando interiormente nella fede. Il sinodo di Basilea, nel 1956, ha introdotto in Svizzera la stessa norma, quasi negli stessi termini[18]. Questa norma particolare è stata poi ripresa nell’essenziale da tutte le diocesi in forza di una dichiarazione della Conferenza dei Vescovi tedeschi nel 1969[19]. Senza pronunciare esplicitamente la pena della scomunica, diventata forse obsoleta nel clima del dopo-Concilio, i Vescovi tedeschi colpiscono coloro che escono dalla Chiesa per ragioni fiscali con l’esclusione dalla vita sacramentale, che costituisce l’essenza della scomunica (can. 2260 § 1). Questi cristiani possono essere riammessi ai sacramenti solo dopo aver ritirato la loro dichiarazione e dopo essersi impegnati a far fronte ai loro obblighi finanziari.

Questa legislazione particolare lascia intendere che i Vescovi tedeschi e svizzeri, contrariamente a quanto sostengono alcuni canonisti[20], sono del parere che la fattispecie delle dimissioni dalla Chiesa non è prevista dal CIC e che pertanto non può essere assimilata allo scisma. Nel caso contrario, ne deriverebbe che le norme sinodali e la dichiarazione della Conferenza dei Vescovi tedeschi sarebbero contrarie al canone 2247 § 1, che proibisce ai Vescovi di colpire con una pena un delitto già previsto dal diritto comune del CIC. Alcuni autori giustificano questa legislazione delle Chiese particolari invocando il dubbio di diritto cui dà spunto una certa dottrina che ritiene le dimissioni dalla Chiesa non assimilabili allo scisma[21]. Questo dubbio di diritto renderebbe legali le pene promulgate dalle Chiese particolari, che troverebbero la propria legittimità nella competenza data ai Vescovi dal canone 2331 § 1, 2 di punire gli atti di disobbedienza. Ma allora si pone il problema della proporzione tra la scomunica prevista per lo scisma e l’esclusione dai sacramenti applicata per le dimissioni dalla Chiesa.

  1. D) La giustificazione teorica delle misure previste dal diritto particolare

Le ragioni principali invocate dalle Chiese e dalla dottrina per giustificare il sistema delle imposte ecclesiastiche obbligatorie e, conseguentemente, l’esclusione dai sacramenti dei cristiani che abbandonano la Chiesa allo scopo di sottrarsi al loro dovere fiscale, sono di natura generale e particolare.

Di ordine generale sono:

  1. a) il dovere di solidarietà nei confronti degli altri cristiani e degli impegni finanziari della Chiesa per realizzare i propri scopi pastorali, missionari, caritativi, ecc…;
  2. b) l’obbedienza alla Chiesa che, secondo il canone 1496, gode del diritto di esigere contributi finanziari dai propri fedeli.

Di ordine particolare sono:

  1. c) l’obbedienza alle scelte della Chiesa, che stima di poter assimilare il diritto che le è assicurato dal canone 1496 al diritto che le è concesso dallo Stato di percepire imposte ecclesiastiche obbligatorie;
  2. d) il fatto che questo sistema garantisce alla Chiesa la libertà e l’indipendenza nei riguardi dello Stato o di altri gruppi di pressione;
  3. e) il fatto che il sistema delle imposte, più di ogni altro, garantisce una ripartizione degli oneri che realizza il principio della giustizia, al quale la Chiesa sa di essere vincolata;
  4. f) il fatto che le imposte obbligatorie permettono, in una struttura economica moderna, una pianificazione sicura dell’attività ecclesiale;
  5. g) il fatto che la forza finanziaria della Chiesa, garantita dal sistema delle imposte, le permette di assicurarsi in proprio certi impegni sociali e culturali e di limitare così il «trend» monopolizzante dello Stato.

Per quanto concerne più in particolare la legittimità delle misure penali, si fa valere il principio giuridico secondo cui i «diritti fondamentali» del cristiano possono essere esercitati solo nella misura in cui gli stessi doveri fondamentali sono rispettati[22].

E evidente che queste motivazioni non hanno tutte lo stesso valore, né teologico né razionale, e che si passa indebitamente dal livello teologico a quello storico e politico nella misura in cui le argomentazioni teologiche vengono applicate impropriamente a tutta la problematica inerente al sistema delle imposte obbligatorie delle Chiese particolari: sistema sconosciuto a livello della Chiesa universale.

  1. E) Il fondamento teologico

del diritto patrimoniale della Chiesa

Per capir meglio la portata esatta dei principi più strettamente teologici, conviene esaminare gli elementi ecclesiologici e storici che sono alla base della loro formulazione, pur mettendoli in rapporto col contesto del diritto patrimoniale canonico vigente. La prima constatazione che si impone è che né il CIC né l’ultimo progetto di revisione del Diritto canonico (1980) fondano esplicitamente il dovere del cristiano di contribuire ai bisogni finanziari della Chiesa sul principio della solidarietà. La dichiarazione della Conferenza dei Vescovi tedeschi introduce di conseguenza un elemento nuovo di cui si può rintracciare l’origine nello spirito del Concilio Vaticano II, ma che tuttavia non corrisponde esattamente al principio fondamentale su cui la Chiesa primitiva aveva edificato il proprio regime patrimoniale, che ci sembra essere, più giustamente, il principio della comunione[23]. Ad ogni modo, il principio di comunione dei beni è stato ridotto a ben poco dai cambiamenti sopraggiunti nella storia dei sistemi patrimoniali della Chiesa.

  1. a) L’evoluzione dei regimi patrimoniali fino all’introduzione delle imposte ecclesiastiche obbligatorie

L’analisi dei diversi regimi patrimoniali della storia della Chiesa mostra che i cambiamenti intervenuti non hanno soltanto provocato una modifica del rapporto economico e giuridico tra la Chiesa e i propri fedeli, ma anche un mutamento nella concezione stessa dei beni ecclesiastici[24].

La Chiesa primitiva non si considerava titolare dei beni che amministrava. Questo diritto spettava ai poveri. Evidentemente, la questione della titolarità non si poneva in un senso strettamente giuridico, ma piuttosto morale, per il fatto che la Chiesa non godeva sempre né dappertutto della personalità giuridica, nemmeno di diritto privato, per possedere in proprio dei beni[25]. Le

 

donazioni ricevute dalla Chiesa erano considerate come beni appartenenti ai poveri[26], anche se, dagli inizi, erano pure destinate al mantenimento del clero.

Il regime patrimoniale era un regime di donazione fiduciaria il cui carattere libero e volontario è stato esplicitamente sotto- lineato dai Padri della Chiesa[27]. Gli Atti degli Apostoli, del resto, testimoniano che i cristiani consideravano i loro beni privati come elemento integrante della loro vita di comunione[28].

Una regolamentazione più precisa delle collette e dei redditi sarà intrapresa dai Papi Simpliciano, Gelasio I e Gregorio I, nella seconda metà del quinto secolo, secondo il criterio della divisione in quattro parti: per la fabbrica della Chiesa, per i poveri e i pellegrini, per il Vescovo, per il clero[29].

Questa riforma, estesasi dalla provincia romana alle altre parti della Chiesa occidentale solo nell’ottavo secolo, testimonia una trasformazione in profondità del regime patrimoniale. Già riconosciuta come persona morale di diritto pubblico da Costantino e Teodosio, la Chiesa è diventata su vasta scala titolare di beni immobili (edifici e terre) e mobili[30]. Questo le permette di garantirsi redditi con la gestione privata dei propri beni patrimoniali.

Questa evoluzione che ha seguito la tendenza, comune a tutto il Medioevo, di far slittare i rapporti giuridici dalla sfera del diritto pubblico a quella del diritto privato, non ha pertanto messo fine all’attività caritativa nella Chiesa, che ha continuato a essere molto sviluppata durante questo periodo. Si ha così la nascita di un dualismo nella gestione dei beni ecclesiastici: da un lato l’attività caritativa, dall’altro il sostentamento della Chiesa sulla base dei diritti privati.

È difficile stabilire in quale proporzione i redditi di sostentamento dell’attività della Chiesa sono coperti dalla gestione di beni patrimoniali privati e dal libero contributo dei fedeli; è tuttavia certo che persino questi ultimi contributi non sono più garantiti dalla totalità dei fedeli, ma piuttosto da persone private o pubbliche, laici o appartenenti al clero, che spesso impongono sulle loro donazioni degli oneri che consistono in contro-prestazioni di natura religiosa o temporale.

A lato di questo nuovo cespite di diritto privato si sviluppa pure un cespite di diritto pubblico che ha il suo fondamento giuridico nel potere di sovranità ormai riconosciuto alla Chiesa: la «jurisdictio episcopalis». A dire il vero, già la Didaché[51], rifacendosi alla tradizione veterotestamentaria, fa allusione all’istituto delle decime e i Padri non hanno esitato a raccomandarle ai fedeli. Tuttavia, questo obbligo assume un carattere giuridicamente vincolante solo a partire dal quinto secolo. Le testimonianze di questa evoluzione non mancano: come per esempio quella dell’XI Sinodo di Cartagine (407), che chiede all’imperatore di nominare cinque funzionari per incassare le decime dei fedeli inadempienti[52]. Tuttavia, le decime saranno introdotte in Occidente su una base più estesa solo a partire dall’ottavo secolo. Non si tratta di imposte esatte dalla totalità dei fedeli, ma dal clero, dalle persone morali (benefici, fondazioni, ecc…) o dai laici usufruttuari dei beni appartenenti alla Chiesa.

Questa doppia evoluzione trasforma pure lo statuto dei beni della Chiesa. Il loro fine non è più soltanto ecclesiale, ma anche secolare, poiché essi garantiscono pure le rendite necessarie alla Chiesa nell’esercizio delle proprie funzioni politiche assunte nel sistema feudale, la cui espressione più naturale è quella dei principi-Vescovi.

I redditi di diritto privato o pubblico rappresentano a loro volta dei contributi dovuti come corrispettivo di prestazioni non solo spirituali ma anche temporali e politiche della Chiesa. Non bisogna meravigliarsi se, soprattutto nel secondo millennio, l’idea tradizionale che i beni della Chiesa sono quelli dei poveri si oblitera[33].

Questa complessa evoluzione va di pari passo con la rottura, nell’ottavo e nel nono secolo, della gestione unitaria, nelle mani del Vescovo, dei beni della Chiesa. E sostituita da una pluralità considerevole di soggetti giuridici, ecclesiastici e secolari, come per esempio la «mensa episcopalis», la «mensa capitularis», le fabbriche di Chiese, i benefici e le fondazioni d’ogni genere. Questo fenomeno, che riproduce nella Chiesa la struttura orizzontale propria del Medioevo, è stato provocato da diverse cause, come l’estensione territoriale delle diocesi nelle campagne, la comparsa del sistema dei benefici e di quello della Chiesa propria, il passaggio da un regime monetario a un regime essenzialmente naturale e terriero, la preoccupazione di salvare, disperdendolo, il patrimonio ecclesiastico dalle secolarizzazioni periodiche effettuate da parte dei laici.

Le due secolarizzazioni generali dei beni ecclesiastici, in Francia con la Costituzione Civile del Clero (1790) e in Germania con la «Reichsdeputationhauptschluss» (1803), hanno provocato in Europa centrale una nuova evoluzione nel regime economico della Chiesa. La scomparsa dei redditi della gestione privata o pubblica dei beni patrimoniali propri è stata in un primo tempo sostituita dalle «dotazioni» riconosciute alla Chiesa dallo Stato, come compensazione dei beni che questi si era appropriato[34]. Nel sistema della Chiesa di Stato, dove la Chiesa è considerata dallo Stato assolutista come una pertinenza della gestione statale e il clero come funzionario di Stato, quest’ultimo si incarica pure della gestione finanziaria della Chiesa[35]. Al regime fondiario e naturale succede anche nella Chiesa un regime monetario che, nei paesi di lingua tedesca, pone i presupposti per l’introduzione del sistema delle imposte ecclesiastiche[36].

L’introduzione generalizzata delle imposte ecclesiastiche obbligatorie in Germania (poi a poco a poco nei cantoni svizzeri) fu pure la conseguenza dell’inflazione enorme della moneta tedesca dopo la prima guerra mondiale che, per le finanze della Chiesa, è stata ancora più catastrofica della secolarizzazione del 1803. Altre circostanze generali hanno giocato un ruolo importante, come la straordinaria crescita della popolazione, che ha provocato un’estensione fino ad allora sconosciuta dei compiti pastorali della Chiesa in una società industrializzata e monetaria, diventata molto complessa nella struttura.

Dal punto di vista istituzionale, le imposte ecclesiastiche vere e proprie, riscosse dallo Stato a nome della Chiesa o da essa direttamente, trovano la loro origine nella progressiva separazione delle competenze tra Chiesa e Stato, iniziata con la rivoluzione liberale del 1848” e consacrata dalla Costituzione di Weimar (1919). La Chiesa è riconosciuta dallo Stato come corporazione di diritto pubblico, che gode di un potere di sovranità propria e del diritto di riscuotere imposte[38].

  1. b) La giustificazione teorica delle imposte ecclesiastiche
  2. aa) Influsso indiretto della teoria generale del diritto secolare – Un esame della teoria generale elaborata per spiegare e legittimare l’istituzione giuridica delle imposte come elemento fondamentale della gestione economica dello Stato, mostra che tale dottrina non è restata senza influenza sul rapporto patrimoniale tra le Chiese dell’Europa centrale e i loro fedeli.

La filosofia politica del contratto sociale o statale del secolo dei lumi ha introdotto la teoria dell’equivalenza, secondo la quale le imposte non sarebbero se non la contro-prestazione dei servizi e della protezione offerti dallo Stato. Il rapporto tra lo Stato e il cittadino è commercializzato secondo il criterio della prestazione e contro-prestazione: più il patrimonio privato protetto dallo Stato è grande, più il cittadino deve pagare delle imposte.

Nel xix secolo si impone una nuova teoria detta «realista», le cui fonti sono la filosofia greca e scolastica, secondo cui lo Stato non è una società fondata su un contratto, ma piuttosto una società per se stessa necessaria. Il cittadino non è più concepito come collaboratore, ma come un membro obbligatorio.

Lo Stato può, di conseguenza, costringere il cittadino a pagare delle imposte per il fatto stesso che è obbligato, per definizione stessa, a realizzare certi compiti comuni. La misura dei contributi dovuti da ciascuno diventa indipendente dai vantaggi di cui ogni cittadino può godere. L’idea che il contributo è un sacrificio in favore della collettività non è più applicabile perché le imposte sono dei contributi forzati che derivano dal carattere necessario dell’organizzazione statale39.

L’idea che la Chiesa è anch’essa un’organizzazione che garantisce delle prestazioni, non è estranea all’argomentazione secondo cui i diritti fondamentali possono essere esercitati solo a condizione che i doveri fondamentali siano adempiuti. Negli stessi documenti dell’episcopato tedesco emerge pure l’idea secondo cui i contributi dei fedeli devono essere in linea di principio uguali e dovuti da tutti, dal momento che i vantaggi sono uguali; idea che emerge pure nei documenti e nella dottrina già citati sopra.

Tale applicazione sia pure inconsapevole di una teoria filosofica e giuridica nei rapporti Chiesa-fedeli trova una fonte ancor più diretta nell’ecclesiologia di questo stesso periodo, che è l’ecclesiologia della «societas perfecta».

  1. bb) Influenza diretta delle fonti canoniche: lo «Ius Publicum Ecclesiasticum» (IPE) – Di fatto, il diritto patrimoniale canonico del CIC, ma anche quello dell’ultimo progetto di revisione del Codice, ha il suo sostegno teorico nell’idea della Chiesa come società perfetta.

Il cardine di tutto il sistema è il canone 1495 § 1, che proclama il diritto tradizionale della Chiesa di possedere liberamente e indipendentemente dal potere civile i beni temporali necessari ai propri fini. Da questo diritto primario deriva naturalmente il principio del canone seguente (1496) che riconosce alla Chiesa il diritto di esigere dai suoi fedeli, indipendentemente dal potere civile, i contributi necessari all’esercizio del culto, al mantenimento del clero, e alla realizzazione degli altri fini propri della Chiesa.

E vero che l’ultimo progetto di revisione del Codice (1980), pur riprendendo la stessa costruzione giuridica di base nei canoni 1205 e 1211, introduce due elementi nuovi: la menzione esplicita dell’obbligo di aver cura dei poveri (can. 1205 § 2) e il dovere dei fedeli di contribuire finanziariamente alla realizzazione dei fini comuni della Chiesa. Evidentemente, anche nel CIC del 1917, il dovere dei fedeli era implicitamente affermato. Ma, seguendo il modello statale, esso era sottinteso più come diritto della Chiesa di esigere delle quote che dovere originario dei fedeli, prioritario persino rispetto al diritto dell’autorità.

Ci si può chiedere se le correzioni di traiettoria introdotte nel progetto del nuovo Codice sono sufficienti per modificare in profondità il fondamento teorico mutuato dai parametri giuridici dello Stato. Infatti, la Chiesa è ancora concepita come società perfetta e necessaria, dove esiste un’organizzazione del potere incaricato di compiere in proprio dei compiti che superano sì le possibilità, ma ultimamente anche l’obbligo dei fedeli. In tale costruzione, la gerarchia è concepita come un’istanza incaricata di attuare compiti propri alla Chiesa, che i fedeli devono sostenere senza essere chiaramente considerati come soggetti portatori di una responsabilità loro spettante.

Basta gettare un colpo d’occhio sulla dottrina canonica che ha preceduto la promulgazione del CIC del 1917 per vedere come si è fatto giocare il parallelismo tra Chiesa e Stato. Georg Phillips, per esempio, non esita a scrivere che se lo Stato ha bisogno di beni materiali per i propri fini profani, per l’esercito, i propri funzionari, gli edifici pubblici, parimenti la Chiesa – così come ogni religione, come la ragione e l’esperienza insegnano – non può evitare di possedere dei beni temporali per celebrare il culto, per pagare il clero, e per costruire e conservare i propri edifici. Nonostante essa non sia un segno di questo mondo, essa è un segno in questo mondo. Tutti i cristiani hanno, di conseguenza, il dovere di dare una parte dei loro beni alla Chiesa, come lo fanno per lo Stato[40].

Il ricorso al diritto naturale appare pure con evidenza nei rappresentanti tipici dell’IPE. Il cardinale Felice Cavagnis, per esempio, stabilisce, senza preoccuparsi troppo, un parallelismo perfetto tra la Chiesa come società e lo Stato, fino a ridurre la questione patrimoniale a un rapporto di giustizia bilaterale. Per il fatto che la Chiesa dà ai fedeli dei beni che le appartengono in proprio, ha il diritto di ricevere delle controprestazioni. Scrive infatti: «Cum Ecclesia eiusque internas subdivisiones… sint societates hanimum quatenus tales, sequitur eas indigere bonis temporalibus. Ergo sequitur indigeat rebus temporalibus, cum- que societas ius habeat exigendi a suis media sibi necessaria, cum eadem aliunde non habet, cumque Ecclesia etsi a Deo habeat supernaturalia eaque de suo conferat fidelibus… sequitur eadem a fidelibus esse ei subministranda… Si sufficientes non sunt spontaneae oblationes, tune Ecclesia eas ex supra allegata principio, iure lege imponit… ut facit ipsa societas civilis, id est decimis et primitiis… »[41].

L’immagine della Chiesa come società perfetta di diritto naturale[42] porta a concepire il rapporto Chiesa-fedeli con gli stessi parametri del rapporto Stato-cittadini, cioè come fondato sulla giustizia naturale che, nello Stato di diritto, trova la sua espressione primaria nel principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Dal momento che tutti i cittadini hanno diritto alle stesse prestazioni, sono tenuti, in virtù della giustizia legale, a pagare le imposte, e in virtù della giustizia distributiva, a pagare in misura proporzionale. I principi dell’uguaglianza e della giustizia implicano quello della coercizione. La ripartizione dell’ingiustizia provocata da un comportamento illegale causa in modo inevitabile la necessità della coercizione.

  1. Ricerca di un nuovo fondamento del diritto patrimoniale
  2. A) La «communio»

come principio strutturale della Chiesa

In quanto realtà sociale, la Chiesa non è retta dal principio della giustizia naturale ma da quello della giustizia di Dio che trova la sua traduzione istituzionale nella struttura sociale della «communio Ecclesiae et Ecclesiarum». Al livello del rapporto patrimoniale Chiesa-fedeli, la «communio» infrange la logica fiscale della contribuzione (fiscalizzazione). Essa tende infatti a rovesciare il rapporto. Il principio prioritario non è il diritto della Chiesa di esigere contributi, ma il dovere dei fedeli di dividere una parte dei loro beni con gli altri fedeli. Il presunto diritto naturale della Chiesa d’esigere contributi e il presunto dovere naturale dei fedeli di contribuire, è senz’altro meno forte del dovere e diritto derivanti dalla comunione che esige una compartecipazione, non solo ai beni spirituali, ma anche ai beni materiali.

Questa dimensione teologica sottrae il problema alla logica della giustizia legale e distributiva che, sul piano fiscale, innesca una reazione a catena. I fedeli che rifiutano di pagare il loro contributo fiscale (giustizia legale) o di pagarlo nella sua entità (giustizia distributiva), obbligano gli altri a pagare di più. Per evitare tale spirale di ingiustizia, diventa necessario intervenire con la coercizione, il cui scopo è pure quello di garantire una base contributiva la più estesa possibile.

La logica della comunione è differente, dal momento che considera la divisione libera dei beni non come un sacrificio o un obbligo imposti in nome della giustizia naturale, ma come uno stimolo ad arricchirsi nella fede col donare agli altri. L’eventualità di dover contribuire in misura maggiore, per omissione del pagamento da parte degli altri, non può essere considerata come un’ingiustizia, ma come una sollecitazione a lasciarsi coinvolgere ancor più nella logica della comunione. La giustizia ecclesiale si realizza nella dinamica della comunione, anche se dal punto di vista della ragione umana naturale ciò può sembrare illogico ed iniquo.

I  presupposti di questa dinamica non possono essere, evidentemente, che quelli della libertà nell’adesione al principio di comunione. La comunione è fondata sulla libertà. Infatti, la Chiesa non è una società naturale necessaria come lo Stato. Essa è necessaria, ma per la salvezza. Nell’economia normale del mistero di Cristo, bisogna aderirvi, ma senza coercizione alcuna.

II  problema qui sollevato è ancora una volta quello di sapere se, in una logica di comunione, è possibile far dipendere l’appartenenza o l’adesione alla Chiesa dal compimento di un dovere come quello del conferimento in comune dei beni. Si tratta di un dovere importante, la cui violazione comporta senza dubbio delle implicazioni anche sul piano giuridico. Tuttavia, una reazione coercitiva e penale si impone come necessaria o inevitabile solo quando si affronta il problema con i parametri propri della dottrina generale del diritto tributario statuale, fondato sul principio dell’equivalenza o su quello del carattere necessario e quindi sovraordinato dello Stato. Se, invece, si considera l’obbligo di contribuire ai bisogni della Chiesa come un dovere di comunione, bisogna ammettere la possibilità e persino l’opportunità per la Chiesa di esercitare la tolleranza in questo campo, dove l’uomo è coinvolto più direttamente che in altri campi della sua vita privata. La comunione, in quanto principio organizzativo ed etico dell’esperienza cristiana, pur essendo in se stessa più cogente della giustizia naturale, ne supera però i limiti. Essa non ha, come quest’ultima, la pretesa di doversi realizzare pienamente per esistere. Ne è prova il fatto che la «communio Ecclesiae et Ecclesiarum», come si è visto, si realizza per gradi differenti.

Esistono certo dei casi limite dove la comunione subisce una degradazione al punto di diventare una non-comunione. Col suo diritto penale, la Chiesa ha cercato, con più o meno successo nel corso della storia, di fissare i limiti prevedendo la pena della scomunica. Ma bisogna tener conto del fatto che la scomunica non realizza necessariamente la nozione di pena così com’è propria della teoria generale del diritto. È piuttosto – al di là dei contenuti giuridici che la Chiesa ha potuto darle – la constatazione di un fatto o di una situazione ecclesiale, che un mezzo di coercizione[45]. Il carattere «medicinale» della scomunica, proprio di tutte le censure, non può essere confuso col carattere coercitivo della pena. Con il constatare o il dichiarare un fatto (la scomunica) e con il collegarvi delle conseguenze (l’esclusione dai sacramenti), la Chiesa non intende costringere, nemmeno a livello spirituale – per quanto la coercizione sia possibile «in spirìtualibus» -, ma piuttosto attirare l’attenzione del fedele e degli altri su una situazione soggettiva e oggettiva di disordine ecclesiale, cioè di non-comunione. Lo scopo è di stimolare il fedele a convertirsi nella libertà.

  1. B) II principio della «proporzionalità» della pena

Anche se si volesse considerare la scomunica come una pena, nel senso stretto della teoria generale del diritto secolare, la questione fondamentale della proporzionalità tra il delitto e la pena continuerebbe a porsi. E sotto due aspetti diversi: diretta- mente, per il rapporto tra il delitto e la pena corrispondente; indirettamente, per il rapporto che deve esistere tra l’insieme dei delitti e le diverse pene. Si tratta di un problema sia di giustizia che di coerenza legislativa a un tempo.

L’esame della storia del diritto patrimoniale della Chiesa e dei rapporti instaurati tra la Chiesa e i fedeli in questo settore, ha mostrato che la Chiesa ha sempre evitato di considerare questo rapporto come un momento vitale per l’appartenenza alla Chiesa.

Essa ha sempre stimato che quello che non è dato dagli uni è dato dagli altri, in uno spirito innato di povertà. Questo rapporto è evidentemente cambiato quando si è trasformato in un rapporto di diritto privato o di diritto pubblico informato da una concezione naturale della giustizia, senza mai coinvolgere però la maggioranza dei fedeli. La tradizione della Chiesa non ha quasi mai considerato la violazione del dovere generale del cristiano di condividere (parzialmente) i propri beni con la comunità dei cristiani come un delitto punibile in sé. Di questa tradizione è testimone ancora una volta il CIC che, pur affermando il diritto della Chiesa di esigere contributi finanziari dai propri fedeli, non ha voluto sancirlo al punto di comminare pene contro i trasgressori.

Il problema penale, invece, si è posto acutamente nelle Chiese particolari, dove il rapporto patrimoniale – a causa di un certo sviluppo storico specifico, ma pure a causa deH’influenza dello Stato e del protestantesimo, che ha lasciato che lo Stato gestisse l’aspetto patrimoniale della Chiesa – si è trasformato in rapporto di natura fiscale.

In questo sistema, non si può nascondere che criteri propri del diritto naturale e del diritto secolare si sovrappongono a criteri tipici del Diritto canonico[44].

Ciò è sufficiente per capire come l’esclusione dai sacramenti – equivalente in pratica a una scomunica – superi i limiti della proporzionalità. E una sproporzione che appare ancor più evidente se si fa il confronto con altri delitti colpiti dalla scomunica. Una delle critiche sollevate molto spesso contro il diritto penale del CIC non ha forse, ed a ragione, preso di mira le sproporzioni esistenti a livello delle pene?[45] E uno dei meriti più evidenti del nuovo progetto di diritto penale non è forse quello di aver ridotto radicalmente il numero delle pene, soprattutto delle pene «latae sententiae», e di aver colpito con le pene più severe, come la scomunica, soltanto i delitti più gravi dal punto di vista ecclesiologico?

Il tentativo di alcuni autori di assimilare ad ogni costo la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali, al delitto di eresia o di scisma[46], svela abbastanza chiaramente come essi non osino considerare il solo rifiuto di pagare le imposte un delitto sufficientemente grave in sé da giustificare l’esclusione dai sacramenti.

Non si può nascondere che il rifiuto di pagare le imposte si concretizza con un atto formale di dimissioni dalla Chiesa, non in virtù di una propria dinamica fisiologica, ma in virtù di un elemento estrinseco, imposto dalla logica propria del sistema di rapporti Chiesa-Stato. A causa di questo elemento esterno, il rifiuto di pagare contributi finanziari – in sé fenomeno molto dif-

 

fuso nella Chiesa universale – si trasforma in atto ultroneo, per sua natura molto più grave, al punto da integrarlo nelle fattispecie dell’eresia o dello scisma. Ed è proprio questo nuovo elemento che bisogna esaminare ora.


III. L’aspetto ecclesiastico del problema

  1. Il rifiuto di pagare le imposte e la dichiarazione formale di dimissioni

Il secondo elemento di cui bisogna tener conto nella valutazione canonica della dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali dipende dal diritto ecclesiastico. Il fenomeno – comune in tutta la Chiesa[47] – dei cristiani che, coscientemente o meno, non adempiono i loro doveri finanziari nei riguardi della Chiesa, assume il carattere di rifiuto esplicito e si manifesta, dal punto di vista giuridico, in una dichiarazione formale di dimissioni dalla Chiesa. Ciò unicamente in virtù della dinamica propria al sistema di rapporti tra le Chiese particolari dell’Europa centrale e lo Stato.

Una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa, se fosse presentata direttamente alla comunità ecclesiale come istituzione di Diritto canonico, non potrebbe, in sé, essere interpretata altrimenti che come un atto d’apostasia, d’eresia, di scisma[48]. E evidentemente tenendo conto di ciò, che la Chiesa ha sempre evitato di porre i suoi fedeli davanti all’alternativa: pagare i contributi o dichiarare le dimissioni. Perfino nell’ipotesi che essa decida, in vista di adottare misure penali e disciplinari specifiche, di esigere una dichiarazione formale da parte dei cristiani, essa non dovrebbe limitarsi ad esigere una dichiarazione di non-compimento del dovere fiscale. Esigere una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa sarebbe sproporzionato perché non è possibile, come si è visto, trattare un delitto di ordine fiscale come un delitto contro l’appartenenza alla Chiesa (apostasia, eresia, scisma).

Siccome la volontà di non pagare le imposte dev’essere dichiarata, per diritto ecclesiastico, davanti a un’autorità statale, ne consegue che la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa supera largamente le intenzioni ecclesiali del dichiarante. Di più, il rifiuto di pagamento assume apparentemente anche il carattere di un atto pubblico di rinnegamento della fede. E precisa- mente in base a questa circostanza che la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa viene apparentemente a coincidere con le due situazioni giuridiche del canone 1325 § 1 e 2.

Il paragrafo 2 definisce gli elementi costitutivi dell’apostasia, dell’eresia e dello scisma. Il paragrafo 1 esige dal fedele che professi apertamente la propria fede quando il silenzio, la tergiversazione o il comportamento possano essere interpretati come una negazione implicita della fede o provocare scandalo[49]. Alcuni autori vedono nella dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa una violazione del paragrafo 1. Per sostenere la loro tesi, fanno appello al caso dei «lapsi» nella Chiesa antica, o a documenti del magistero, antecedenti o posteriori al CIC. Si tratta di documenti dove si qualifica come apostasia la negazione della fede «coram magistratii civili»™ e dove si dichiarano apostati – almeno per il «.forum externum» – i cristiani che, pur restando interiormente nella fede, cedono esteriormente a pratiche religiose islamiche[51] o pagane[52].

Questi autori non tengono conto del fatto che lo Stato, nei paesi dell’Europa centrale, quando riceve una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa, non intende esigere una professione di fede. Si tratta infatti di uno Stato non confessionale che, in base alla propria costituzione, deve rigorosamente rispettare la neutralità religiosa. Il suo fine è di compiere una funzione amministrativa per conto della Chiesa, senza erigersi a giudice delle intenzioni confessionali del cittadino e senza volerle influenzare. In queste condizioni non si dovrebbe attribuire alla dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa una valenza religiosa – anche se fatta in virtù del principio della libertà di coscienza -, ma solo statistica o amministrativa. Se si tien conto seriamente della neutralità religiosa dello Stato, e anche se nel concreto l’appartenenza a una Chiesa – in quanto corporazione di diritto pubblico statale – è prevista per legge, non si può evitare (dal punto di vista canonico) di pensare che lo Stato è semplicemente incaricato di fare il censimento dei cristiani che, in base alla legge, sono tenuti a pagare le imposte ecclesiastiche, e di costringerli a farlo nel caso in cui non dichiarino le loro dimissioni.

Una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa non ha maggior valore confessionale per lo Stato moderno della dichiarazione di appartenenza a una religione in un censimento, anche se ha conseguenze giuridiche più vaste. Nessuno si azzarderebbe a perseguire canonicamente un cristiano che, stimando lo Stato incompetente nel porre domande concernenti la religione, si dichiarasse «senza confessione» o «ateo» nella scheda di censimento. Ogni riferimento al caso dei «lapsi», ai quali l’imperatore, in quanto «summus pontifex» dell’impero romano, richiedeva una confessione religiosa, è fuori luogo. Certamente, resta il problema dell’eventuale scandalo. Da un lato, è evidente che lo scandalo potrebbe a sua volta essere fondato su una falsa concezione dell’essenza della dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa, e della funzione che lo Stato moderno confessionalmente neutro svolge nel prelevare le imposte ecclesiastiche. D’altro canto, bisogna tener conto del fatto che la violazione del dovere di confessare la fede imposto dal canone 1325 § 1 non è neppure sanzionata da alcuna pena canonica. Ne consegue «a fortiori» che la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa è difficilmente assimilabile alla violazione di questo dovere, pur restando eventualmente, per altre ragioni, un atto riprovevole sul piano ecclesiale.

  1. Chiesa e corporazione di diritto pubblico

Rimane un ultimo aspetto della questione di cui bisogna tener conto nella valutazione del problema: il significato che lo statuto di corporazione di diritto pubblico delle Chiese centroeuropee assume dal punto di vista religioso. Le dimissioni dalla Chiesa dichiarate davanti alla corporazione di diritto pubblico o direttamente davanti allo Stato possono essere considerate dal punto di vista teologico alla stregua di una dichiarazione fatta davanti alla Chiesa in quanto istituzione di Diritto canonico?

Se la risposta fosse positiva, bisognerebbe allora ammettere la possibilità – almeno in base al Diritto canonico particolare – che il rifiuto esplicito di pagare le imposte si trasformi nel «forum externum» in una vera e propria dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa, con tutte le conseguenze sul piano canonico. La scomunica o l’esclusione dai sacramenti, pronunciata dal Diritto canonico particolare delle Chiese dell’Europa centrale, sembra evidentemente avere come presupposto questa possibilità. Un delitto (il rifiuto di pagare i contributi) si trasforma, in virtù delle circostanze politiche e giuridiche (lo statuto di diritto pubblico della Chiesa), in un delitto di specie diversa e molto più grave (negazione aperta della fede e dell’appartenenza alla Chiesa). Dato che il principio della proporzionalità impedisce di punire delitti di natura e gravità differenti con la stessa pena, bisognerebbe concludere che una situazione di fatto (cioè lo statuto di diritto pubblico della Chiesa), del tutto indipendente dalla volontà del «reo», gioca un ruolo più grande di quello delle circostanze aggravanti, tanto da cambiare la natura stessa del delitto. Il che non può non apparire paradossale. Ma vediamo ora di analizzare questo problema distinguendo la situazione istituzionale propria della Svizzera da quella della Germania.

  1. A) La situazione nei Cantoni svizzeri

In Svizzera, dove il regime di base nel rapporto Chiesa-Stato è ancora quello del «giurisdizionalismo» moderato[53], non c’è identità tra la Chiesa di diritto pubblico riconosciuta dallo Stato, sia a livello parrocchiale («Kirchengemeinde»), che a livello cantonale («Landeskirche»), La dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa – anche se fosse dettata da un venir meno della fede – non può mai essere valutata giuridicamente come una dichiarazione pronunciata davanti alla Chiesa stessa. Il solo interlocutore possibile del cristiano nel dominio della fede è la Chiesa. Nessun’altra istanza può sostituirla. Una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa rivolta alla corporazione di diritto pubblico dev’essere considerata canonicamente come una «res inter alios acta». Analogamente, il rifiuto di pagare le imposte come motivo primario della dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa non è perpetrato in questo sistema, «in facie Ecclesiae», ma nei confronti della corporazione di diritto pubblico, cioè del «comune ecclesiastico» o della «Chiesa cantonale».

Dato che la corporazione di diritto pubblico è un ente di diritto statale e non di Diritto canonico, è possibile, come sostengono alcuni autori, operare con l’istituto giuridico della «canonizatio»?[54] Secondo la dottrina, esistono una forma lata e una forma propria di «canonizatio»[55]’’. La prima si realizza quando delle norme concordatarie sono promulgate dalla Chiesa e ricevono con questo atto la loro sanzione canonica interna; la seconda si realizza quando la Chiesa rinuncia a fare una legge propria e dichiara una legge emanata da una fonte esterna (per esempio, lo Stato) come norma applicabile a livello canonico. Il caso più tipico di «legis canonizatio» è quello del canone 1529 concernente i contratti[56].

Anche se si prescinde dal fatto se le diverse corporazioni di diritto pubblico nei cantoni svizzeri abbiano o meno una base

 

concordataria, sembra difficile applicare la «canonizatio» in senso stretto. Infatti, non si tratta soltanto di recepire con la «canonizatio» una legge, ma di riconoscere un ente di diritto statale che ha una propria sfera di sovranità. Pertanto si giungerebbe a canonizzare non solo la legge, ma la fonte stessa della legge. Tale fonte diventerebbe un elemento integrante della costituzione stessa della Chiesa.

Secondo la concezione cattolica, il comune parrocchiale (.Kirchengemeinde) e la Chiesa cantonale (Landeskirche) non possono essere considerate come enti costituzionali della Chiesa in quanto istituzioni di Diritto canonico. E facile prevedere che lo Stato stesso sarebbe contrario a questa interpretazione. Le corporazioni di diritto pubblico statale sono infatti istituzioni di mediazione nel rapporto Chiesa-Stato ma nel contempo enti di controllo dello Stato su alcuni settori della vita ecclesiale, come per esempio quello patrimoniale. Canonizzare una fonte giuridica e politica esterna significherebbe riconoscerle una funzione giurisdizionale diretta sui fedeli.

La Chiesa può storicamente accettare dei compromessi ma non può o non dovrebbe abdicare alla propria autorità, né sacrificare il «diritto fondamentale» del cristiano di essere governato e giudicato, nelle questioni che concernono la fede e il rapporto con la comunità dei cristiani, dalla sola Chiesa.

  1. B) La situazione in Germania federale

La situazione è diversa in Germania, per il fatto che la Chiesa stessa, in quanto istituzione di Diritto canonico, è riconosciuta dallo Stato come avente uno statuto di diritto pubblico. Ciononostante, la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali non ha come destinatario reale la Chiesa in quanto istituzione di Diritto canonico, ma la Chiesa in quanto corporazione di diritto pubblico. Anche se tale distinzione formale può sembrare sottile, la Chiesa non può ignorarla nella valutazione della dichiarazione di dimissioni.

Infatti, i fedeli dispongono di una stessa formula di dichiarazione per raggiungere due scopi profondamente differenti nel loro significato: il rifiuto di pagare le quote alla Chiesa cattolica della quale vogliano restare membri, e le dimissioni dalla Chiesa in quanto istituzione di diritto pubblico statale. In realtà, il solo scopo sostanziale è il primo. Se i fedeli sono lesi nella loro libertà e possibilità di manifestare la loro volontà, lo sono per la dinamica propria del sistema di relazioni Chiesa-Stato, che non può o non vuole ammettere altre forme di dichiarazione che le pure e semplici dimissioni dalla Chiesa[57].

Gli argomenti (avanzati per giustificare questo sistema e le misure penali che lo proteggono, che si appoggiano sull’identità tra la Chiesa e la corporazione di diritto pubblico) fondano sul fatto che tale identità è il modello giuridico concreto che, nella società tedesca attuale, la Chiesa ha scelto per se stessa. Ciò è vero, ma se ne traggono conseguenze improprie.

I fedeli devono prendere atto di questa identità giuridica e storica prima di agire in modo contrario alle indicazioni della Chiesa, ma, sul piano penale, la Chiesa non può ignorare che tale statuto giuridico provoca la confusione di due sistemi profondamente diversi: il sistema canonico e il sistema statale. Questa mescolanza non solo toglie ai fedeli la possibilità di esprimere con tutta la precisione necessaria la loro posizione nella fede e la loro volontà giuridica nella Chiesa. Rischia pure di togliere alla Chiesa la lucidità necessaria nella valutazione del comportamento dei suoi fedeli.

Detto ciò, è chiaro che bisogna essere molto prudenti con l’argomento della «canonizatio». Una «canonizatio» in senso lato si è certamente verificata per il tramite dei concordati tedeschi che confermano le norme costituzionali concernenti il diritto delle Chiese di riscuotere imposte ecclesiastiche[58]. Ma si può dubitare che nella fattispecie si possa parlare di una «canonizatio» nel senso stretto del termine. In realtà, è la Chiesa che, da una parte, legifera in proprio in materia fiscale, ma, facendo ciò, adotta pure dei criteri propri al sistema e alla mentalità del diritto tributario statale, come per esempio il principio del ca-

rattere obbligatorio delle imposte e della esigibilità; d’altra parte, essa si limita a tirare le conseguenze sul piano canonico di un atto che avviene tra i suoi fedeli e lo Stato.

Anche in Germania, il destinatario della dichiarazione di dimissioni non è la Chiesa come tale, nemmeno in quanto corporazione di diritto pubblico, ma direttamente lo Stato, rappresentato dai suoi tribunali o dalle sue istanze amministrative. Ciò vuol dire che anche in Germania la dichiarazione di dimissioni per ragioni fiscali è a rigore una «res inter alios acta», pur avendo effetti giuridici sul piano patrimoniale all’interno della Chiesa. Il solo elemento di cui la Chiesa potrebbe tener conto sul piano del suo diritto penale è il rifiuto di adempiere all’obbligo delle imposte, ma non la dichiarazione come tale di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali che «ex se» non implica né un grave cedimento di fede, né, a rigore, una ritrattazione formale dell’appartenenza alla Chiesa in quanto istituzione canonica.


IV. Conclusione

  1. A proposito del rapporto patrimoniale

Per poter offrire una valutazione canonica della questione delle dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali, bisogna sistemarla nel quadro più generale del fondamento ecclesiologico del sistema patrimoniale della Chiesa.

La Chiesa è libera nel suo rapporto «ad extra» di scendere sul terreno, comune a tutti gli uomini, del diritto naturale, se essa constata che questo è il solo mezzo di entrare in dialogo con lo Stato e di essere riconosciuta nel concerto della società internazionale come soggetto giuridico autonomo. In questo senso, il canone 1495 del CIC mantiene una propria giustificazione.

«Ad intra», invece, essa non può fondare il rapporto patrimoniale con i propri fedeli senza tener conto del fatto che la dottrina della società perfetta elaborata daH’IP£ è diventata obsoleta dopo il rinnovamento ecclesiologico moderno. Il cristiano, oggi, è cosciente del fatto che la Chiesa è una società, ma anche del fatto che la Chiesa è una società dalla struttura ben diversa da quella dello Stato, la quale non è confrontabile, nemmeno per analogia, a quella della «communio Ecclesiae et Ecclesiarum» ”. Tale struttura, che appartiene al «mysterium fi- dei», non deriva da nessuna forma d’associazione umana di diritto privato o pubblico conosciuta nella storia: essa ha come modello e principio informatore la struttura sacramentale dell’Eucaristia.

Non essendo una società necessaria, cioè una «Zwangsgesell- schaft» come lo Stato, non ci sono nella Chiesa fini che dovrebbero essere perseguiti dalla gerarchia e che non siano al contempo comuni a ciascun fedele. Il soggetto portatore di questi fini comuni non è la gerarchia in quanto tale, ma tutto il popolo di Dio a cui anche la gerarchia appartiene. Altrimenti rischierebbe di essere sottomessa agli stessi meccanismi di rappresentazione propri dell’organizzazione statale. Ciò significa che i fedeli non sono, come i cittadini dello Stato, chiamati a versare delle quote per permettere a un soggetto che li rappresenterebbe secondo una ipostatizzazione astratta, e che è altro da loro stessi, di svolgere dei compiti che sorpassano non solo gli scopi individuali ma anche quelli della comunità come tale. Ciò non compromette per nulla il fatto che, nella Chiesa, le funzioni ministeriali e i mezzi per realizzarle sono nettamente differenziati[60].

Persino in certi settori della filosofia dello Stato, si assiste a una evoluzione progressiva in questa direzione, là dove la struttura del potere è sempre meno concepita come una personificazione dell’organismo sociale, ma piuttosto come un organo attraverso cui si esprime la volontà e la sovranità popolare[61].

Il rapporto patrimoniale tra la Chiesa e i suoi fedeli è fondato innanzitutto sul dovere di ogni cristiano di dividere in parte i propri beni con gli altri, e in secondo luogo soltanto sul diritto della Chiesa di esigere da questi delle contro-prestazioni in cambio di prestazioni.

Il problema è allora di saper elaborare anche in questo campo, come per tutto il sistema giuridico canonico, una concezione globale a partire dalla struttura comunitaria della Chiesa. Il rapporto patrimoniale si manifesterà in questo caso come retto dallo stesso dinamismo della comunione proprio dei beni spirituali, come attestano gli Atti degli Apostoli.

Ciò non mette in discussione l’esistenza di quelle istituzioni giuridiche di base, di cui la Chiesa ha fatto sempre uso come di strumenti per strutturare in modo stabile il rapporto patrimoniale, come ad esempio quello della persona morale o giuridica. Ma è essenziale evitare di perdere il senso profondo di questo rapporto e di determinarlo sempre in funzione della fonte che è la struttura comunionale della Chiesa.

Se è vero che il problema è innanzitutto strutturale ed ecclesiologico, è tanto più urgente trarre delle conclusioni sul piano pastorale. Infatti, è ben diverso, per la formazione del cristiano e per la verità stessa dell’esperienza religiosa di tutta la comunità cristiana, sollecitare i fedeli a praticare la condivisione dei beni in nome della comunione che li unisce nel Cristo, ovvero domandare loro di pagare imposte in nome di una concezione dominante presa a prestito dal sistema tributario statale. Quest’ultimo si ispira, nella migliore delle ipotesi, alla nozione di giustizia – legale o distributiva – propria al diritto naturale.

Vi sono altre considerazioni razionali o derivate dal senso comune, spesso invocate per giustificare il sistema delle imposte ecclesiastiche, ma bisognerebbe badare a non attribuire loro una portata eccessiva. Una di queste consiste nel dire che le imposte garantiscono la possibilità di una pianificazione, ma nemmeno in questo caso può venir attribuito un peso decisivo. Infatti, è possibile pianificare sulla base di un sistema fiscale che non applica la costrizione e l’esecuzione forzata, come è possibile fare anche in un sistema basato sulle collette.

L’esperienza di altre Chiese particolari, come quella degli Stati Uniti che, grazie al proprio sistema finanziario, è stata forse, fra le Chiese particolari, quella che, in questi ultimi secoli, ha vissuto l’esperienza di comunità più profonda, è di testimonianza. Si può dire la stessa cosa dell’esperienza delle istituzioni tipiche delle Chiese d’Europa centrale, come V«Azione quaresimale», «Misereor», o, a livello della Chiesa universale, «Ca- ntas». Si tratta naturalmente di una pianificazione limitata dall’applicazione della previsione statistica.

Per l’applicazione del principio della pianificazione, bisogna evitare di condurre una politica parallela a quella dello Stato, nel quale la pianificazione è diventata lo strumento principale di ogni politica di potere[62]. Quel che interessa in primo luogo la Chiesa, non è l’espansione delle sue strutture nella società, ma la crescita reale dell’adesione dei fedeli ai valori della fede e della comunione.

Quest’ultima concezione ridimensiona anche l’idea che una Chiesa finanziariamente forte è capace di opporsi alla tendenza dello Stato a monopolizzare tutti i settori della vita sociale. Lo sforzo per la salvaguardia di un pluralismo sociale non può essere concepito dalla Chiesa come una lotta di potere concorrenziale, fondata sulla capacità di esprimersi con il potere finanziario. E vero che in una società industrializzata e a regime monetario come la società attuale, la disponibilità finanziaria è indispensabile per ogni progetto, ma è altrettanto vero che il mantenimento di una alternativa sociale in un mondo dominato dall’ideologia non ha nessuna possibilità di riuscita – soprattutto a lunga scadenza – se essa non diventa un’alternativa spirituale e culturale. Ora, la sola alternativa possibile da parte della Chiesa è di creare una presenza sociale fondata su una concezione della vita che trae la sua origine dall’esperienza della comunione.

Si pone allora la domanda se il sistema delle imposte ecclesiastiche rappresenti uno strumento pastoralmente efficace per tale compito. Potrebbe esserlo, se potesse sfuggire alla logica che lo domina, la logica fiscale, che si impone coattivamente. Ne consegue che il compimento del dovere fa perdere ogni potere creativo nei riguardi dello scopo e dei valori che lo giustificano.

Il valore non è in primo luogo di garantire la sopravvivenza di una «Chiesa popolare» («Volkskirche»)[63] finanziariamente e politicamente forte, la cui genesi permanente si situa nella matrice del diritto pubblico ecclesiastico piuttosto che nella matrice sacramentale. Ciò si rivela ancor più vero dal fatto che, a questo livello, la Chiesa subisce un condizionamento che può rivelarsi più profondo di quello che è esercitato da gruppi di pressione o, localmente, da persone isolate, nei regimi finanziari fondati sulle collette libere.

Oltre la considerazione secondo cui il sistema delle imposte obbligatorie permette alle Chiese particolari di impegnarsi sul piano universale col sostenere finanziariamente le Chiese più povere, è necessario porsi la domanda sul significato reale di tale sostegno a lunga scadenza. Bisogna ancora una volta evitare di cadere nelle insidie della logica «umanitarista», propria dei settori civile, pubblico e privato, dell’aiuto economico al terzo mondo.

Evidentemente, l’insidia reale da cui la Chiesa deve guardarsi non è quella dello sfruttamento nascosto della periferia da parte del centro, o del sud da parte del nord. E piu sottile. Il cristiano, come ogni uomo che divide i propri beni con gli altri senza arricchirsi realmente a livello morale o di fede, per il fatto che vi è obbligato dalla legge, rischia di non arricchire nessuno. La carità dev’essere, innanzitutto, un arricchimento nella fede personale di colui che la esercita, sotto pena di rimanere sterile e di non produrre nessun frutto nella comunione. Una Chiesa materialmente ricca ma spiritualmente povera non è, in ultima analisi – al di là di ogni apparenza -, capace di far crescere la Chiesa universale come alternativa spirituale e culturale al mondo. Ci si può allora chiedere se è più giusto applicare, come fanno certi autori, il «cui borio» a una Chiesa povera più che a una Chiesa ricca.

Nessuno, ad ogni buon conto, contesterà il fatto che le esperienze attuali di grande ampiezza delle collette libere, come quelle dell ‘«Azione quaresimale», di «Misereor» e di «Caritas», sono strumenti pastorali ben più efficaci del sistema fiscale. Si tratta di strumenti che garantiscono di per sé ai cristiani la possibilità di arricchirsi nella propria fede. Quest’arricchimento nella fede e nella carità non è sempre garantito per coloro che adempiono il proprio dovere fiscale.

Il secondo tranello è quello della coesistenza nella Chiesa di due dimensioni diverse: la dimensione fiscale e la dimensione della carità. La prima rappresenta la giustizia legale e distributiva d’ordine naturale, la seconda la comunione. La prima rappresenta un dovuto, la seconda l’eccedenza, come se la carità non fosse il solo elemento costitutivo e necessario dell’essenza della Chiesa[64].

Invocare la giustizia legale e distributiva a titolo di controprestazione necessaria per i servizi resi dalla Chiesa implica, da un canto, il rischio di far somigliare la Chiesa, agli occhi del cristiano, ad un apparato amministrativo e burocratico parallelo a quello dello Stato[65], e d’altro canto quello di far sviluppare dalla Chiesa stessa i bisogni della propria auto-gestione al punto di trasformarla in datore di lavoro «interessante», incaricato di realizzare il diritto fondamentale dell’uomo all’impiego e al lavoro.

Il cristiano, dilaniato da questo dualismo, sperimenta le difficoltà di vivere la Chiesa dal suo interno, sia perché essa presenta un duplice volto, uno dei quali è simile a quello dello Stato, sia perché il vero volto, quello della carità, si manifesta come un sovrappiù utile ma non già come una insostituibile necessità.

  1. A proposito del rapporto disciplinare

Esistono tre elementi che mettono in dubbio la fondatezza della scomunica o dell’esclusione dai sacramenti:

–  la pratica pastorale generalizzata nei Cantoni svizzeri di non dare esecuzione alla pena della scomunica emanata contro coloro che dichiarano le dimissioni per ragioni fiscali;

–  il fatto che i dimissionari stessi non esitano a chiedere alla Chiesa il sacramento del matrimonio, il Battesimo dei figli e l’accesso sia all’Eucarestia che ad altri sacramenti;

–  il fatto che la dottrina si preoccupa di spostare il più possibile il problema dell’applicazione della scomunica dal livello oggettivo al livello soggettivo – fino a correre il rischio, tipico del resto di tutto il sistema penale del CIC del 1917, di vanificare il valore del livello oggettivo[66] – sembra dare un giudizio sufficientemente negativo sulla fondatezza della scomunica e dell’esclusione dai sacramenti.

In mancanza dell’applicazione del principio della proporzionalità, la scomunica rischia di avere come unica giustificazione il fatto di essere una misura necessariamente postulata dal sistema fiscale in quanto tale, che a sua volta è indotto (per la verità non necessariamente) dalla logica del riconoscimento della Chiesa come corporazione di diritto pubblico statale. Sarebbe sufficiente dichiarare le «imposte ecclesiastiche» come non obbligatorie[67] per eliminare alla radice la necessità giuridica di una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa davanti allo Stato, e di conseguenza anche la necessità d’intervenire con misure penali sul piano canonico, cioè con la scomunica o l’esclusione dai sacramenti. La scomunica infatti è la pena che, da sempre, si impone contro chi «dimissiona» dalla Chiesa.

Il sistema fiscale attuale è fondato sulla forza di una logica giuridica apparentemente a tutta prova. Se però lo si osserva più attentamente, si scopre che è fondato sul falso presupposto che il riconoscimento della Chiesa come corporazione di diritto pubblico statale e il conferimento ad essa del diritto statale di riscuotere imposte ecclesiastiche, siano collegati da un legame necessario dal punto di vista giuridico, anziché da una libera scelta di ordine puramente politico.

Devono, le Chiese – pur tenendo conto del fatto che ciò non dipende solo né principalmente da loro -, ritornare su tale scelta? Quel che ci sembra acquisito, è che bisogna distinguere tra il riconoscimento di diritto pubblico statale e il diritto di riscuotere le imposte.

Se si accetta a livello culturale il principio della legittimità e della necessità dell’esistenza di un pluralismo giuridico, biso- gna prendere atto di ciò, che il riconoscimento di diritto pubblico, in sé, deriva dalla natura della Chiesa che non è, nella sua ontologia profonda, un’associazione privata. Non dovrebbe più essere considerato dallo Stato moderno, confessionalmente neutro ma anche pluralista, come una concessione fatta alle Chiese, ma come un riconoscimento di quel che esse sono. Il fatto di essere pubblico, come molti altri aspetti della vita, non è una proprietà esclusiva dello Stato. Il pluralismo giuridico è fondato su tale presupposto.

Il diritto di esigere imposte ecclesiastiche, con effetto per il diritto statale pubblico, non può, invece, essere concesso che dallo Stato, sovrano in questo dominio.

Le Chiese possono in teoria rinunciarvi, ma dal punto di vista storico concreto, possono pure trovarsi in un vicolo cieco che impedisce loro di farlo, a rischio di mettere globalmente in gioco sia il rapporto delicatissimo di equilibrio e di pace acquisito con lo Stato dopo un travaglio secolare, sia la loro attuale situazione finanziaria.

Possono invece più facilmente liberarsi dalla logica propria del sistema fiscale che esige le dimissioni dalla Chiesa a livello canonico. Infatti, vi sono strumenti diversi dalla scomunica per far capire al cristiano che la comunione implica anche la divisione dei propri beni, e che deve avere una concezione del denaro diversa da quella che domina la nostra cultura individualista.

La scomunica provoca una sproporzione di valori nella coscienza ecclesiale del cristiano (fino al punto che non vi crede più veramente), e lo distoghe dal problema di fondo. E una riduzione incresciosa e non educativa per la vita ecclesiale il fatto di cristallizzare il problema sul punto dell’obbligo di pagare imposte. Il vero problema è molto più globale. E quello della concezione che ciascuno ha della proprietà e dell’uso che fa delle proprie disponibilità economiche.

Il primo strumento è dunque d’ordine pastorale. E il modo di presentare ai fedeli il problema del loro rapporto finanziario con la Chiesa, tenendo conto della sua valenza ecclesiologica.

I documenti ufficiali delle Chiese e la predicazione devono cambiare profondamente per educare, non una buona coscienza fiscale, ma un’esperienza globale di comunità. Ciò costituirebbe già un buon risultato. Si potrebbe così già correggere le inevitabili insidie del regime fiscale.

Il secondo strumento potrebbe essere d’ordine disciplinare, ma in nessun caso d’ordine penale. Il CIC conosce la nozione di «actus leghimi»®, la privazione dell’esercizio dei quali, pertanto, presenta un carattere penale. Consiste nella possibilità di esercitare nella Chiesa certe funzioni liturgiche (per esempio, quella di padrino) o giuridiche (per esempio, il diritto di voto attivo e passivo)[69].

In una struttura ecclesiale articolata come l’attuale, dove la possibilità di esercitare dei servizi e degli uffici nella Chiesa è abbastanza aumentata anche per i laici, basterebbe far dipendere disciplinarmente l’esercizio di tali funzioni, o di tali diritti, dal compimento del dovere fiscale, o semplicemente dal compimento, sia pur minimale, del dovere di realizzare la comunione a livello anche della divisione dei beni[70].

Il Diritto canonico particolare dovrebbe elaborare dei criteri validi, ma potrà farlo solo a condizione di saper identificare – nella struttura attuale e futura dei servizi e uffici ecclesiali – i punti particolarmente significativi per la formazione della coscienza ecclesiale dei fedeli.

 

 

 

[1] Tra le opere più importanti sul problema delle imposte ecclesiastiche e delle dimissioni dalla Chiesa in generale, cfr. A. Frhr. von Campenhausen, Der Austritt aus den Kirchen und Religionsgemeinschaften, in: Handbuch St. Kirchenrecht, Berlin 1974,1,656- 666; H. Marré, Das kirchliche Besteuerungsrecht, in: ibidem, II, 5-50; J. Listl, Das Grundrecht der Religionsfreiheit in der Rechtsprechung der Gerichte der Bundesrepublik Deutschland, Berlin 1971; Id., Kirchenbeitrag, in: Katholisches Soziallexikon, Innsbruck und Graz-Wien-Köln 1980, 1383-1386; J. Neumann, Zur Kirchenfinanzierung in der Bundesrepublik Deutschland, ThQ 156 (1976), 198-205; J.G. Fuchs, Die Finanzquellen der Schweizer Kirchen, ibidem, 216-219; K. Walf, Kirchensteuer als Existenzmittel, «Conci- lium» 14 (1978), 429-433; W. Steinmüller, Kirchenrecht und Kirchensteuer, in: Essener Gespräche zum Thema Staat und Kirche 4 (1970), spec. 215-224, e la discussione 239- 262; A. Hollerbach, Kirchensteuer, Kirchenbeitrag, in: Grundriss des Nachkonziliaren Kirchenrechts, hrsg. von J. Listl-H. Müller-H. Schmitz, Regensburg 1980, 720-721.

[2] Si tratta della Germania federale, della maggior parte dei Cantoni Svizzeri (un regime di separazione esiste a Ginevra e Neuchâtel) e dell’Austria. In questo articolo si terrà conto soprattutto della Svizzera e della Germania federale.

[3] In Germania, lo sviluppo negli ultimi vent’anni è stato il seguente: nel 1960: 23.889 dimissioni (0,09%); 1975: 69.340 (0,25%); 1978: 52.273 (0,19%). In Austria, nel 1960: 9.113 (0,14%); 1975: 20.703 (0,29%); 1976: 23.228 (0,33%). Perla Svizzera, manca una statistica globale di tutti i Cantoni interessati. In taluni Cantoni rappresentativi, la situazione è la seguente: Basilea-Città, nel 1974, 9.900 (non si conosce la percentuale in rapporto alla popolazione cattolica; l’anno 1974 è quello del riconoscimento di diritto pubblico della Chiesa cattolica e dell’introduzione delle imposte ecclesiastiche); 1978: 3.931; 1979: 3.263; 1980: 2.173; Zurigo nel 1965: 760; 1975: 1.018; 1979: 974; San Gallo nel 1965: 56; 1975: 75; 1979: 56; Lucerna nel 1970: 48; 1979: 92; a Sciaffusa-Città, nel 1968/69: 376 (anno dell’introduzione dell’imposta); 1970: 749; 1979: 169. Queste statistiche sono state fornite dalla Römisch-Katholische Kirche des Kantons Basel-Stadt e dalla Römisch-Katholische Körperschaft des Kantons Zürich. Cfr. anche le note 7 e 48.

[4] In Germania, durante il periodo hitleriano e verso la fine degli anni ’60. In Svizzera e in Austria, verso la metà degli anni ’70 (cfr. nota 3).

[5] Cfr. K. Walf, ari. cit., 429-433.

[6] Cfr. A. Hollerbach, op. rit., 720-721, n. 3.

[7] Analisi più approfondite sono state fatte per la Chiesa Cattolica Romana di Basilea Città. Esse permettono di constatare che nel 1980, su 2.173 dimissioni dalla Chiesa, 468 (circa 15%) erano motivate da ragioni finanziarie e che 5 solamente, rispettivamente 25 e 107 (circa 0,5%) erano motivate da ragioni di scontento pastorale, personale o concernente la fede (passaggio ad altre confessioni). Tuttavia, 1568 dimissionari (circa 72%) non hanno dichiarato i loro motivi. È impossibile interpretare questo silenzio. Non sarebbe comunque legittimo attribuire tutte queste dimissioni a motivazioni di fede. La stessa ripartizione in percentuale delle motivazioni può essere constatata anche negli anni precedenti.

[8] La complessità di questo problema può essere chiarita facendo un’ipotesi: quella di sottomettere la questione del carattere obbligatorio delle imposte ecclesiastiche a un referendum politico. La recente votazione (1980) a livello federale svizzero sull’iniziativa per una separazione totale tra la Chiesa e lo Stato potrebbe lasciar sperare in un risultato positivo di un referendum per il mantenimento delle imposte ecclesiastiche obbligatorie. Infatti, la separazione è stata bocciata, a maggioranza schiacciante, dal popolo svizzero e da tutti i cantoni. Persino i cantoni di Ginevra e di Neuchâtel – che attuano un regime di separazione – hanno votato contro la separazione. E dunque evidente che gli elettori non si sono lasciati guidare ovunque dagli stessi criteri e che accanto alle considerazioni riguardanti direttamente il problema del rapporto Chiesa- Stato o quello connesso delle imposte ecclesiastiche, quello del federalismo ha assunto un’importanza determinante. Altri elementi, invece, come l’analisi dell’autore tedesco citato sopra (n. 5) o le statistiche di dimissioni dalla Chiesa in certi Cantoni svizzeri (cfr. n. 3 e 7), potrebbero lasciar temere il contrario ai più pessimisti. La domanda che bisogna porsi è dunque la seguente: in quale misura una consultazione sulle imposte

obbligatorie sarebbe significativa? Una cosa è certa: una decisione popolare sarebbe in ogni caso ambigua. L’esempio dei due recenti referendum – in Italia – sul divorzio (1977) e sull’aborto (1981) è molto istruttivo. La Chiesa italiana, che peraltro sembrava essere una delle Chiese più profondamente radicate nella tradizione e nella cultura di un popolo, è uscita intaccata nella sua base popolare. Non è possibile, certamente, stabilire un parallelismo esatto tra un divorzio o l’aborto in Italia. Il contesto politico e sociale, così come le modalità giuridiche specifiche dei diversi referendum lo impediscono. D’altra parte, al di là di ogni considerazione di contesto sociale e giuridico, non è possibile accordare al problema delle imposte ecclesiastiche in quanto tale Io stesso peso indicativo di quello del divorzio e dell’aborto, per verificare il grado di adesione o di appartenenza dei fedeli alla Chiesa. Una certa analogia è comunque possibile per il fatto che in questi referendum viene coinvolta l’etica cristiana e il rapporto Chiesa- Stato. Si tratta inoltre di due settori in cui il cristiano d’oggigiomo manifesta una tendenza verso il dualismo. La sua scelta è spesso dettata dalla cultura secolarizzata del mondo moderno o, in ogni caso, da motivi spesso d’ordine piuttosto politico che strettamente ecclesiale. Ne deriva che anche un referendum sulle imposte ecclesiastiche non sarebbe in grado di dare delle indicazioni certe sull’appartenenza dei cristiani alla Chiesa. Dai due referendum italiani, non si può concludere con certezza che tutti i cristiani che hanno votato per le leggi che introducono il divorzio e l’aborto approvassero in sé il divorzio e l’aborto. Così, un referendum sulle imposte non permetterebbe di affermare che coloro che votassero per l’abolizione del carattere obbligatorio di queste, sarebbero contrari a dare qualsiasi contributo finanziario alla Chiesa.

[9] Cfr. per esempio, LG 14,1.

[10] Cfr. E. Corecco, Die Lehre der XJntrennbarkeit des Ehevertrages vom Sakrament im Lichte des scholastischen Prinzips “Gratia perficit, non destruit naturam”, AfkKR 143 (1974), 428-433; J. Ratzinger, Zur Theologie der Ehe, in: Theologie der Ehe, Regens- burg-Göttingen 1969, 91-93.

[11] Per esempio i canoni 1070 § 1 e 1090 § 1-2 concernenti l’impedimento della disparità di culto e la forma canonica del matrimonio.

[12] Non si tratta qui di fare un’analisi teologica approfondita del problema dell’appartenenza alla Chiesa, né di giustificare l’opzione che preferiamo. I principali articoli scritti su questa questione sono stati pubblicati da P. Meinhold, nella raccolta Das Problem der Kirchengliedschaft heute, Darmstadt 1979. Tra gli autori cattolici del postconcilio che hanno preso posizione sul testo molto discusso di LG 14, 2 «illi piene Ecclesiae societati incorporante, qui Spiritum Christi hahentes…», bisognerebbe citare ancora W. Aymans, Die Kanonistische Lehre von der Kirchengliedschaft im Lichte des II. Vatikanischen Konzils, AfkKR 142 (1973), 387-417; H. Müller, Zugehörigkeit zur Kirche als Problem der Neukodifikation des Kanonischen Rechts, OAfKR 28 (1977), 81-98; P. Krämer, Die Zugehörigkeit zur Kirche, in: Grundriss des Nachkonziliaren Kirchenrechts, cit., 102-110; F. Coccopalmerio, La dottrina dell’appartenenza alla Chiesa nell’insegnamento del Vaticano II, «La Scuola Cattolica» 98 (1970), 215-238.

[13] Cfr. LG 8,2. Per un commento di questo testo fondamentale dove si afferma che la Chiesa di Cristo «subsistit in Ecclesia catholica», cfr. A. Grillmeier, LThK Vai. I, Freiburg-Basel-Wien 1966, 174-175.

[14] Cfr. can. 2195 § 1.

[15] Cfr. J. Brosch, Schisme, in: LThK, IX, Freiburg i.Br. 1964, 404-406.

[16] Per tutti, cfr. H. Heinemann, Die rechtliche Stellung der Nichtkatholischen Christen und ihre Wiederversöhnung mit der Kirche, München 1964, 41-43.

[17] I testi di questi due sinodi diocesani sono citati da H. Heinemann, op. cit.y 36-40.

[18] Cfr. le «Constitutiones synodales» del 26 novembre 1956, Solothurn 1960, 76-77.

[19] II testo datato del mese di dicembre è pubblicato in AfkKR 138 (1979), 557-559.

[20] Cfr. per esempio, A. Hagen, Die kirchliche Mitgliedschaft, Rottenburg am Neckar 1938,56-61.

[21] Cfr. per esempio, H. Heinemann, op. cit., 42-43.

[22] Si possono trovare tutte queste motivazioni nella dichiarazione della Conferenza dei Vescovi tedeschi del 1969 (cfr. n. 20) e nel testo del Sinodo tedesco (Gemeinsame Synode, Gesamtausgabe, II, Freiburg-Basel-Wien 1978, 211), che è stato seguito in alcuni dei suoi elementi dai Sinodi svizzeri ‘72 (cfr. per esempio, quello di Basilea: Sachkommission 9: Beziehung zwischen Kirche und politischen Gemeinschaften 4.3.2); cfr. J. Listl, Kirchenbeitrag, cit., 383-386; A. Höllerbach, op. dt., 726.

[23] Sulla riflessione attuale concernente la struttura di comunione della costituzione della Chiesa, cfr. O. Saier, «Communio» in der Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils, München 1973; W. Aymans, Die Communio Ecclesiarum als Gestaltgesetz der einen Kirche, AfkKR 139 (1970), 60-90. Sull’interpretazione strutturale della categoria «communio», cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Aspetti metodologici della questione, in: Les droits fondamentaux du chrétien dans l’Église et dans la société. Actes du IVème Congrès International de Droit Canonique, Fribourg (Suisse) 6-11 octo- bre 1981, pubblicati da E. Corecco-N. Herzog-A. Scola, Friboug (Suisse)-Freiburg i.Br.-Milano 1981, 1222-1225.

[24] Per tutto lo sviluppo storico in questo campo, cfr. W. Schwickerath, Die Finanzwirtschaft der deutschen Bistümer, Breslau 1942, spec. 44-133.

[25] Sulla questione, cfr. G. Krüger, Die Rechtsstellung der vorkonstantinischen Kirche, Stuttgart 1935; G. Bovini, La proprietà ecclesiastica e la condizione giuridica della Chiesa in età precostantiniana, Milano 1949.

[26] Sant’Ambrogio, nella sua Ep. 18 ad Valentinianum, 16, scrive: «Possessio Eccle- siae sumptus est egenorum» e nella sua De vita contemplativa, 1. 2, c. 2, scrive ancora: «nihil aliud esse res Ecclesiae, nisi vota fidelium, patrimonia pauperum»; cfr. W. Schwickerath, op. cit., 52; A. Plöchl, Bischofsgut und mensa episcopalis. Ein Beitrag zur Geschichte des Kirchlichen Vermögensrechtes, I, Bonn, 12; cfr. anche W.M. Plöchl, Geschichte des Kirchenrechts, I, Wien-München 1960, 101-104.

[27] Cfr. per esempio il testo di Tertulliano (Apologeticum, 39): «Modicam unus- quisque stipem menstrua die vel cum velit, et si modo velit, si modo passit, apponit: nam nemo compellitur, sed sponte confert», cfr. W. Schwickerath, op. cit., 593.

[28] Cfr. 2, 42-47; 4, 32-37; 5, 1-11.

[29] Cfr. V. Fuchs, Der Ordinationstitel von seiner Entstehung bis auf Innozenz III-, Bonn 1930, 77.

[30] Cfr. A. Frhr. von Campenhausen, Staatskirchenrecht, München 1973, 17-21.

[31] 13,3.

[32] Cfr. I. Seiperi, Die wirtschafsethischen Lehren der Kirchenväter, Wien 1907,78-79.

[33] Cfr. W. Schwickerath, op. cit., 79. Nella dottrina, quest’idea è tuttavia rimasta presente. Degli autori del XVII secolo, come per esempio Reifenstuel nel suo Jus cano-

nicum universum, l.V, tit. XI, 12, possono ancora scrivere: «Quia, cum redditu ecclesiastici sint patrimonium Christi et pauperum»; cfr. J. Evelt, Die Kirche und ihre Institute auf dem Gebiete des Vermögensrechts, Soest 1845, 4-6.

[34] A. Fhrh. von Campenhausen, Staatskirchenrecht, cit., 41-45.

[35] Cfr. H. Heinemann, op. cit., 198-199.

[36] Cfr. W. Schwickerath, op. cit., 11-114.

[37] Cfr. la Reichsverfassung del 28 marzo 1849 (Paulskirchenverfassung), 144-151.

[38] Art. 135-141.

[39] Cfr. H. Haller, Steuer, in: Staatslexikon, Lex., VII, Freiburg i.Br. 1962, 688-690.

[40] Kirchenrecht, II, Graz 1959 (Regensburg 1857), 586-587.

[41] Institutionen Iuris Publici Ecclesiastici, III, Romae 19064, 211, 227, 228.

[42] Institutionen Iuris Publici Ecclesiastici, I, Typis poliglottis Vaticanis 1958, 326-328.

[43] Sulla scuola dell’/PE, cfr. A. De La Hera, Introducción a la ciencia del derecho canónico, Madrid 1967, 38-46; J. Listl, Kirche und Staat in der neueren katholischen Kirchenrechtswissenschaft, Berlin 1978, 104-207; E. Corecco, Theologie des Kirchenrechts. Methodologische Ansätze, Trier 1980, 85-86.

[44] Sul problema del diritto penale canonico, cfr. A. Scheuermann, Erwägungen zur kirchlichen Strafrechtsreform, AfkKR 131 (1962), 393-413; K. Mörsdorf, Zum Problem der Excommunication. Bemerkungen zum Schema Documenti quo disciplina sanc- tionum seu poenarum in Ecclesia Latina denuo ordinatur, ibidem (1974), 64-68; J. Baldanza, De reconoscendo iure canonico poenali quaestiones quaedam, Eph. Iur. Can. 19 (1963), 93-104; P. Huizing, Delikte und Strafen, «Concilium» 3 (1967), 657-664; V. De Paolis, Totum ius poenale ad externum tantum forum limitandum est, PRMCL 65 (1976), 297-315; F. Coccopalmerio, De natura iuris poenalis Ecclesiae, ibidem, 317- 330; L. Gerosa, La scomunica e la protezione dei diritti fondamentali del cristiano, in: Les droits fondamentaux du chrétien dans l’Eglise et dans la société, cit., 1065-1070.

[45] Anche il criterio della solidarietà, introdotta nei documenti del magistero particolare, pur rivelando una sensibilità nuova, resta ambiguo. Se lo si interpreta come virtù etica, derivante dalla giustizia naturale, non sembra essere sufficiente. Se invece lo si interpreta come sinonimo di «comunione», difficilmente lo si può adottare come motivazione di una politica fiscale derivabile dal diritto statale.

[46] Cfr. A. Scheuermann, Das Schema 1973 für das kommende kirchliche Strafrecht, AfkKR 143 (1974), 3-63.

[47] Cfr. H. Heinemann, op. al., 31-42.

[48] E sintomatico, a questo proposito, che nei cantoni svizzeri una fortissima proporzione di dimissionari dalla Chiesa sia di stranieri. Nel canton Zurigo, rappresentavano nel 1970 una proporzione del 24% (di cui circa la metà erano italiani). Nel cantone Basilea-Città raggiungevano nel 1978 il 68% (di cui 75% italiani), nel 1979, il 63% (di cui 65% italiani) e nel 1980, il 58,5% (di cui 65% italiani).

[49] È importante sottolineare qui che l’elemento portato dal diritto ecclesiastico non sarà valutato sulla base degli effetti giuridici che produce nei confronti dello Stato, che sono differenti in Germania e in Svizzera, come in Austria. La valutazione è data solo a partire dal punto di vista canonico.

[50] È interessante notare che la norma del canone 1325 § 1 è sparita dal progetto di revisione del codice del 1980.

[51] Decreto del Tribunale della S. Penitenzieria pubblicato nel 1921 e rinnovato in seguito: AfkKR 114 (1934), 141.

[52] Enciclica di Benedetto XIV, Inter omnigenas, del 2 febbraio 1744, CIC Fontes, I, 803-810.

[53] Istruzione della S. Congregazione di Propaganda Fide del 6 giugno 1817, CIC Fontes, VII, 233-238; cfr. H. Heinemann, op. cit., 34.

[54] Questo regime è caratterizzato con maggior precisione dalla dottrina di lingua tedesca come regime della «Staatskirchenhoheit», cfr. E. Isele, Zur Revision des kantonalen Staatskirchenrechts, in: lus et Lex. Festgabe zum 70. Geburtstag von Max Gutzwiller, hrsg. von der Juristischen Facultät der Universität Freiburg (Schweiz), Basel 1959, 563-602; Id., Die neuere Entwicklung und der gegenwärtigen Stand derKir- chengesetzgehung in der Schweiz, SJZ 58 (1962), 177-182; 193-201; Id., Faut-il séparer l’Église et l’État?, in: L’Église et l’État: évolution de leurs rapports, Zürich 1974, 11-32; J.G. Fuchs, Die neuere Entwicklung des Verhältnisses von Kirche und Staat in der Schweiz, in: Recueil de travaux suisses présentés au VlIIème Congrès international de droit comparé, Basel 1970, 293-312; Id., Zum Verhältnis von Kirche und Staat in der Schweiz, «Essener Gespräche» 2 (1971), 156-168; Id., L’Église et l’État, partenaires dans un esprit démocratique, in: L’Église et l’État: évolution de leurs rapports, cit., 33-56; E. Corecco, Katholische “Landeskirche” im Kanton Luzern. Das Problem der Autonomie und der synodalen Struktur der Kirche, AfkKR 139 (1970), 3-42; F. Clerc, L’Église et l’État en droit constitutionnel suisse, Mélanges offerts à Pierre Andrieu-Guitrancourt, AC 17 (1973), 205-223; L. Carlen, Religiöse Grundrechte in der Schweiz, in: Die Grundrechte des Christen in Kirche und Gesellschaft, cit., 995-1010.

[55] Cfr. H. Heinemann, op. cit., 202.

[56] Cfr. V. Del Giudice, Nozioni di diritto canonico, Milano 197012, 174 e 424; P. CiPRom, Contributo alla teoria della canonizzazione delle leggi civili, Roma 1941; P. A. D’Avack, La natura giuridica dei concordati nello lus Publicum Ecclesiasticum, in: Studi in onore di E Scaduto, I, Firenze 1936, 129.

[57] Canti. 1529, 1059, 1080.

[58] E significativo che i tribunali tedeschi, seguiti dal legislatore, sulla suggestione della dottrina, non abbiano ammesso l’accettabilità del «modifizierte Kirchenaustritt», cioè della dichiarazione di dimissione dalla Chiesa in quanto corporazione di diritto pubblico ma in quanto istituzione canonica. Su tale questione, cfr. J. LlSTL, Verfassungsrechtliche unzulässige Formen des Kirchenaustritts, JZ (1971), 345-352; D. Pirson, Zur Rechtswirkung des Kirchenaustritts, ibidem, 608-612; A. Hollerbach, op. cit., 124-125.

[59] Per esempio, il protocollo finale dell’art. 13 del Reichskonkordat del 1933.

[60] Cfr. W. Aymans, Die Kirche-das Recht im Mysterium der Kirche, in: Grundriss des nachkonziliaren Kirchenrechts, cit., 3-11; A. Rouco Varela-E. Corecco, Sacramento e Diritto: antinomìa nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico, Milano 1971, 59-64.

[61] E. Corecco, Die sacra potestas und die Laien, FZPhTh 21 (1980), 120-154.

[62] Cfr. M. Drath, Staat, in: ESLex, Stuttgart-Berlin 1975, 2432-2467, spec. 2462- 2466.

[63] Sui differenti aspetti della pianificazione, cfr. W. Blumel, Planung, in: ESLex, cit„ 1811-1835.

[64] Su questo problema vedere, ad esempio, la breve sintesi di H. Thimme, Volkskir- che, in: EKLex, Göttingen 1961, 1689-1691.

[65] Sul rapporto giustizia-carità nella Chiesa, cfr. R. Sobanski, Die methodologische Lage des katholischen Kirchenrechts, AfkKR 147 (1978), 369-372.

[66] Al proposito, vale la pena ricordare i rimproveri di K. Barth, Die Ordnung der Gemeinde. Zur dogmatischen Grundlegung des Kirchenrechts, München 1955.

[67] Cfr. per esempio, J. Neumann, op. cit., 202. Le norme dei Vescovi al proposito sembrano essere più rigorose, come, per esempio, l’Ordinanza dell’Arcidiocesi di Monaco e Freising – del 22 giugno 1971 – sulla maniera di trattare i dimissionari dalla Chiesa che hanno aggiunto clausole restrittive alla loro dichiarazione, AfkKR 140 (1971), 557.

[68] La nozione di «imposte non obbligatorie» è una contraddizione «in terminisi. Sarebbe meglio parlare di quote finanziarie.

[69] Cfr. can. 2556, n. 2.

[70] Cfr. K. Mórsdorf, Kirchenrecht, Paderborn-Miinchen-Wien-Zùrich 197911, 390-391.