2. Il Presbiterio Diocesano

Terza lettera, Roma 22 ottobre 1990

Quando il pulcino, dopo una lunga sfacchinata, sta per rompere il guscio, si ha sempre paura che possa ancora morire.
E stato così anche l’altra mattina, quando il Cardinale Moreira Neves, dell’Ordine dei Padri Domenicani e relatore al Sinodo, ha letto, con aria stanca, in latino, la «Relatio post disceptationem», cioè la grande sintesi dei 230 interventi fatti dai Vescovi nelle due settimane precedenti. Si era arrossato gli occhi passando la notte in bianco, davanti alla scrivania.  L’idea del «presbiterio» pareva non volesse nascere. Finalmente, dopo quasi due ore di lettura, è venuta fuori,come un pulcino bagnato, in una delle quindici domande finali, formulate dal relatore per preparare le discussioni dei tredici gruppi linguistici (circuli minores), in cui si è ripartita l’assemblea sinodale.
Che l’idea del presbiterio stenti a passare nella mente dei Padri sinodali non sorprende più di quel tanto. Nella teologia tomista, che ascende fino a San Tommaso d’Aquino (XIII secolo) e di cui i Padri Domenicani furono i grandi campioni, il presbiterio non esiste.  Questa curiosa dimenticanza ha creato un equivoco, che dura da quasi un millennio. I fedeli hanno incominciato a pensare che il presbiterio coincida con quello spazio attorno all’altare, dove una volta avevano accesso solo il clero ed i chierichetti. Le chierichette, quelle, sono un fiore della fine del XX secolo.
In realtà, il nome di questo spazio architettonico deriva dal fatto che in una diocesi, attorno al Vescovo esiste sempre anche un collegio di presbiteri, che, prima ancora che si costruissero chiese, è stato chiamato presbiterio. Ora che i preti del presbiterio non vivono più tutti assieme, come una volta, nella città episcopale, ma si sono dispersi per andare nelle singole parrocchie (lasciando nella Cattedrale, come retroguardia, un minuscolo drappello di canonici), chi desidera vedere ancora fisicamente questo corpo presbiterale dovrebbe recarsi in Cattedrale per la Liturgia Pontificale del Giovedì Santo. Lì, durante la Messa crismale, in cui vengono consacrati il crisma del Battesimo, della Cresima e delle Ordinazioni, oltre che gli oli idei catecumeni e degli infermi, si può ancora ammirare il Vescovo, con mitra e pastorale, attorniato da tutti, o quasi, i preti della diocesi: insomma, la fotografia di gruppo del presbiterio.
A dire il vero, da che tempo è tempo, sono sempre esistiti preti che si sono fatti vanto di non farsi mai vedere alla Messa crismale. Una delle tentazioni più antiche dei presbiteri, infatti, è quella di porsi in alternativa al Vescovo. Ma al presbiterio, volere o no, appartengono anche loro.
Il presbiterio è simile al collegio universale dei Vescovi. A quest’ultimo, in forza del Sacramento dell’Ordine,appartengono tutti i Vescovi cattolici, con il Papa; anche quelli afflitti dal complesso antiromano, che è pure antico quanto la Chiesa. L’unità è sempre stata difficile per tutti, non solo per i fedeli, ma anche per i Vescovi ed i preti.
Il collegio universale dei Vescovi ed il presbiterio diocesano sono entrambi un soggetto sinodale, cioè un soggetto collegiale. Ciò significa che i presbiteri di una diocesi (come i Vescovi per la Chiesa universale), oltre ad avere una responsabilità apostolica personale, portano anche una responsabilità pastorale in solidum (cioè tutti insieme) nei confronti della loro Chiesa particolare. Attraverso questa appartenenza al presbiterio, anche il ministero dei preti si apre verso una sollecitudine per tutta la Chiesa universale.
La differenza tra questi due soggetti sinodali (o collettivi) sta nel fatto che, nel collegio episcopale, tutti i membri, Papa compreso, sono Vescovi. Nel presbiterio, invece, non tutti partecipano al Sacramento dell’Ordine, allo stesso modo. I sacerdoti ricevono il Sacramento dell’Ordine in un grado inferiore. La conseguenza è che il Vescovo emerge, nei confronti dei preti, come capo del presbiterio diocesano, con una responsabilità sacramentale e pastorale personale più grande di quella che il Papa stesso ha nei confronti dei Vescovi sparsi sulla terra.
Tra il Vescovo ed i presbiteri esiste un duplice legame; sia perché il Vescovo ed i preti, attraverso il Sacramento dell’Ordine, sono direttamente partecipi dello stesso ed unico sacerdozio di Cristo; sia perché i presbiteri partecipano in forma derivata e subordinata al ministero pastorale del Vescovo stesso, unico ad avere la pienezza del Sacramento dell’Ordine.
Da questo doppio legame, sacramentale ed interiore, quello comune dei presbiteri e del Vescovo con Cristo, e quello dei presbiteri con il ministero del Vescovo, nasce e si configura quel corpo sacerdotale, o soggetto collegiale, che si chiama presbiterio.
Mi rendo perfettamente conto che non è facile capire queste cose. Qui al Sinodo fanno fatica anche i Vescovi a capire l’importanza teologica del presbiterio. Tuttavia, la difficoltà nel comprendere questo mistero sacramentale e di comunione non dispensa nessuno dal fare un piccolo sforzo.
Durante le discussioni nei circoli minori, un Cardinale (sarebbe superfluo dire che è nato a Milano), per farla breve, quando ha l’impressione di aver detto cose troppo complicate, tira sempre fuori un esempio concreto. Cerca di tradurre, dice lui, la sua teologia in “soldoni”.
Tradotto in “soldini” il presbiterio significa che, in Diocesi, il Vescovo ed i preti hanno una responsabilità comune e che perciò devono lavorare assolutamente assieme. Un Vescovo australiano, con stile da campione di “cricket” inglese, ha detto che i preti ed il Vescovo dovrebbero fare “gioco di squadra”, cioè lavorare d’amore e d’accordo. Per male che possa andarmi, avrete comunque capito che questa comunione o fraternità sacramentale, esistente tra il Vescovo ed i preti del presbiterio, non può essere paragonata all’unità di nessun corpo politico di questo mondo, monarchico o democratico che sia. È un mistero che uno capisce solo con la fede.
A questa fraternità sacramentale del presbiterio devono essere educati i seminaristi. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il Sinodo ha come obiettivo quello di ridisegnare l’itinerario educativo dei candidati al sacerdozio; non, invece, in primo luogo, quello di criticare i Vescovi ed il clero, così come siamo adesso, usciti dai seminari di una volta.
È forse per questo che qui,a Roma, tra i Vescovi, esiste una grande voglia di rinnovare i Seminari. È un fatto che, negli ultimi 25 anni, i vecchi Seminari diocesani, bisognosi comunque di riforma, per cambiare si sono volatilizzati un po’ ovunque in mille esperienze alternative: tipo piccoli gruppi autogestiti, appartamenti, “équipes” universitarie, ecc., ecc.
I frutti di queste esperienze, qualche volta avventate, dicono i più focosi, come il Cardinale Lustiger di Parigi, anche se tentate a fin di bene, sono lì da vedere. Non solo sono andate perse mille vocazioni, ma è anche successo che molti preti usciti da queste esperienze, dopo qualche anno di ministero, abbiano buttato (come si diceva una volta, ma oggi non si fa solo per dire), “la veste alle ortiche”. Come se ciò non bastasse, sono venute a mancare anche le vocazioni.
Ma qui il discorso si complica. Prima di tutto perché il ritornello della mancanza di vocazioni è vero solo per i Paesi occidentali, mentre i seminari delle Chiese extraatlantiche straripano di seminaristi. Non parliamo poi dell’Est europeo, dopo la «perestrojka». Il Vescovo di Minsk, Mons, il primo nominato dal Papa in Bielorussia dopo 50 anni, ha raccontato, per fare solo un esempio, che da lui si presentano candidati a dozzine, tutti i momenti.
Il bello è, che hanno frequentato, con apparente successo, tutte le scuole atee del regime, per cui, così ignoranti come sono in religione, non sanno quasi fare il segno della croce. Vogliono però diventare preti, perché sentono che la società ha bisogno di loro, ed ha bisogno di qualche cosa di nuovo, e sperano che la Chiesa possa aiutarli.  E inutile dire, che devono essere rieducati da cima a fondo, anche dal profilo umano, perché il marxismo (dicono i Vescovi dell’Est) ha distrutto la stessa natura umana, mettendo sul mercato, dopo l’uomo «di Neanderthal», l’uomo «sapiens» e l’uomo «faber», anche l’uomo «sovieticus ». Ma intanto sono lì e vogliono diventare preti.
Se poi guardiamo ai Paesi del Terzo Mondo, allora fa quasi invidia vedere come i Vescovi indiani ed africani siano orgogliosi dei loro Seminari e dei loro nuovi conventi.  Sembrano tutti salmisti intenti a cantare la lode del Signore per la manna piovuta dal cielo sulle dune del deserto.
Qualcuno, nel mio circolo minore, si è lasciato sfuggire, quasi per trovare una scusa (ma si è subito morso la lingua) che secondo lui le vocazioni in certi Paesi, come la Polonia, hanno carattere “culturale”. Voleva dire che nascono più da una situazione socio-culturale e politica favorevole, che da un impulso veramente religioso?
Ma allora noi, dell’Europa (per non parlare degli USA) non dovremmo forse dire, a maggior ragione, che anche la nostra scarsità endemica di vocazioni è di origine culturale?  Tutto, infatti, nel bene e nel male, è culturale: conseguenza, cioè, del modo di pensare e di vivere della gente.
Se mancano le vocazioni, ha osservato giustamente il Cardinale Danneels di Bruxelles, non è perché ai giovani di oggi manchi la generosità o non sentano più i valori ideali orizzontali, ma è perché nelle nostre parrocchie il tasso verticale della fede è troppo basso. Eppure, ha aggiunto, con una certa rassegnazione, «le mie parrocchie in Belgio sono tutte organizzate alla perfezione».
In un modo o nell’altro le vocazioni sono sempre culturali.  Il problema è, infatti, quello di sapere se in una cultura c’è ancora un po’ di quel sale e pepe che è la fede cristiana.  E non è detto, come qualcuno potrebbe disinvoltamente pensare, che le vocazioni dei Paesi occidentali siano necessariamente migliori di quelle dei Paesi dell’Est o del Terzo Mondo, per il semplice fatto che spuntano malgrado un ambiente sociale ostile.
Il discorso sulla crisi o l’abbondanza delle vocazioni è terreno minato. Bisogna procedere con grande cautela.  Ognuno deve studiare le radici culturali e religiose del proprio giardino per capire come coltivare i fiori, senza alzare troppo la testa oltre la siepe, per guardare come fanno gli altri.
Sulle vocazioni gli interventi in sala e le discussioni nei circoli sono state innumerevoli. È un discorso che ha però ammansito anche quei Vescovi che, una volta, erano i più irriducibili contro i movimenti ecclesiali.Certo, i nuovi Movimenti ecclesiali hanno provocato e qualche volta provocano ancora emicranie, ma di vocazioni al sacerdozio ed alla vita religiosa (se si tiene conto della piccola percentuale di cristiani aderenti ai Movimenti ecclesiali, rispetto a tutti gli altri fedeli sparsi nel mondo) ne hanno prodotte (si fa per dire, perché le vocazioni sono ultimamente opera dello Spirito Santo) così tante, che l’atmosfera di questo Sinodo nei confronti dei Movimenti, paragonata a quella di tre anni fa, quando il tema del Sinodo 1987 era quello dei laici e delle associazioni laicali, sembra essersi capovolta, quasi di 180 gradi.
In ogni caso nessuno, anche i più accaniti anticlericali di questa terra, deve ridere sotto i baffi. La curva delle vocazioni al sacerdozio sta riprendendo quota ovunque, anche in Europa e nei Paesi anglosassoni. Non c’è celibato che lo possa impedire. Ma sul celibato ritornerò la prossima volta.
Dai mass-media avrete sentito che in mancanza di bombe, due eminentissimi Cardinali hanno pensato bene di far scoppiare un paio di petardi. I petardi, si sa, più che danno fanno rumore.
Il fatto è, che il peso specifico dei Cardinali, sia che dicano cose giuste, sia che ne dicano di meno azzeccate, è sempre superiore a quello degli altri. Di questa legge di Newton, ossia della gravità, ne facciamo l’esperienza anche noi, Vescovi e periti, tutti i giorni nelle discussioni dei circuli minores, soprattutto in quelli dove i Cardinali abbondano, come nel gruppo linguistico italiano, che per finire, rappresenta però ben undici nazionalità.