Sezione III – La sinodalità

1. Struttura sinodale o democratica della Chiesa particolare?

 

1. Premesse ecclesiologiche

1. Limiti di una ecclesiologia della Chiesa particolare

 

Prima di entrare in merito al problema della struttura della Chiesa particolare è utile fare una premessa di ordine ecclesiologico generale sul rapporto esistente tra Chiese particolari e quella universale. Questa premessa è giustificata dal fatto che il problema della così detta “democratizzazione” della Chiesa è posto -almeno laddove è fatto con serietà d’intenti- non tanto al livello della Chiesa universale, quanto piuttosto a quello della Chiesa particolare.

Infatti, dopo l’esperienza ecclesiale vissuta con la celebrazione del Concilio Vaticano II e dopo gli enunciati ecclesiologici dello stesso sulla “collegialità” episcopale, nessuno ha osato mai parlare esplicitamente di regime democratico della Chiesa universale. La Chiesa universale è retta dal Collegio dei Vescovi, con a capo il Papa, i quali sono investiti di questo ministero non dalla base ecclesiale, ma da Dio attraverso la mediazione del Sacramento e della «Missio canonica»[1].

Per contro il discorso sulla “democratizzazione” è fatto spesso apertamente e in termini di rottura in rapporto alla Chiesa particolare ( = Diocesi), come se la struttura della Chiesa particolare fosse radicalmente diversa da quella della Chiesa universale. Il discorso della “democratizzazione”, che evidentemente non è possibile in rapporto alla Chiesa universale, sarebbe invece possibile a proposito della Chiesa particolare[2].

Per evitare questo equivoco molto grave è necessario affrontare il problema del rapporto strutturale esistente tra la Chiesa universale e quella particolare.

La chiarificazione di questo problema è tanto più importante in quanto la tendenza dell’ecclesiologia moderna, per reazione a quella che ha dominato fino al Vaticano II, è quella di sviluppare un discorso autonomo sulla Chiesa particolare[3]. È un discorso che arrischia di diventare uno «slogan» ogni qual volta è fatto all’interno di un orizzonte particolaristico, oppure quando è fatto a sostegno di una concezione pluralistica della Chiesa nella quale l’unità è concepita non come valore supremo, preesistente alla Chiesa e perciò da riconoscere e conquistare, con priorità su ogni altra preoccupazione, ma semplicemente come il risultato più o meno casuale ed eventuale di una convergenza di fatto di tante esperienze ecclesiali particolaristiche.

È possibile fare una teologia della Chiesa particolare in quanto particolare, slegandola dal suo rapporto essenziale con la Chiesa universale? Esiste una priorità della Chiesa particolare su quella universale al punto da giustificare una ecclesiologia della Chiesa particolare? Viceversa, esiste una priorità della Chiesa universale su quella particolare, tale da giustificare in blocco una teologia della Chiesa, unilateralmente vista come Chiesa universale, come quella che si è sviluppa nella Chiesa latina soprattutto a partire dal Medio Evo?[4]. Evidentemente, così come il problema è stato posto già nel corso dei dibattiti conciliari[5], la problematica della priorità della Chiesa universale su quella particolare, e viceversa, non è corretta. Il problema per contro può essere posto in termini corretti quando per Chiesa universale non si intendesse, come è stato fatto per i il passato e come si è ripetuto in occasione del progetto di «Lex fundamentalis», una entità a se stante, che si pone su un piano concorrenziale con la Chiesa particolare. Infatti Cristo non ha fondato, da un punto di vista strutturale, né la Chiesa universale né quella particolare, bensì la Chiesa in quanto tale con la sua doppia dimensione e realtà: quella universale e quella particolare. La Chiesa universale non può essere intesa come una grande realtà unitaria, uniforme e a se stante, come una grande diocesi, ma solo come una «Communio ecclesiarum».

Se, come vedremo in seguito, la «communio» è la peculiarità antropologica del cristiano, che è l’«homo novus», anche la Chiesa non può essere concepita prescindendo da questo fatto, proprio perché essa è l’ambito dentro il quale il cristiano vive i suoi rapporti intersoggettivi, si costituisce e cresce. La «communio» in quanto dimensione ontologica del cristiano, e perciò in quanto criterio e principio formale regolatore dei rapporti intersoggettivi cristiani, si declina a livello istituzionale come rapporto di comunione tra la Chiese. La «communio» è perciò con il Sacramento il criterio di appartenenza alla Chiesa. Anzi essa, a differenza del Sacramento, trascende non solo ogni singola Chiesa particolare, ma il fatto sacramentale stesso. Infatti il Sacramento celebrato fuori dalla «communio» non può realizzare in se stesso la pienezza del suo significato che è quello di rendere presente tutta la Chiesa, la Chiesa universale. Ogni Chiesa particolare è perciò costituita nella sua autenticità dalla verità con la quale celebra il Sacramento dell’Eucaristia, segno efficace della «communio». La comunione con la Chiesa di Roma, e attraverso questa con tutte le altre Chiese particolari, è di conseguenza un elemento costitutivo della Chiesa particolare; le dà la garanzia di realizzare in se stessa tutta la Chiesa. La Chiesa particolare non possiede in se stessa la garanzia ultima della propia autenticità; non è completamente autonoma. La garanzia e data alla Chiesa particolare dalla «communio» che intrattiene con tutte le altre Chiese, cioè con la «Communio ecclesiarum» di cui essa è parte costituente.

 

2. Il rapporto strutturale tra la Chiesa universale e quella particolare

 

Anche se l’ecclesiologia del Vaticano II è rimasta ancora profondamente marcata dalla tradizione teologica latina ed ha così conservato come orizzonte ecclesiologico globale quello della Chiesa universale, tuttavia essa ha recepito anche l’istanza della Chiesa particolare, propria soprattutto dell’ecclesiologia orientale. Nei testi conciliari sono stati inseriti alcuni spunti ecclesiologici che benché non siano diventati gli elementi portanti dell’impianto teologico del Concilio sulla Chiesa, tuttavia hanno dato alcune indicazioni estremamente preziose per risolvere la tensione immanente alla dinamica di rapporto esistente tra la Chiesa universale e quella particolare.

Il testo più incisivo da questo punto di vista è senza dubbio quello dell’articolo 23, 1 della «Lumen Gentium», nel quale è detto che la Chiesa universale esiste e si realizza nelle e dalle Chiese particolari («in quibus et ex quibus»). Questa formula, nella sua concisione e pregnanza è forse la formula più geniale di tutta l’ecclesiologia vaticana. Anche se non è possibile in questa sede fare un’analisi dettagliata ed esauriente di questo enunciato ecclesiologico[6], tuttavia, in funzione del discorso che ci interessa è necessario evidenziare alcuni contenuti essenziali dello stesso.

Essa significa, da una parte che la Chiesa universale, proprio perché è una «Communio ecclesiarum», è formata dalle Chiese particolari («ex quibus»), dall’altra che la Chiesa universale esiste solo attraverso la mediazione della Chiesa particolare, vale a dire, esiste solo in quanto si realizza nelle Chiese particolari («in quibus»). Ciò significa però anche che la Chiesa particolare non può esistere se non come, e in quanto, realizzazione concreta della Chiesa universale. Non è perciò una realtà essenzialmente diversa da quella della Chiesa universale. Se essa realizza gli stessi valori di fondo della Chiesa universale, di cui è segno efficace e Sacramento, la Chiesa particolare non può essere retta che dagli stessi principi costituzionali. La conseguenza è che si può qualificare come Chiesa particolare solo quella realtà che realizza tutti gli elementi esistenziali e strutturali di fondo della Chiesa universale, cioè della «Communio ecclesiarum»[7].

Il Vaticano II, da un punto di vista delle strutture costituzionali, ha riscoperto con estrema chiarezza che il ministero ha essenzialmente nella Chiesa una dimensione sinodale. Il Concilio ha espresso questa intuizione, radicata del resto in tutta la tradizione conciliare della Chiesa, con il principio della “collegialità”. La “collegialità” é emersa come formulazione teologico-giuridica, sia dalla dottrina della «Communio ecclesiarum», cioè dal fatto che la Chiesa universale è una comunione di Chiese particolari e il Collegio dei Vescovi la comunione dei Vescovi responsabili delle singole Chiese, sia dalla dottrina della «communio» in quanto elemento tipico dell’antropologia cristiana[8].

Tuttavia, dopo aver colto la «communio» e la «Communio ecclesiarum» come elementi essenziali della realtà ecclesiale, il Vaticano II ha saputo tradurre esplicitamente questi valori in termini strutturali-costituzionali solo al livello della Chiesa universale. Terminologicamente, infatti, ha riconosciuto come avente carattere “collegiale” solo il corpo universale dei Vescovi, uniti in comunione gerarchica con il Papa. È stato questo un espediente discutibile per esprimere che solo il Collegio dei Vescovi, con a capo il Papa, è investito del potere pieno e supremo su tutta la Chiesa universale. In realtà non esiste dubbio che anche le altre forme sinodali episcopali, al livello sia delle realtà ecclesiali minori (Patriarcati, Regioni ecclesiastiche con a capo Conferenza di Vescovi quale istanza gerarchica collegiale intermedia), che a quello della Chiesa particolare (Diocesi), sono una manifestazione dell’elemento sinodale ed hanno carattere “collegiale”, sia da un punto di vista teologico che giuridico, quando, per quest’ultimo caso, si dovessero verificare le condizioni necessarie.

Se la «communio» è l’essenza della vita della Chiesa, allora l’elemento sinodale-collegiale deve essere considerato sul piano strutturale, pur tenendo conto delle diversità che si impongono secondo le diverse realtà ecclesiali, come l’espressione tipica del regime costituzionale della Chiesa sia universale che particolare. In forza del principio, secondo il quale la Chiesa universale si realizza solo attraverso la mediazione della Chiesa particolare («in quibus»), bisogna concludere, da una parte che anche un aspetto essenziale della struttura costituzionale della Chiesa, come quello della dimensione sinodale dei ministeri ecclesiali, deve essere presente e deve realizzarsi anche al livello della Chiesa particolare, dall’altra che la struttura sinodale, in quanto dimensione caratteristica e fondamentale di tutti gli uffici ecclesiali, è l’unica forma possibile di corresponsabilità e di partecipazione di tutto il Popolo di Dio alla gestione della vita della Chiesa particolare.

Ogni discorso sulla struttura “democratica” della Chiesa particolare e perciò ecclesiologicamente inaccettabile ed ogni tentativo di interpretare e di vivere le strutture sinodali della Chiesa particolare (Sinodi, Consigli Presbiterale e Pastorale ecc.) in termini democraticistici equivale ad una falsificazione della realtà ecclesiale[9].

La tentazione democraticistica in atto oggi nella Chiesa sia al livello della giustificazione ideologico-dottrinale che a quello della prassi ecclesiale sono infatti una delle cause dell’attuale crisi costituzionale all’interno della Chiesa particolare.

 

2. Aspetti della crisi democraticistica

 

1. La logica mondana della ripartizione del potere

 

A pochi anni dalla loro istituzione i nuovi Consigli Diocesani creati dal Concilio Vaticano II[10] sono già travagliati da una crisi profonda. La sintomatologia e data da una parte dall’incertezza con la quale molti Vescovi usano questi nuovi organismi, dall’altra dalla crescente sfiducia e dal crescente assenteismo del clero e dei laici.

Le cause di questa crisi sono senza dubbio molteplici e diverse, potrebbero perciò essere enumerate in modo esaustivo solo se si dovesse procedere all’analisi sufficientemente ampia delle svariate e numerosissime situazioni concrete. Sarebbe comunque errato credere di poterle ridurre tutte a problemi di natura tecnico-giuridica[11]. L’origine della crisi è molto più profonda, tocca, a tutti i livelli, la coscienza ecclesiale di moltissimi cristiani di oggi. È una crisi di concezione e perciò di natura teologica, prima di essere una crisi di funzionamento tecnico-giuridico, o semplicemente una crisi a livello psicologico e perciò di carattere morale. È per questo che, quando non si devono individuare le cause della crisi in esplicite manipolazioni avvenute nel segno della conservazione[12], o di un empirismo progressista[13], essa si manifesta con i sintomi sopraddetti che sono i segni tipici di una crisi di potere: la crisi di chi ha paura di perdere il potere, confondendo quest’ultimo con la cumulazione di tutte le competenze, o la crisi di chi ha creduto di poter accedere al potere e si accorge di non averlo e di non poterlo raggiungere. Molto spesso infatti queste nuove strutture sinodali della Chiesa particolare[14] vengono concepite e strumentalizzate in funzione di una logica mondana di potere: dall’alto verso il basso per la conservazione dello «status quo»[15], dal basso verso l’alto per la scalata al potere, vale a dire in funzione della così detta “democratizzazione” della Chiesa. Proprio all’interno di quest’ultima tendenza si dimentica facilmente che anche la democrazia, come ogni sistema costituzionale, è una struttura di potere[16], che si pone perciò, lo si voglia o no, al pari di ogni sistema autoritario, essenzialmente in termini di ripartizione di potere[17]. Evidentemente questa dinamica del potere, se trasportata nell’ambito ecclesiale, non può non diventare radicalmente equivoca, perché nella Chiesa il rapporto strutturale, anche al livello decisionale-operativo, tra la Gerarchia e il resto del Popolo di Dio, non può mai ultimamente essere posto in termini di ripartizione di potere, a meno di scadere nell’empirismo teologico e perciò anche giuridico. Infatti il problema non può essere posto né in termini ideologici di lotta di classe né in quelli più tipicamente politici dell’equilibrio delle forze[18]. All’interno della Chiesa il problema di una necessaria e ordinata ripartizione delle competenze non può mai coincidere, come ultimamente avviene all’interno dell’ambito statale, con il problema del possesso di una porzione più o meno grande del potere, perché il potere, se per potere si intende la responsabilità ultima e perciò il servizio specifico dei Vescovi di fronte alla vita della Chiesa, non è divisibile. La divisione delle competenze dovrebbe servire, nell’ordinamento canonico, solo a regolare con un legittimo criterio di efficienza l’intervento operativo delle singole persone e dei singoli organismi, tenendo conto della loro funzione e del loro carisma. In nome di una ripartizione delle competenze però, nessuno può essere escluso da una corresponsabilità effettiva e globale nella preparazione del giudizio di comunione dal quale deve nascere geneticamente l’intervento decisivo dell’Autorità[19]. Il problema del potere all’interno del Popolo di Dio perciò non può essere, in ultima analisi, che quello della natura del rapporto a livello operativo-decisionale tra i Vescovi e gli altri cristiani e di conseguenza quello della modalità di partecipazione del clero e dei laici alla responsabilità che ultimamente spetta ai successori degli Apostoli, dell’annuncio cristiano nel mondo.

 

2. Radicale insufficienza del voto consultivo?

 

Evidentemente dentro una dinamica mondana di logica di potere anche l’istituto del voto consultivo può apparire solo come una pesante riduzione dell’effettivo esercizio del principio collegiale nella Chiesa[20] e in pratica come una esclusione dall’esercizio del potere. In questo giudizio giuocano evidentemente componenti di natura anche psicologica, ma al di là di queste, esso affonda le sue radici in una concezione ecclesiale mutuata da moduli mondani. Una esplicitazione corretta della struttura sinodale della Chiesa propia anche della Chiesa particolare al livello giuridico formale della collegialità, può essere fondata solo sul principio che il Vescovo, essendo il fondamento dell’unità della sua Chiesa, non può demandare la responsabilità di questo servizio a nessuno, neppure ad una maggioranza[21]. Il problema dell’unità, all’interno della comunità cristiana, che fa costantemente l’esperienza dell’esistenza di una maggioranza e di una minoranza, non può perciò essere risolto con l’assolutizzazione del principio maggioritario. Anche al Concilio Ecumenico, dove peraltro i Vescovi godono voto deliberativo, la votazione non può essere intesa come un atto di forza, attraverso il quale una maggioranza impone il suo punto di vista con criterio parlamentaristico.

La votazione è un fatto giuridico-formale, che serve anzitutto a constatare l’opinione dei singoli vescovi che rappresentano le singole Chiese particolari. Non è un atto politico di potere, ma prima di tutto la constatazione di un fatto. Si tratta di constatare quali Chiese hanno raggiunto la comunione su un particolare problema. La ragione per cui la testimonianza del Papa è essenziale, in questo contesto, ha la sua origine nel fatto che la comunione con il vescovo di Roma è costitutiva per la comunione dei vescovi tra di loro[22]. La «Communio ecclesiarum» non è data necessariamente nella maggioranza dei vescovi come tale, ma da quei vescovi che si esprimono in comunione con il Vescovo di Roma[23]. Ciononostante il voto dei vescovi è la testimonianza decisiva, ultima. Non ha solo carattere consultivo, perché il loro compito non è, a questo livello, quello di consigliare il Papa[24] ma quello di testimoniare la fede che hanno e che vivono insieme alla loro Chiesa particolare. A rigore però il voto dei Vescovi al Concilio non è neppure voto deliberativo, se per deliberativo si intende un voto il cui valore vincolante formale è dato semplicemente e nel segno della tradizione volontaristica, dalla volontà umana. È deliberativo nel senso che la testimonianza dei vescovi mantiene tutto il suo peso e la sua forza inappellabile. Nel loro voto emerge in modo inappellabile la fede della loro Chiesa, di tutte le Chiese particolari. La fede non è un fatto che può essere deciso volontaristicamente con criteri politici, la fede può essere solo constatata ed è integrale solo se è vissuta. È un livello, quello di un simile voto, al quale non è possibile nessuna manipolazione politica, nessun cambiamento per opportunismo o tattica parlamentare. La testimonianza può essere cambiata solo per un fatto di conversione, per l’adesione ad una sapienza cristiana che meglio traduca i valori contenuti nella Parola di Dio.

Proprio perché i preti e laici non hanno all’interno dei Consigli Diocesani la stessa funzione dei vescovi al Concilio, la loro testimonianza non è altrettanto qualificata. I preti sono solo i collaboratori del vescovo, anche se collaboratori necessari[25]. I laici sono quei membri del Popolo di Dio che vivono lo stesso mistero della Chiesa e realizzano la stessa comunione cristiana dei vescovi e dei preti, senza avere funzioni ministeriali speciali, ma con quella funzione di servizio che è propia di tutto il popolo di Dio. Al vescovo, in quanto fondamento ultimo della vita della Chiesa particolare, spetta la responsabilità di dare un giudizio autoritario sulla validità della collaborazione del suo presbiterio e sull’autenticità dei carismi di tutti i cristiani della propria Chiesa particolare. Il giudizio del Vescovo è autorevole, vale a dire si esprime geneticamente dentro la struttura propria della Chiesa, solo se si forma dentro la concretezza dei rapporti di comunione di tutto il popolo di Dio; altrimenti sarebbe non solo sociologicamente astratto e avulso dalla realtà, ma, quel che più conta, non si porrebbe come fatto di comunione cristiana, che è la struttura propria della Chiesa[26], diventando in ultima analisi un semplice atto di potere che si esprime in una logica mondana. Se l’ambito nel quale il vescovo deve fare maturare il giudizio ecclesiale è la comunione di tutto il popolo di Dio, ne deriva che la struttura sinodale, individuata come essenzialmente funzionale a tale giudizio, deve essere caratterizzata necessariamente come ambito di comunicazione e di consultazione. La consultazione è essenziale e il voto consultivo è parte integrante e costitutiva del processo dal quale nasce il giudizio dell’autorità. In esso emerge il giudizio diventato comune all’interno di una Chiesa particolare, dove la qualifica di comune non è dunque mai misurabile con criteri matematici di maggioranza. Non solo, ma il giudizio comune non è costituito in quanto tale finché l’autorità non pronuncia la sua parola ultima; ciò ovviamente non elimina il rischio di errori. La possibilità di errore però sta appunto a significare che nella comunione cristiana il valore supremo non è l’affermazione della volontà di nessuno, non importa se maggioritaria o minoritaria, ma la coscienza di tutti che la comunione è una realtà che ci è antecedente, perché fatta da Cristo.

L’istituto del voto consultivo perciò non può essere considerato come un istituto di compromesso tra una prassi autoritaria e una democratica. Non è uno strumento di esclusione dal potere, ma ha una forza vincolante propria, generata dalla struttura della comunione specialmente al livello della Chiesa particolare.

In definitiva sia il voto deliberativo che quello consultivo, sono istituti giuridici che nella Chiesa traducono una realtà radicalmente diversa da quella della convivenza sociale umana. Il loro significato e la loro funzione giuridica sono solo analoghi a quelli degli istituti civilistici moderni, anche se sembra ormai dimostrato che quest’ultimi hanno fortemente subito l’influsso da quelli ecclesiali e in particolare da quelli sviluppati dagli Ordini Religiosi[27]. Sarebbe perciò profondamente errato pretendere per i Consigli Diocesani una funzione deliberativa che renderebbe il parere della maggioranza vincolante anche per il vescovo, il quale invece non può demandare globalmente la sua responsabilità a nessuno perché tradirebbe la sua funzione all’interno della comunità ecclesiale, funzione di giudizio e di decisione sull’unità[28].

Fatte queste considerazioni e premesse, che cercano di cogliere, al di là di una concezione giuridica puramente civilistica anche se eventualmente formulata con concetti canonici, il mistero e la struttura della comunione ecclesiale, che non può essere ridotta a un problema di ripartizione di potere, ne risulta come corollario che la crisi dei Consigli Diocesani non può essere superata con riforme di natura puramente tecnico-giuridiche, quand’anche queste fossero, da un punto di vista canonico, veramente corrette. La crisi è molto più profonda. Tocca prima di tutto la struttura mentale e il criterio con i quali il Popolo di Dio, dai Vescovi ai laici, vi sono impegnati. Tanto più che ogni riforma giuridica è sempre relativa e che la natura delle cose, le situazioni concrete, la limitatezza dei mezzi espressivi, la necessità di rispettare fino in fondo la concezione che le persone hanno della propria libertà, domanderanno sempre di ricorrere all’istituto giuridico-formale del voto[29].

Riteniamo perciò che i Consigli Diocesani non funzionano, o funzionano al di sotto delle aspettative, prima di tutto perché queste strutture non sono sempre usate dall’alto e vissute dal basso con mentalità ecclesiale, ma con un tipo di preoccupazione che le fa concepire come ambiti dove è in giuoco il possesso del potere, cioè come piccoli parlamenti e non come diaconia all’interno di un ambito di comunione.

 

3. L’equivoco associazionistico

 

L’equivoco infatti in cui cadono quasi sempre i cristiani nel concepire il significato degli organismi attraverso i quali si esprime a livello decisionale-operativo la comunione cristiana è il parlamentarismo[30]. Si tende a mettere sullo stesso piano gli organismi sinodali (Concili, Conferenze Episcopali, Sinodi, Consigli Diocesani) e gli istituti più espressivi creati dall’associazionismo democratico per il proprio funzionamento, il Parlamento e le strutture affini[31].

Con ciò si commette un grave errore di metodo assumendo acriticamente dalla realtà secolare elementi che poi risultano corpi estranei all’interno della realtà ecclesiale. La storia della Chiesa dimostra che la realtà secolare ha sempre offerto indicazioni ed elementi per un rinnovarsi della vita della Chiesa, tentativamente però c’è quasi sempre stato uno sforzo per sottoporli a una radicale rifondazione e ristrutturazione[32]. Nella misura in cui questo non è avvenuto si è caduti nel così detto processo di costantinizzazione. Nel caso dei Consigli Diocesani ciò che è assunto acriticamente è l’immagine parlamentaristica, e l’associazionismo democratico che la genera. In esso la persona umana è concepita individualisticamente, e il rapporto tra persona e società risulta di conseguenza dualistico. Da una parte si pone la persona come entità già costituita, radicalmente autonoma e irriducibile nel suo essere individuo[33]; dall’altra si constata la stringenza e il peso degli altri individui e di tutta la società, e questo pone ineluttabilmente il problema della relazione tra i due livelli. L’associazione è appunto l’ambito dove avviene l’incontro tra l’individuo e la società è lo strumento giuridico per porre un nesso tra due realtà già dualisticamente poste in se stesse, con il quale però non si riesce a superare l’autonomia tra la persona e la società, perché essa è radicata ideologicamente in una concezione individualistica della persona[34]. L’associazione è ritenuta necessaria a livello più stringente, dove sono in gioco i bisogni e le necessità più impellenti e generali; è il livello dello Stato moderno, ritenuto come una forma associativa sociale e politica necessaria. È considerata soltanto “conveniente” dove gli interessi sono più particolari e classificati come “privati”, al livello delle varie forme associative generate dalle più svariate motivazioni, economiche, filantropiche, sportive e così via.

Anche la struttura ecclesiale è molto spesso concepita con queste categorie mondane. Da una parte, al di là di ogni possibile concezione personalistica, si considera il cristiano di fatto, come individuo, dall’altra si prende atto dell’esistenza della realtà sociologica creata dalla pluralità dei cristiani, cioè della società ecclesiale con tutte le sue implicazioni di struttura e di organizzazione. Per rispondere all’urgenza di creare un nesso tra i due poli non solo si sono accettati, spesso acriticamente, istituti, imposti o messi a disposizione dal sistema giuridico statale[35], ma soprattutto si è ricorso e si ricorre con una certa facilità a categorie operative prese a prestito dall’associazionismo moderno, invece di fare lo sforzo di attingere alle esigenze categoriali proprie della «communio ecclesiastica». Infatti è evidente la tendenza, anche quando si accetta di usare forme tipicamente canoniche, come per esempio quelle dei Consigli Diocesani o dei nuovi Sinodi Diocesani, che meglio riflettono la struttura tipica dell’elemento sinodale della Chiesa, a distorcere la loro fisionomia autentica. La tendenza è quella di isolare gli scopi specifici e immediati per cui i cristiani si riuniscono (scopi consultivi, caritativi, culturali ecc.) dal contesto generativo globale dell’esperienza cristiana[36].

All’interno di queste forme associative la vita personale del cristiano, vissuta individualisticamente sotto l’influsso della cultura razionalista moderna, è separata dalla vita associativa con la quale si vorrebbe colmare le lacune di quella personale mediante una serie di attività fatte in comune. L’esperienza associativa nella Chiesa diventa così per lo più l’ambito di un’esperienza cristiana ridotta o parziale, dove il cristiano non è chiamato a giuocare globalmente la sua esistenza e la sua fede[37].

Tale situazione ha le sue origini in un equivoco di concezione, perciò non può essere superata che a questo livello. Occorre cogliere a fondo il fatto cristiano come una possibilità di esistenza radicalmente nuova, fondata su una concezione nuova della persona intesa come comunione, quindi come realtà che strutturalmente ricomprende e contiene tutti gli altri e le cose. Il fondamento della struttura di comunione dell’“uomo nuovo” è il Sacramento, solo assumendo la logica comunitaria propria del Sacramento, il cristiano può esprimersi nella sua dimensione personale e sociale senza soluzione di continuità[38]. La Chiesa non può più essere concepita come una grande associazione o come una congerie di associazioni ma come un’organica compagine di comunità fondate nella comunione degli uomini con Dio e degli uomini tra di loro nello Spirito Santo, dove il cristiano, anche quando fosse laico, può giuocare integralmente tutta la sua personalità assumendo tutte le sue possibilità d’espressione. Con lo smantellamento della concezione associazionistica, limitativa della personalità cristiana, e dell’apparato di associazioni che ne sono derivate, verrebbe meno anche il problema del loro buon funzionamento che può essere concepito solo in termini di potere. Ciò porterebbe alla dissoluzione data dalla falsa problematica della democratizzazione della Chiesa, che concepisce le strutture sinodali come ambiti per una gestione più partecipata del potere.

 

3. Prospettive ecclesiologiche per un superamento della crisi

 

1. La comunione come principio formale della vita ecclesiale[39]

 

Il cristiano è l’uomo nuovo. È colui che avendo incontrato Cristo possiede di fatto una struttura, non solo morale ma ontologica, nuova[40]. È un uomo nuovo perché riconosce nel mistero della vita, morte e risurrezione di Cristo, il fatto che lo costituisce nel suo essere cristiano e nella sua identità personale. L’uomo nuovo ha nel Cristo la causa ultima della sua salvezza e della sua speranza. La salvezza infatti ci è data da Cristo, non è opera delle nostre mani. L’uomo è chiamato a riconoscere questa salvezza facendola criterio unico della sua vita intesa in tutta la sua concretezza. L’unità della persona, e di essa con le altre persone, è già dentro il cristiano, in radice, in forza del battesimo che lo rinnova nello Spirito Santo con il dono della fede[41]. L’uomo nuovo è solo colui che sa di appartenere a Cristo, e sa anche che appartiene a Cristo con tutti gli altri, che gli altri sono parte costitutiva di lui stesso perché appartengono anch’essi a Cristo, come Cristo appartiene al Padre. Egli sa inoltre che questa appartenenza genera in lui un criterio nuovo ed unico per affrontare la realtà e l’esistenza.

Il cristiano possiede perciò un metodo nuovo di vita. La sua vita è una reale tensione al coinvolgimento totale di sé con gli altri. È l’uomo nuovo che, non appartenendo più a se stesso ma a Cristo, tende a mettere in comune tutti i beni spirituali e materiali, nessuno escluso, vive di comunione.

Un aspetto preminente di questa nuova metodologia è quello del giudizio comune o giudizio di comunione[42]. La sua importanza deriva armonicamente dall’importanza che il giudizio ha nella vita umana in quanto ne anima, genera e controlla lo sviluppo. Se la vita cristiana è comunione, è impossibile che tale non sia anche il giudizio che la regge e la accompagna. Il giudizio comune non deve essere inteso né come una applicazione deduttivistica di un criterio astratto alla realtà in cui si vive, né associazionisticamente come sforzo per pervenire ad una opinione comune comunque raggiunta, ma come tensione costante a leggere la realtà, quotidianamente compartecipata e condivisa, secondo il principio della fede generata dall’unico Spirito, che ha fatto dei primi cristiani “un cuore solo ed un’anima sola”[43].

La realtà del giudizio comune in definitiva non e misurabile con nessun criterio razionale. Gli strumenti inventati dalla scienza giuridica, anche se indispensabili e imprescindibili, non riescono nell’ambito ecclesiale ancora meno che in quello secolare, a controllarla in tutte le sue dimensioni che sono nella Chiesa quelle del mistero[44].

La concezione dell’uomo come uomo nuovo, inaugurata da Cristo, è l’unica che risolve l’antinomia tra persona e società e permette anche di concepire in modo nuovo il pluralismo all’interno della Chiesa. Se la personalità cristiana si costituisce solo all’interno di un ambito di comunione, ne deriva che anche il pluralismo ecclesiale non può essere concepito come pluralismo di individui, ma fondamentalmente come pluralismo di Chiese particolari o di comunità[45].

La Chiesa universale infatti non è data dalla somma di tutti i cristiani riuniti in una grande diocesi, ma prima di tutto dalla comunione di tante Chiese particolari. Questa struttura si ripete anche all’interno delle singole Chiese particolari, dalle quali e nelle quali si realizza la Chiesa universale[46]. Se il pluralismo ecclesiale è costituito in primo luogo da un pluralismo di comunità che hanno il loro momento genetico nella celebrazione dell’eucaristia, è evidente che la tecnica del suffragio universale non può mai rappresentare il criterio esaustivo di espressione dell’opinione ecclesiale[47].

Il fatto della comunione domina tutta la personalità cristiana e ne informa tutte le espressioni. Non è quindi una cosa da fare tra le altre cose, è il modo di fare ogni cosa[48]. Questo è capitale per intendere rettamente il significato delle strutture sinodali e di conseguenza il modo di lavorare in esse. Lo specifico dell’elemento ecclesiale, vale a dire il lavoro per un giudizio comune operativo-decisionale all’interno della comunità cristiana, non può mai essere ridotto ad una forma di attivismo associazionistico. Il “fare o decidere qualche cosa assieme” può eventualmente esaurire il significato delle associazioni secolari, come i circoli culturali, le società economiche e altre consimili, che non chiedono alle persone di giocarsi integralmente o comunque al di là delle prestazioni richieste. I cristiani per contro non si riuniscono mai solo per fare o decidere qualcosa assieme, a dare solo una prestazione, ma per vivere la comunione facendo e decidendo assieme. Il cristiano, e perciò anche il laico, è chiamato a giocare l’interezza della sua personalità a ogni livello e in ogni riunione, e non a dare semplicemente il contributo della propria intelligenza e della propria competenza. Riunirsi implica per definizione una messa in gioco della fede. La comunione non è in funzione dell’attività, ma l’attività in funzione della vita in comunione. La ragione ultima infatti per cui i cristiani si riuniscono è data dal fatto che essi si riconoscono convocati da Cristo, originati e costituiti da Lui nella comunione. Solo in questo riconoscimento essi diventano capaci di giudizi e decisioni per la Chiesa. Questo metodo del riconoscimento nel fatto cristiano e nella comunione deve determinare il lavoro nelle strutture sinodali a tutti i livelli, sia della Chiesa universale che particolare, se si vuole che rispondano alla loro funzione specifica di generare i giudizi indispensabili per risolvere i problemi concreti della vita della Chiesa. Tutta la tradizione conciliare della Chiesa ha sempre applicato questo metodo, qualche volta magari formalizzandolo e riducendolo nelle sue dimensioni, comunque affermandolo in linea di principio[49]. Ciò deve essere recuperato nel suo significato e rivissuto nel suo contenuto originario al di là di ogni formalismo, in una prospettiva che non separi l’incontro operativo e specifico dell’esperienza di conversione alla fede che ogni membro è quotidianamente chiamato a vivere anche nel contesto specifico delle strutture sinodali della Chiesa come i “Consigli diocesani”[50].

Alla luce di questo discorso, tutte le articolazioni sinodali anche delle diocesi si pongono come ambiti di comunione viva, tesi a generare un giudizio comune sulla vita della comunità tutta, come contributo all’azione pastorale di cui il vescovo è responsabile ultimo. Si tratta di un servizio nella comunione, che recuperando una categoria biblica può essere sinteticamente chiamata diaconia. Il problema del funzionamento delle nuove strutture consultive diocesane è perciò essenzialmente il problema della conversione ad una simile concezione categoriale di esse. Da una simile concezione del cristiano e della Chiesa come realtà di comunione si possono trarre alcune conseguenze.

 

2. La costruzione della Chiesa come impegno globale del cristiano

 

Il primo compito del cristiano è quello di costruire la Chiesa, affinché attraverso la Chiesa possa avvenire l’annuncio esplicito della salvezza al mondo.

L’annuncio cristiano non può avvenire individualisticamente, è un annuncio di comunione generato da una comunione[51]. La comunione ecclesiale è la proposta cristiana di liberazione radicale e globale dell’uomo. La costruzione della Chiesa è il compito che investe e costituisce tutta la personalità del cristiano, ricomprende unitariamente tutte le sue energie e tutto il suo tempo. È la preoccupazione che al di là di ogni peccato assorbe e impegna in una tensione di preghiera tutta la sua esistenza. La costruzione della Chiesa è il compito immediato al quale è chiamato indistintamente ogni cristiano, prescindendo da qualsiasi funzione ministeriale, perciò è il compito al quale è chiamato anche il laico. Il laico infatti non è costituito in quanto tale dalla sua indole secolare, ma dalla partecipazione «suo modo et pro sua parte» all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo[52].

Costruendo la Chiesa il cristiano costruisce il mondo, lo anima, lo trasforma e redime perché la Chiesa è immanente al mondo. Realizzando un modo nuovo di vivere i rapporti umani, affettivi, culturali, economici, sociali e politici, costruisce una nuova realtà di mondo senza il rischio di cadere in una situazione di dualismo. Come infatti il cristiano è chiamato a rispettare la logica interna della Parola e del Sacramento, così deve rispettare il valore e la logica interna delle realtà terrestri in obbedienza al loro statuto proprio. La vita del cristiano nel mondo è segnata e sostenuta dalle categorie generate dalla comunione ecclesiale senza conflitti e soluzione di continuità-se non per un peccato nella Fede-con la verità intrinseca alle realtà terrestri. Intesa in questo senso non esiste un’autonomia del cristiano come persona, ma solo delle cose[53]. Il suo compito consiste nel saper rapportare le realtà terrestri usando le categorie proprie della fede.

Non esiste perciò un’autonomia del laico nei confronti della gerarchia, nel senso che non esiste un ambito in cui il laico costruisce il mondo in modo disgiunto e indipendente, senza costruire nello stesso tempo la Chiesa. Può costruire però la Chiesa solo in comunione con tutto il popolo di Dio e perciò anche con la Gerarchia[54]. Il rapporto tra laicato e gerarchia è perciò un rapporto di comunione, non di sottomissione né di potere.

Tolto così l’equivoco dell’esistenza per il cristiano di un “impegno autonomo”, le competenze dentro la comunione cristiana risultano doni (carismi) la cui funzione è quella di orientare la comunità verso l’esperienza del giudizio comune. Ciò viene a sottolineare che l’impegno cristiano non può essere che globale. Se il cristiano giuoca la sua esistenza costruendo la Chiesa, ne deriva che deve giocarsi totalmente. Questo elimina ogni rischio di clericalismo, che consiste per l’appunto nella pretesa di inserirsi nella Chiesa mantenendosi al di fuori di una esperienza globale di comunione cristiana, soprattutto quando la sua vocazione è quella di svolgere un servizio nelle strutture sinodali della comunità cristiana che lo ha chiamato.

L’efficacia dei Consigli Diocesani dipende perciò, in primo luogo, dalla misura in cui persone che vi fanno parte, Vescovo compreso, sono autorevoli, per la disponibilità e totalità con la quale si lasciano coinvolgere tra di loro dalla logica della comunione e per la prudenza con la quale esplicano la funzione o usano il carisma della competenza loro propria. Al di fuori di questa dinamica si cade inevitabilmente in una dinamica parlamentaristica da ultimo fondata su un giuoco di forze e sull’autorità giuridico-formale delle decisioni prese[55].

 

3. La diaconia come efficienza cristiana

L’operatività di un organismo decisionale consultivo, e perciò anche la sua forza di annuncio di comunione dentro la Chiesa particolare, non possono essere misurate in ultima analisi con un criterio di efficienza, anche se la tensione all’efficienza deve essere reale e totale. L’associazionismo e il parlamentarismo si esprimono e lavorano essenzialmente secondo una logica mondana di efficienza, la quale non mira solo a raggiungere risultati concreti, ma tende a controllare con criterio puramente razionale gli effetti del proprio sforzo. Gli elementi che sfuggono a questo sforzo di pianificazione sono attribuiti all’ignoranza, ad una non-scienza, ad una incapacità provvisoria di calcolo. L’efficienza è un valore umano il quale non può essere semplicemente trasposto in ambito ecclesiale, dove non è mai criterio di giudizio ultimo, perché la forza della proposta cristiana non dipende da una sapienza umana. Il criterio dell’efficienza è il prodotto di una logica di potere. Questa logica mondana non può mai essere totalmente corretta da nessuna morale sociale o filosofica, perché solo il mistero della morte e resurrezione di Cristo è in grado di spezzare alla radice ogni categoria di potere, fosse pure umanamente molto equilibrata e morale. Anche la logica dell’interesse, che al pari di quella del potere, da cui deriva, muove e domina l’operatività mondana, non può essere eretta a criterio e sostegno del gesto cristiano[56]. L’interesse è superato e capovolto cristianamente a tutti i livelli, dal concetto di diaconia, la quale è servizio fatto nella gratuità: “Chi perde la sua vita per amor mio la troverà”[57].

La crisi dei Consigli Diocesani può essere ora più facilmente compresa come derivante dall’uso più o meno consapevole di criteri di efficienza e di interesse. In essi i cristiani infatti, si arrendono di fronte agli ostacoli che sono inevitabili nel funzionamento di siffatti organismi, mentre la gratuità sola li supera. Quando lo scopo prefisso non è raggiunto, o l’autorità non decide secondo la proposta fatta, o il lavoro richiesto sembra sproporzionato agli impegni e interessi personali, l’unico criterio che salva il funzionamento e di conseguenza l’efficienza ecclesiale degli organismi consultivi può essere solo quello della gratuità, che è diaconia senza pretesa di nessun risultato tangibile inmmediato, personale o comunitario.

 

4. Testimonianza invece di rappresentanza

 

L’idea fondamentale del parlamentarismo è quella della rappresentatività. Il potere è demandato dal popolo a persone che lo rappresentano, sulla base del suffragio universale. Nella comunità cristiana il concetto di rappresentatività è fondamentalmente diverso per due ordini di ragioni. Anzitutto le persone che guidano il Popolo di Dio, non sono investite, anche quando fossero elette, del potere in forza del quale esercitano la loro diaconia, dal basso, ma dall’alto, attraverso il Sacramento e la Missione. Al livello della Chiesa universale solo il Papa o tutto il Collegio Episcopale possono parlare in nome della Chiesa, cioè rappresentare la Chiesa. Al livello della Chiesa particolare, solo il vescovo rappresenta la Diocesi, infatti è lui, e non uno dei Consigli Diocesani, a rappresentare la Diocesi in seno al Concilio Ecumenico[58], né i Consigli Diocesani senza il vescovo, possono rappresentare i cattolici di una Diocesi.

In secondo luogo la fede non è rappresentabile da nessuno, perché la salvezza è un fatto eminentemente personale, non è imputabile a nessuno[59]. Non ci si può far salvare da un altro, come ci si può far rappresentare da un terzo nell’ambito politico, economico o anche più strettamente personale, come nel matrimonio per procura[60].

È per contro affermazione corretta il dire che il vescovo rappresenta la fede dei membri della sua Chiesa particolare, per esempio al Concilio Ecumenico. Il concetto di rappresentanza assume però in questo contesto un significato diverso, originalmente ecclesiale. Rappresenta questa fede solo nella misura in cui la sua fede è ortodossa, e quella corrisponde alla sua. Non la rappresenta in forza di un mandato dei suoi diocesani, ma la testimonia in forza della sua partecipazione più piena all’ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini. La traduzione più corretta del concetto di rappresentanza è perciò in sede ecclesiale quella di testimonianza. Solo la testimonianza del vescovo in merito alla sua Diocesi ha valore vincolante ultimo, cioè giuridico, con valore appunto di voto “deliberativo”, in seno al Collegio Episcopale. Ne consegue perciò: da una parte che il rapporto tra le persone dentro la comunione non è riducibile a nessuna categoria giuridica civile-infatti la natura del diritto canonico è solo analogica a quella del diritto secolare-[61] dall’altra che i Consigli Diocesani non sono organi rappresentativi nel senso parlamentaristico della parola. I membri degli stessi non rappresentano la fede di nessuno, ma solo la propria fede. Per analogia con il vescovo, ma solo per analogia, perché il loro gesto non ha la stessa forza vincolante, testimoniano la fede delle comunità dalle quali provengono.

Tutto questo comporta delle conseguenze. I membri dei Consigli Diocesani non sono rappresentanti parlamentari, ma semplicemente persone scelte, magari per elezione, per consigliare ed aiutare il vescovo, nel governo della Diocesi. Ciò non toglie che la loro scelta non possa, anzi debba avvenire con criteri molto “rappresentativi”, proprio perché il nesso del vescovo con le parrocchie e gli altri gruppi comunitari, organizzati o meno, deve essere stretto e funzionale. La loro funzione perciò non è quella di rappresentare democraticamente la fede degli altri e la loro prima diaconia è quella di realizzare l’esperienza di fede comune a tutto il popolo di Dio anche dentro l’ambito in cui devono svolgere il loro compito specifico[62]. Una simile concezione esclude la possibilità di cercare nello stile parlamentare, sempre di più determinato dai partiti politici e perciò della lotta per il potere tra le forze della destra e la sinistra, la soluzione dei bisogni della comunità cristiana. La formazione anche nella Chiesa di fronti tendenti alla conservazione o alla progressione, è un atto praticamente inevitabile a causa del nostro limite umano. Questi fronti sono sempre stati i limiti di tutti i Concili. Il fenomeno deve essere semplicemente accettato in quanto tale, senza sottovalutarne l’aspetto positivo, cioè la possibilità che attraverso una pluralità di accenti si pervenga alla lettura più completa della complessità dei problemi. Ciò che è scorretto è l’assolutizzare questa dialettica fino a definirla necessaria al progresso nella Chiesa, senza accorgersi che questo non può essere previsto e programmato, e perciò neppure schematizzato, secondo simili categorie che sono troppo ristrette e inadeguate a cogliere una realtà che nel suo farsi è mistero. Ancora una volta si tratta di assumere acriticamente elementi ideologici che hanno la loro radice nella matrice di pensiero idealistica.

 

4. Conclusione

 

La comunione è il principio formale della comunità cristiana, e di conseguenza anche di tutte le sue strutture e di tutti i suoi istituti giuridici[63].

Il rapporto tra il Vescovo e i fedeli non può essere risolto ultimamente in termini di controllo di potere, ma solo in termini di esperienza di comunione. Le forme di controllo introdotte nel corso della storia per contenere gli abusi di potere da parte della gerarchia, raramente hanno generato un’autentica esperienza di comunione cristiana[64].

Applicato ai vescovi il discorso di comunione implica non solo una profonda trasformazione della mentalità feudale a cui spesso sono ancora legati, ma anche un ridimensionamento delle loro competenze, nella misura in cui queste sono state concepite dall’ordinamento canonico attuale con criteri troppo individualistici, fuori da ogni contesto di informazione e consultazione.

I Consigli Diocesani sono stati introdotti dal Vaticano II come esplicitazione dell’elemento sinodale proprio alla comunione ecclesiale. La loro competenza consultiva tende ad abbracciare tutti i settori della vita della Diocesi e della missione della Chiesa[65]. Ciò non elimina la responsabilità eminentemente personale del Vescovo e il fatto che certi rapporti e problemi esigono per loro natura, o di essere trattati tempestivamente, o di essere protetti con la discrezione. Si tratta di saper leggere intelligentemente le situazioni e la natura delle cose.

Il potere discrezionale del vescovo è garanzia di comunione, perché esclude ogni forma di collettivismo meccanico. La comunione tuttavia, se non vuole ridursi a un’espressione solo sentimentale e perciò molto facilmente eludibile esige dai Vescovi di non sottrarsi arbitrariamente al dovere dell’informazione e della consultazione. Vivere in comunione con i propri fedeli significa come norma invitarli ad assumere una funzione di collaborazione in tutti i settori della vita ecclesiale, senza fare preclusioni di natura puramente politica, senza usare categorie di potere e di forza.

Al Vescovo è domandato di investire i Consigli Diocesani di tutte le responsabilità e competenze necessarie per preparare e costruire il giudizio comune indispensabile per guidare con un criterio cristiano di servizio la vita della Diocesi. Così egli attua la sua propria diaconia, che risulta la prima, e ha valore di segno, in quanto viene da Colui che è il fondamento dell’unità del popolo di Dio e il primo responsabile della vita della comunione.

 

[1] Cfr. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. Aspetti storico-giuridici e metodologico-sistematici della questione: La Scuola Cattolica 96 (1968) p. 3-42, 107-141, spec. p. 117 ss.

[2] La letteratura in proposito è vastissima, cfr. per es. Demokratisierung der Kirche. Ein Memorandum deutscher Katholiken. Herausgegeben vom Bensberger Kreis, Mainz 1970; H. Küng, Mitentscheidung der Laien in der Kirchenleitung und bei kirchlichen Wahlen: ThQ 149 (1969) p. 147-165, Tra le voci critiche sul processo di democratizzazione cfr. per es. J. Ratzinger- H. Maier, Demokratie in der Kirche. Möglichkeiten, Grenzen, Gefahren, Limburg 1970; G. May, Demokratisierung der Kirche. Möglichkeiten und Grenzen, Wien-München 1971 (Quest’ultimo volume è stato recensito con preoccupazione critica da A. Aymans nell’AfkKR 140 (1971) p. 299-303).

[3] Tra i numerosissimi titoli cfr. per es. il volume La Chiesa locale a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970.

[4] Sul diverso sviluppo dell’ecclesiologia in Oriente e in Occidente cfr., tra i numerosi scritti di Y. M.-J.Congar che toccano la questione, l’articolo De la communion des Eglises à une ecclésiologie de l’Eglise universelle. L’ Episcopat de l’Eglise universelle, Paris 1964, p. 227-260; per un tentativo di sistematizzazione del problema da un profilo strutturale-giuridico cfr. per es. anche E. Corecco, Il Vescovo, capo della Chiesa locale, protettore e promotore della disciplina locale: Concilium 4 (1968) p. 106-121.

[5] Cfr. per es. K. Mörsdorf, Kommentare II LThK, Freiburg 1967, p. 151.

[6] Sul problema cfr. soprattutto W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung, München 1971, spec. p. 318 ss.

[7] Il termine “collegiale” non è di origine canonica ma romana (cfr. W. Aymans, Kollegium und kollegialer Akt im kanonischen Recht, München 1969, p. 3-5; sulle vicende del termine nella tradizione teologica latina cfr. J. Ratzinger, La collegialità episcopale. Spiegazione teologica del testo conciliare: “La Chiesa del Vaticano II. Opera collettiva diretta da G. Baraúna”, Firenze 1965, p. 733-736). Etimologicamente perciò non può esprimere con adeguatezza la realtà che è chiamato a significare, perché essa non è fondata sulle eguaglianza di funzione dei diversi membri del Popolo di Dio. Il termine “sinodale”, che può vantare una tradizione più forte e ininterrotta specialmente grazie alla Chiesa orientale e che non è stato confiscato dal Vaticano II per nessuna struttura ecclesiale particolare, potrebbe essere usato per esprimere la struttura operativa della communio a tutti i livelli della Chiesa sia universale che particolare.

[8] Sul problema cfr. soprattutto O. Saier, Die Communio in der Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils (Diess.), München 1970 (in corso di stampa).

[9] Sarebbe del resto urgente eliminare dalla terminologia teologica e canonistica ogni concetto preso a prestito dai sistemi politici statali essendo questi radicalmente inadeguati per esprimere la realtà della Chiesa. L’idea di “democrazia” per es., può forse connotare l’uguaglianza di tutti i cristiani di fronte a Dio in ordine alla salvezza, ma poiché implica in modo essenziale il concetto che il potere viene dalla base, è incompatibile con la struttura costituzionale della Chiesa. Il termine “monarchia” a sua volta riesce ad esprimere l’idea di subordinazione gerarchica delle funzioni, ma snatura il regime proprio della Chiesa, perchè le istanze ecclesiali inferiori hanno in molti casi una giustificazione propria, un potere ecclesiale proprio, una competenza ed una responsabilità inalienabili, che non sono derivate dall’alto. A questo proposito cfr. anche A. Schöpping, Laien-und Pastoralräte: Der Seelsorger 39 (1969) p. 39; Y. M.-J. Congar, Conclusion: Le Concile et les Conciles, Chevetogne 1960, p. 301.

[10] Si tratta del Consiglio Presbiterale, di quello Pastorale (cfr. Vat. Ep. art. 27 cpv. 5, art. 28 cpv. 2; Vat. Presb. art. 7 cpv. 2; Eccl. Sanc. I, art. 15-16) e dei Consigli proposti, anche a livello diocesano, dal Decreto sull’Apostolato dei Laici (Vat. Laic. art. 26 cpv. 1-2).

[11] Da questo punto di vista le obiezioni più comuni fatte contro la strutturazione dei nuovi Consigli Diocesani sono due. Prima di tutto la mancanza di chiarezza nella ripartizione delle competenze, sia tra i diversi Consigli, sia tra i singoli Consigli e il Vescovo. In secondo luogo non soddisfa la funzione prevalentemente di studio e di ricerca data al Consiglio Pastorale, dove sono presenti anche i Laici.

Per ovviare a queste lacune strutturali, che senza dubbio contribuiscono a creare un’atmosfera di insoddisfazione, si possono pensare diverse soluzioni. Un’attenta valutazione dell’esperienza iniziata con i nuovi Sinodi Diocesani o Interdiocesani (spec. in Germania, Austria e Svizzera), potrebbe dare delle indicazioni sulla possibilità e l’opportunità di rendere stabile questa rinnovata struttura sinodale, rifondendo in essa tutti gli altri Consigli Diocesani o Interdiocesani come Commisioni permanenti. Resterebbe comunque ancora da risolvere il problema dell’esatta collocazione del Clero, che nei Sinodi sopraddetti ha trovato una risposta in base a criteri molto empirici. Preti e laici sono stati messi per lo più sullo stesso piano, con la differenza che al Clero è stato riconosciuto un effettivo numerico proporzionalmente superiore (nel progetto di Statuto del Sinodo 72 in Svizzera per es. è previsto un effettivo di Clero del 50%). Il problema non può essere risolto con criteri solo quantitativi, perché il Prete si distingue dal Laico per una partecipazione qualitativamente diversa agli uffici sacerdotale, profetico e regale di Cristo [cfr. K. Mörsdorf, Die Stellung der Laien in der Kirche: RDC 10/11, 1960/61, 221]. M. Kaiser (Aussagen des Zweiten Vatikanischen Konzils über die Kirchengewalt: Ius Sacrum. K. Mörsdorf zum 60. Geburtstag, ed. da A. Scheuermann e G. May. München-Paderborn-Wien 1969, p. 269), sostiene che la differenza sta solo nella capacità del Presbitero di rappresentare Cristo come Capo della Chiesa in forza del Sacramento dell’Ordine. A parte il fatto che la tesi del Kaiser non è comprensibile senza accettare la prima, si tratterebbe pur sempre di saper valutare con correttezza le conseguenze che devono essere tirate sul piano strutturale-giuridico, della differenza esistente tra Preti e Laici. Il Vaticano II ha imposto solo l’istituzione del Consiglio Presbiterale (Vat. Presb. art. 7 cpv. 2), riconoscendogli per di più in certe questioni di particolare importanza il diritto di essere ascoltato (Eccl. Sanc. I art. 21 §§ 2-3). In questo fatto potrebbe essere emersa la coscienza teologica della Chiesa, anche se l’elaborazione dottrinale non è stata esauriente, che al Clero deve essere riconosciuta anche al livello operativo decisionale una funzione specifica. Per salvare l’unità del Presbiterio (al quale appartiene anche il Vescovo) e di conseguenza il contatto diretto tra il Vescovo e il Consiglio Presbiterale, si potrebbe concepire quest’ultimo come una Commissione presieduta dal Vescovo e comprendente tutti i Preti appartenenti all’unico Consiglio Diocesano o Sinodo. Ad essa potrebbero essere attribuite poche e precise competenze concernenti in primo luogo il rapporto tra il Vescovo e il Clero. Prima di esprimere il proprio voto questa Commissione potrebbe essere tenuta ad ascoltare il parere di tutto il Consiglio Diocesano o Sinodo. Sulla struttura teologica e giuridica del Presbiterio cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyterium: AfkKR 136, 1967, p. 341-491; H. Schmitz, Das Presbyterium der Diözese: TThZ 77, 1968, 133-152.

[12] Non si può per esempio non denunciare il fatto gravissimo che in molte Diocesi specialmente italiane, come quella molto importante di Milano, non siano ancora stati istituiti i Consigli Pastorali e che la scelta dei membri dei Consigli presbiterali sia avvenuta troppo spesso con criteri paternalistici, nel solco di una tradizione e di una prassi monarchica plurisecolari.

[13] Cfr. la critica fatta da K. Mörsdorf (Die andere Hierarchie, Eine Kritische Untersuchung zur Einsetzung von Laienräten in den Diözesen der Bundesrepublik Deutschland, AfkKR 138, 1969, p. 504-509) a certi Statuti sinodali delle Diocesi nella Repubblica Federale Tedesca.

[14] L’opera fondamentale sull’elemento sinodale nella Chiesa è quello di W. Aymans (Das synodale Element in der Kirchenverfassung, o. c.). L’Aymans arriva alla conclusione che il luogo teologico dell’elemento sinodale è la Communio Ecclesiarum, nella quale l’elemento collegiale-episcopale ha una funzione costitutiva. Ciò non esclude però che si possa parlare anche al livello della Chiesa particolare di una struttura sinodale, la quale ha comunque un carattere proprio in quanto il principio e il fondamento della stessa non è un Collegio, ma il Vescovo diocesano. Questa analogia è fondata sul fatto che non solo la Chiesa universale è presente nella Chiesa particolare, ma anche le Chiese particolari sono strutturate sul modello della Chiesa universale (LG 23, 1). Il fondamento della partecipazione dei preti e dei laici alla struttura sinodale della Chiesa particolare (Consigli Diocesani ecc.) è la loro comune, anche se qualitativamente diversa, partecipazione ai tre munera di Cristo. Cfr. anche E. Corecco Note sulla Chiesa particolare e sulle strutture della Diocesi di Lugano, Civitas 24, 1968-69, p. 628-635.

[15] È sintomatico a questo proposito che la critica più radicale sia stata quella che ha denunciato i nuovi Consigli Diocesani come organismi introdotti dal sistema per conservare lo status quo. Cfr. per es. G. Piano, La diocesi di Novara: riforma di struttura o conversione di mentalità?, Testimonianze 13 (1970), n. 122, p. 149-150; nella stessa linea si muove anche M. Cumenetti, Verso nuove strutture nella Chiesa, La Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, o. c., p. 431.

[16] Verfassungsfragen sind nicht Rechts-sondern Machtfragen (Ferdinand Joh. Gottlieb Lassalle) cfr. da U. Allers, Lassalle, StLex V, Freiburg 1960, p. 283.

[17] I parlamenti sono Organi di uno Stato Costituzionale nel quale, attraverso una Aufteilung der Macht ein System wirksamer Beschränkung für das Handeln der Regierung besteht (C. J. Friedrich) cit da G. E. Kafka; Parlament, StLex VI, o.c., p. 174.

[18] Il principio americano dei checks and balances ha la sua origine nella dottrina della separazione dei poteri di Montesquieu e perciò nel principio Le pouvoir arrête le pouvoir. Tale concezione non proviene dal pensiero cristiano ma dalla Scuola razionalista del diritto naturale, la quale avendo rotto con il pensiero medioevale, ha negato con Ch. Thomasius ogni rapporto tra il diritto naturale e quello divino, perdendo così ogni aggancio con il trascendente. Venuta a mancare un’autorità trascendente, la filosofia moderna dello Stato è stata costretta a vedere nella ragione umana l’unico criterio e l’unica istanza per la ripartizione del potere. Che questo sistema sia radicalmente estraneo alla struttura della Communio ecclesiastica non merita neppure di essere sottolineato. Per l’applicazione del principio dei checks and balances congiunto per di più al diritto di veto, tipico strumento di potere, si è espresso H. Küng, Mitentscheidung der Laien in der Kirchenleitung und bei Kirchlichen Wahlen, l. c., p. 147-165.

[19] Cfr. sotto II 1.

[20] Bisogna distinguere l’aspetto formale da quello materiale della collegialità. Nel senso materiale la collegialità si identifica con l’elemento sinodale nella sua valenza giuridica, la quale è solo uno degli aspetti dell’elemento sinodale nella Chiesa (altri aspetti sono per es. l’aiuto vicendevole tra le Chiese ecc.). Nel senso formale la collegialità si esprime nelle decisioni di un collegio quando la volontà dei singoli membri sono integrate fino a diventare l’unico atto di volontà del collegio come tale; in questo senso esse si distinguono per es. dagli atti collettivi. Cfr. W. Aymans, Das synodale Element, o.c.

[21] Il servizio del Vescovo potrebbe infatti, in determinati così, anche essere quello di proteggere una minoranza.

[22] Di conseguenza la communio con gli altri membri del Collegio episcopale ha carattere consecutivo, cfr. W. Aymans, Die Communio Ecclesiarum als Gestaltgesetz der einen Kirche, AfkKR 139, 1970, p. 90.

[23] Secondo la dottrina del Vaticano II la communio plena è gerarchica; cfr. O. Saier, Communio in der Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils, o.c. Giova notare che proprio su questo punto l’ecclesiologia latina si è differenziata da quella orientale; cfr. per es. W. de Vries, Neuerungen in Theorie und Praxis des römischen Primates. Die Entwicklung nach der konstantinischen Wends: Concilium, 7, 1971, p. 253.

[24] Per questa ragione riteniamo che lo Statuto attuale dato al Sinodo dei Vescovi, fondato sul carrattere puramente consultivo del voto, sia dal punto di vita ecclesiale discutibile. D’altra parte però, se si dovesse fare del Sinodo dei Vescovi un piccolo Concilio Ecumenico permanente (con voto deliberativo) non concepibile del resto alla stregua del Sinodo Endemusa data la sua struttura essenzialmente acefala (cfr. V. Pospischil, Der Patriarch in der Serbisch-Orthodoxen Kirche, Wien 1966, p. 63-78; J. Hajjar, La collegialità nella tradizione orientale, La Chiesa del Vaticano II, a cura di G. Baraúna, ed.Vallecchi, Firenze 1965, p. 818-831), si porrebbe il problema della sua rappresentattvità. Non sarebbe perciò infondato pensare che il valore ecumenico, cioè universale delle sue decisioni collegiali (non più fondate solo sul primato papale) potrebbe risultare solo da una susseguente recezione da parte dell’Episcopato universale, come è stato il caso per molti Concili particolari e generali. Per comprendere e accettare la formula del Sinodo dei Vescovi con voto deliberativo, si potrebbe ricorrere all’idea dell’istituto canonico del Votum per compromissum con il quale si è cercato di fare una sintesi tra il principio della pars sanior e quella della pars maior (cfr. L. Moulin, Sanior et maior pars; Note sur l’évolution des techniques électorales dans les Ordres religieux du VIe e XIIIe siècle, RHDFE 36, 1958, p. 493-501). Ciò richiederebbe però, che l’Episcopato Universale fosse chiamato a decidere sulle trattande da mettere all’ordine del giorno del Sinodo, al quale volta per volta cederebbe la propria competenza. Anche in questo caso tuttavia si porrebbe il problema della legittimità di quelle decisioni che più esplicitamente e immediatamente toccano il contenuto della fede, dato che nessuno può demandare ad altri il compito di testimoniare la propria fede (per un’analisi più approfondita di questo problema cfr. sotto II 4).

[25] Anche se l’Ordine sacerdotale deriva dalla pienezza del sacerdozio del Vescovo, e non viceversa, ciò non significa che esso si sia ramificato dall’Episcopato solo per ragioni pratiche di supplenza. Abbandonando la tradizione che risale a S. Gerolamo, la teologia moderna si orienta nel senso di ritenere il Presbiterato come esplicitazione sinodale necessaria dell’Ufficio episcopale; cfr. T. G. Barberena, Kollegialität auf diözesaner Ebene. Das Priestertum in der Weltkirche, Concilium 1, 1965, p. 636; G. d’Ercole, Die Priesterkollegien in der Urkirche, Concilium 2, 1966, p. 487-492.

[26] Lo studio più ampio sul significato ecclesiologico della comunione nei testi del Vaticano II è stato fatto da O. Saier, Die Communio in der Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils, o.c., passim.

[27] Cfr. L. Moulin, Sanior et maior pars, l.c., p. 368, n. 1.

[28] La concessione del voto deliberativo ai Consigli Diocesani in casi e problemi particolari è possibile, non da ultimo perché esiste una lunga tradizione in merito, ma ciò non toglie che sia molto problematica. Il can. 105 CIC prevede questa possibilità, ma non bisogna dimenticare che il rapporto tra il Vescovo e il Capitolo Cattedrale, per fare un solo esempio, è stato per lo più concepito con criteri che miravano a un cantrollo dell’attività episcopale piuttosto che a partire da una concezione della Chiesa intesa come comunione. Del resto anche l’eventuale valore deliberativo del voto, quando non fosse ancorato nel diritto comune, dipenderebbe sempre da una decisione discrezionale del Vescovo. Ciò, oltre che a ingenerare una falsa impressione di “democraticità” finirebbe, quando il voto deliberativo fosse concesso in modo sistematico, per svalutare il valore del voto consultivo. D’altra parte la concessione solo occasionale del voto deliberativo, proprio perché non sfuggirebbe all’arbitrarietà, potrebbe diventare strumento per un governo autoritario. Anche nel moderno Stato di Diritto l’autorità è “democratica” proprio perché è costretta a rispettare con fedeltà assoluta la natura delle cose (la Costituzione) la quale non permette di creare arbitrariamente il caso d’eccezione. Ogni manipolazione circa le modalità di potere è tipica dei regimi autoritari.

[29] Notiamo a questo proposito che la tradizione della Chiesa conosce il voto quasi per inspirationem. Basterebbe ricordare i casi di elezione di vescovi, per acclamazione popolare, come per esempio quella di S. Ambrogio. Come tecnica elettorale il voto quasi per inspirationem risale almeno al V secolo e fu applicato molto più di frequente di quanto comunemente si crede. In realtà però non si tratta di una forma vera e propria di votazione perchè per sua natura non tende a contare eventuali voti dissidenti. Solo successivamente, per far fronte agli abusi, è stata strutturata come forma elettorale fondata sul principio rigoroso dell’unanimità e limitata perciò a corpi elettorali qualificati. Deve comunque essere considerata come l’espressione della volontà comune di un ambito ecclesiale dove la comunione di giudizio raggiunge un’intensità tendenzialmente perfetta. Sul problema cfr. anche L. Moulin, Sanior et maior pars, l.c., p. 491-493.

[30] I1 termine è preso qui nella sua accezione più ampia di sistema rappresentativo. Non deve essere confuso perciò con il “sistema parlamentare” preso nel suo senso tecnico, che significa la dipendenza di un Governo, nella sua esistenza e attività, dal voto di fiducia del Parlamento; cfr. R. Herzog, Parlamentarischen System, EvStLex, p. 1479-1483.

[31] Le forme associative private possono essere considerate affini al Parlamento in quanto attingono la loro struttura democratica nelle teorie contrattuali razionsaliste (Locke, Hobbes, Rousseau), e funzionano con criteri rappresentativi. Ciò non ha tuttavia impedito che nello sviluppo successivo del pensiero (A. de Tocqueville) esse siano state contrepposte allo Stato come mezzi per garantire, la libertà individuale contro l’accentramento burocratico e perciò indirettamente anche contro il Parlamento; cfr. N. Matteucci, Democrazia, Enciclopedia Filosofica 1, Venezia-Roma 1957, p. 1465-1469. Per una denuncia del pericolo parlamentaristico nella Chiesa cfr. anche G. Philips, La Chiesa e il suo mistero, II, Milano 1969, p. 54.

[32] Per fare un solo esempio di carattere strettamente giuridico basterebbe ricordare la trasformazione subita nell’ordinamento canonico da istituti di origine romana come quello della aequitas, della dispensa e del privilegio; cfr. P. Fedele, Lo spirito del diritto canonico, Padova 1962, specialmente p. 197-348.

[33] Secondo W. v. Humboldt, per fare un solo esempio, il supremo e ultimo scopo di ogni uomo è dato dalla höchsten und proportionierlichsten Ausbildung seiner Kräfte in ihrer individuellen Eigentumlichkeit, citato da H. Peters, Demokratie, StLex 11, p. 576.

[34] L’associazionismo a cui è fatto riferimento è quello di origine liberale-borghese, le cui radici sono da ricercarsi nel nominalismo degli albori dell’evo moderno. Deve perciò essere distinto dal corporativismo medioevale (a questo proposito cfr. J. M.-Y. Congar, Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet, RHDFE 36, 1968, specialmente p. 222-224. Anche il marxismo contesta l’associazionismo di estrazione liberale-borghese fondato sulla duplicità dell’esistenza personale per proporre un’altra concezione del rapporto tra individuo e società fondato sulla identità tra gli interessi del cittadino e quelli dello Stato. Ci sembra però che la tendenza attuale alla democratizzazione nella Chiesa sia più debitrice della concezione liberale-borghese, per cui la nostra analisi si limita a questo fenomeno. Sul problema cfr. per esempio R. Bäumlin, Demokratie, EvStLex, p. 278-285; G. Leibholz, Repräsentation, ibidem, p. 1859-1864.

[35] Cfr. a questo proposito E. Corecco, Katholische “Landeskirche” im Kanton Luzern. Das Problem der Autonomie und der synodalen Struktur der Kirche, AfkKR 139, 1970, p. 3-42.

[36] Per poter stabilire se le forme corporative medioevali conservate nei loro elementi essenziali nei canoni 684-725 del CIC, malgrado i successivi interventi legislativi intercorsi a partire dal Concilio di Trento, rispettano eventualmente meglio la struttura organica della communio ecclesiale, si dovrebbe fare uno studio particolare. È sintomatico comunque che esse sono state percepite come corpi estranei dalla cultura liberale-borghese, tanto è vero che hanno subito una fortissima flessione già nel XVIII secolo, sotto la critica serrata e derisoria dei filosofi razionalisti; cfr. G. Le Bras, Les Confreries chrétiennes. Problèmes et proposition, RHDFE 29, 1940-41, p. 311 sgg.

[37] Si arriva a comprendere meglio la natura dell’associazione moderna facendo il confronto con quella medioevale. O. v. Gierke (Das deutsche Genossenschaftsrecht, I Berlin 1868) fa le seguenti annotazioni: Die mittelalterliche Genossenschaft forderte den ganzen Menschen, ihre Mitglieder konnten daher ursprünglich keinem anderen Vereinen angehören… (dies) unterschied die mittelalterliche Association in charakteristischer Weise von der unsrigen (p. 227). Niemals aber war dieses Bedürfnis, dieser Zweck (sc. um dessentwillen sich die Genossen einander verbunden hatten) das eigentliche Bindmittel der Genossen: immer waren sie zugleich für alle andern menschlichen Gesellschaftszwecke vereint, sie waren so verbunden, wie heute nur noch Staat und Gemeinde verbinden… Jede germanische Gilde hatte daher zugleich religiöse, gesellige, sittliche, privatrechtliche und politische Ziele… (So) waren sie mithin sehr wesentlich von unsren heutigen Vereinen zu frommen Zwecken, die eben nur um dieses Einen Zweckes willen existieren, unterschieden (p. 228).

[38] Cfr. H. de Lubac, Cattolicismo. gli aspetti sociali del dogma, Roma 1948

[39] Un primo tentativo di porre la communio come principio formale dell’ecclesiologia, limitato però al livello strutturale del rapporto tra le diverse Chiese particolari tra di loro, e di esse con la Chiesa di Roma, è stato fatto da W. Aymans, Die Communio Ecclesiarum als Gestaltgesetz der einen Kirche, AfkKR 139, 1970, p. 69-90; cfr. anche A. Ganoczy, Wie kann die Kollegialität dem päpstlichen Primat gegenüber aufgewertet werden?, Concilium 7, 1971, p. 267-273.

[40] Il termine “ontologico” qui sta a significare che la novità che Cristo porta nel mondo non è solo di ordine etico, ma investe l’uomo e la realtà nel profondo del loro essere.

[41] Cfr. Gv. 17,21-23: “…affinchè siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, ed io in te, affinchè anche loro siano una cosa sola in noi…affinchè siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola, io in essi e tu in me, affinchè siano perfetti nell’unità…”.

[42] Cfr. il Manifesto “Comunione e Liberazione” per gruppi di comunità cristiana nelle Università, Milano, 1971.

[43] Atti 4-32.

[44] Un esempio di questa difficoltà ci viene dall’apparente contrasto di alcuni principi elaborati all’uopo dalla scienza canonica: quello della pars sanior e quello di esigere maggioranze fortemente qualificate (come nelle votazioni conciliari), o quello del voto iuxta modum, con il quale si cerca di salvare il più possibile gli elementi comuni di giudizio. Cfr. L. Moulin, Sanior et maior pars, l.c., specialmente p. 370-397; cfr. anche W. Aymans, Das synodale Element. o.c., p. 239 sg.

[45] Anche qui notiamo come la categoria del pluralismo, propria della cultura moderna, non può essere trasposta nella Chiesa senza riserve. La filosofia nominalista e razianalista concepisce la società come una somma di singoli individui, seguendo una concezione atomistica della persona, che non viene superata neppure dai cosiddetti sistemi federalistici perchè, all’interno di ogni entità politica (Stato, Cantone, Comune, ecc…) la struttura resta puramente individuale.

[46] Sulla interpretazione del In quibus et ex quibus (Vat. Eccl., art. 23,1) cfr. W. Aymans, Die Communio Ecclesiarum, l.c., p. 79-85.

[47] E’ per questo che nei sistemi elettorali ecclesiali si è sempre dato largo spazio alla rappresentanza di gruppi comunitari particolari (Ordini religiosi, gruppi caritativi, più recentemente gruppi di Azione Cattolica, ecc.).

[48] Perciò ogni comunità particolare deve costituirsi come ambito di comunione abbracciante tutte le dimensioni della vita, dove l’uomo può realizzarsi integralmente. Le parrocchie sono nate a questo modo, ed è per questo che hanno messo fin dall’inizio al centro della loro preoccupazione la celebrazione della Parola e del Sacramento. Hanno cessato di essere ambiti operativi generatori di fatti culturali cristiani solo quando l’esperienza liturgica di preghiera ha cessato di investire strutturalmente l’esistenza delle persone implicate, lasciando posto ad un dualismo moralistico e pietistico.

[49] Le norme liturgiche per la celebrazione dei Concili sono state fissate nel Cerimoniale Episcoporum e nel Pontificale Romanum.

[50] E’ per questo che anche i Vescovi, quando rompono in modo grave la communio ecclesiastica, vengono esclusi dal Collegio Episcopale e di conseguenza dalla partecipazione al livello operativo-decisionale della vita della Chiesa.

[51] Cfr. Appunti di metodo cristiano, Milano, 1964.

[52] Sul problema cfr. K. Mörsdorf, Das eine Volk Gottes und die Teilhabe der Laien an der Sendung der Kirche, Ecclesia et Jus. Festgabe für A. Scheuermann zum 60. Geburstag, hrsg. von Siepen-Weitzel-Wirth, München-Paderborn-Wien, 1968, p. 105-111.

[53] Cfr. P. Hinder, Autonomie der Laien in der Kirche? Eine Untersuchung über die Eigenständigkeit der Laien in der Kirche nach den Dokumenten des Zweiten Vatikanischen Konzils, Freiburg (CH), 1971 (dissertazione non ancora pubblicata).

[54]Il problema del’autonomia plitica dei laici è molto spinoso. Non ci sembra però possibile poterlo risolvere adeguatamente teorizzando riduttivamente, come ha fatto la Scuola maritainiana, sulla eventuale legittimità della disobbedienza dei laici nei confronti della Gerarchia.

[55] Non è qui il luogo in cui dare un giudizio di valore sulla realtà politica democratico-parlamentare. Il problema è sempre quello di denunciare l’equivoca trasposizione di una simile struttura nella realtà ecclesiale. E’ vero che l’autorità del vescovo è anche formale, ma se staccata da un contesto di comunione reale scade facilmente nell’autoritarismo. Anzi, al limite quando è staccata dal contesto della communio ecclesiastica plena, perde la sua autorità all’interno della Chiesa cattolica cessando di far parte del Collegio episcopale.

[56] La categoria “mondo” è sempre intesa nel senso giovanneo come contrapposta a “evangelo”. In questo senso non è equivalente a quella di “realtà terrestre”.

[57] Mt. 10,39. Sull’ambiguità della trasposizione nella Chiesa dei concetti bonum commune e “interesse”, nella loro accezione tipicamente statale, cfr. J. Ratzinger, Demokratisierung der Kirche?; J. Ratzinger-H. Maier, Demokratie in der Kirche. Möglichkeiten, Grenzen, Gefahren, o.c., p. 18-22.

[58] Nei Concili generali del Medio Evo gli inviati dei Capitoli non rappresentavano la Diocesi, ma difendevano corporativisticamente gli interessi dei Canonici; cfr. G. Tangl, Die Teinehmer an den allgemeinen Konzilien des Mittelalters, Darmstadt 1969, p. 219-220 (Neudruck).

[59] L’ordinamento canonico è sempre stato conscio di questo fatto. Il can. 1407 infatti, esclude la possibilità di fare la professione di fede per procura. Lo stesso principio è applicato al giuramento (can. 1316, § 2). Anche l’esclusione del doppio voto del procuratore al Concilio (quando questo è già uno dei Padri del Concilio Ecumenico), e la concessione del voto solo consultivo ai procuratori nei Concili minori (can. 224 § 2, 287 § 2), traduce la persuasione della Chiesa che ogni decisione conciliare, anche solo disciplinare, ha sempre un nesso strettissimo con la professione della fede.

[60] A nostro avviso però, il matrimonio canonico per procura (can 1088 § 1) proprio perché il suo carattere sacramentale implica la fede, dovrebbe essere abolito. A partire da Duns Scotus fino alla fine del XVIII secolo non è mai venuta meno la voce di teologi di grande valore come quella di Cayetano de Vio, F. de Vitoria, G. Vázquez, dei Salmanticenses, dei Virceburgenses, e di R. Billuart, che hanno negato la sacramentalità del matrimonio per procura pur riconoscendogli un valore come contratto naturale. Su questo problema cfr. E. Corecco, Il sacerdote ministro del matrimonio? Analisi del problema in relazione alla dottrina della inseparabilità tra contratto e sacramento, nei lavori preparatori del Concilio Vaticano I, La Scuola Cattolica 98, 1970, 353. p. 450-458.

[61] Cfr. A. Rouco Varela, E. Corecco, Sacramento e diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico, Jaca Book, Milano 1971, p. 62-64.

[62] Ci sembra che questo concetto sia espresso correttamente anche da G. Carenzo (Le strutture rappresentative della Chiesa, l.c., p. 345-353) quando afferma che la rappresentatività deve essere “vera e credibile”, nel senso che tra il corpus che si pone come “rappresentazione” della Chiesa e la Chiesa stessa vi deve essere perfetta adeguazione e corrispondenza, nel senso che “la Chiesa deve riconoscersi in esso ed esprimervi tutta la ricchezza del suo mistero”. In questo senso è pure essatto che una assemblea “eletta con suffragio universale da tutto il popolo di Dio, potrebbe anche non essere “rappresentativa”; mentre invece lo potrebbe assere una assemblea interamente scelta e convocata dall’alto” (p. 349). Forse l’A. dimentica di sottolineare che la Chiesa può essere rappresentata anche dal solo Vescovo, senza nessuna assemblea sinodale. Per contro il concetto di rappresentatività usato da A. Ganoczy, Wie kann di Kollegialität dem päpstlichen Primat gegenüber aufgewertet werden, l.c.. p. 269-270, non ci sembra del tutto esatto. L’A. infatti sembra mettere sullo stesso piano la capacità di rappresentare Cristo delle persone che hanno ricevuto questo compito ministeriale e la loro capacità di rappresentare la comunità, concepita però quest’ultima come un fatto proveniente dal basso, usando il termine con due sensi diversi. Il ministro, e in primo luogo il Vescovo, rappresenta Cristo e la comunità cristiana solo in forza dell’unico potere ricevuto da Cristo stesso. Il potere di essere mediatore, per analogia con Cristo, sia verso il basso che verso l’alto, deriva al Vescovo dalla sua partecipazione più piena all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo.

[63] Cfr. A. Rouco, E. Corecco, Sacramento e diritto, o.c., p. 59-62.

[64] Basterebbe ricordare le lotte per il controllo del potere nelle Diocesi tra i Vescovi e i Capitoli Cattedrale, cfr. P. Torquebiau, Chapitres de Chanoines: DDC, III, p. 545.

[65] Cfr. K. Mörsdorf, Das eine Volk Gottes

2. Sinodalità

 

1. Genesi storica dei concili

 

I risultati attuali della ricerca storica non permettono di far risalire l’inizio dell’attività conciliare oltre la metà del II sec. I primi sinodi furono quelli celebrati in Asia Minore tra il 160 e il 175 per affrontare la questione del montanismo. Un paio di decenni più tardi la chiesa, in seguito all’intervento di papa Vittore (189-199), era già coinvolta in un’azione sinodale a grande respiro attorno alla questione della Pasqua. Infatti quasi contemporaneamente quelle Chiese particolari o regioni in grado di raccogliere un numero sufficiente di vescovi, come Roma, il Ponto, l’Asia Minore, la Palestina, la Siria del sud e forse anche Lione, si espressero a livello sinodale celebrando una serie di concili particolari. Anzi, dal grande sinodo convocato da Policarpo di Efeso fu inviata la prima lettera sinodale alla chiesa di Roma, per comunicarle le proprie decisioni. Tuttavia è solo nel III sec. che la struttura fluttuante dei sinodi si cristallizza attorno alle circoscrizioni territoriali delle province romane, fino a diventare, almeno nei territori meno estesi, un istituto stabile della costituzione ecclesiale.

Se sono riscontrabili sinodi già nella prima metà del III secolo, bisogna però attendere fin verso l’anno 250 per assistere ad una seconda ondata sinodale. Dopo un’intensa preparazione epistolare i vescovi si riuniscono in concilio a Roma – diventata presto centro vivace di attività sinodale – in Africa del nord e in oriente, come ad Antiochia, per consultarsi sui problemi dei “lapsi” e del rigorismo novazianista, posti dalla persecuzione di Diocleziano. Quindici anni più tardi avviene un ulteriore passo nello sviluppo sinodale quando, attorno alle prime dispute cristologiche sollevate da Paolo di Samosata, la chiesa non reagisce più solo con sinodi locali, ma, per la prima volta, con assemblee conciliari generali, come quelle di Antiochia del 264 e 268, alle quali prendono parte vescovi accorsi dall’Assiria, Palestina, Fenicia, Anatolia, Cilicia, Ponto, Licaonia e Cappadocia. Prima ancora dei concili celebrati quasi sincronicamente a Roma (313) e ad Arles (314) o di quello di Antiochia del 325, i concili del 264 e 268 furono un chiaro preludio al primo concilio ecumenico di Nicea (325), con il quale l’imperatore superò la resistenza degli orientali che, in nome dell’autonomia regionale, da sempre avevano propeso per la formula dei concili simultanei. Dal movimento sinodale sono assenti fino a questo momento, la Gallia e la Spagna dove le sedi episcopali nella seconda metà del III sec. erano ancora relativamente rare.

Da un punto di vista strutturale e dottrinale l’immagine delle assemblee sinodali cambia secondo le regioni e il momento storico. Se in Asia Minore prevale fin dall’inizio l’interesse dottrinale su quello disciplinare in Egitto e in occidente il primo diventa importante solo con l’apparire sulla scena di Origene e Novaziano. In Italia come in Egitto – fino all’arrivo di Origene – la forte autorità dei vescovi di Roma e di Alessandria s’impone all’interno dei sinodi, mentre nell’Africa del nord prevale l’impronta più rigidamente collegiale, tipica dell’ecclesiologia di Cipriano. La personalità teologica di Origene ebbe, per contro, il sopravvento su quella del vescovo in Egitto e in Palestina, nella prima metà del III sec. Sarebbe tuttavia azzardato parlare di diversità sostanziale nella struttura dei sinodi di questi primi secoli (Küng), come se si trattasse di assemblee conciliari strutturalmente eterogenee, non tutte ultimamente fondate sulla sinodalità e autorità episcopali. Nel caso contrario sarebbe difficile spiegare come il primo concilio di Nicea abbia potuto porsi, senza opposizione, come concilio di vescovi, malgrado il ruolo predominante svolto dall’imperatore. Nicea non è apparso nella storia della chiesa come una meteora, ma come fatto ormai scontato nella sua funzione e struttura sia ecclesiale che imperiale.

Dal profilo dell’autorevolezza goduta in seno alla “communio ecclesiarum” il concilio di Nicea, pur creando sotto l’aspetto formale un fatto costituzionale nuovo, portò semplicemente a maturazione tendenze già chiaramente manifestatesi nei sinodi particolari. Benché le norme canoniche per stabilire l’autenticità e l’autorità di un sinodo non fossero ancora precise, l’accettazione delle decisioni sinodali da parte dei vescovi s’impose progressivamente come criterio di riconoscimento nella comunione. Il carattere universale ed ecumenico di Nicea fu altresì anticipato dal fatto che l’autorità di un sinodo non era mai stata per principio limitata all’ambito del suo territorio, neppure quando l’istituto conciliare incominciò ad adattarsi alle circoscrizioni provinciali dell’impero. Anzi la tendenza era sempre stata quella di estendere al di là del raggio locale la propria influenza, sia redigendo delle lettere sinodali, sia, più tardi, trasmettendo la raccolta dei propri canoni ad altre chiese dell’ecumene, indipendentemente dalla loro lontananza. L’autorità dei concili non era stata rivendicata a partire dal numero dei vescovi presenti, anche se il loro influsso fu spesso tanto più grande quanto più larga era stata la loro partecipazione. Essa dipendeva piuttosto dall’ampiezza della recezione che un concilio otteneva in seno alla comunione delle altre chiese. Le recezione, a sua volta, dipendeva soprattutto dall’incidenza che un concilio aveva avuto nel risolvere una questione dottrinale o disciplinare. Anche dal profilo politico Nicea fu anticipato in modo evidente da alcuni sinodi precedenti, come quelli di Antiochia del 264 e 268, dove l’intervento dell’imperatore fu invocato per liquidare le vertenze sorte in seguito alla deposizione di Paolo di Samosata. Fu ancora per supplire alla mancanza di un’autorità capace di far applicare disciplinarmente le decisioni conciliari che la chiesa accettò di nuovo, mezzo secolo più tardi, in occasione dei concili paralleli di Roma (313) e di Arles (314) la funzione arbitrale dell’imperatore, evidentemente interessato all’unità della chiesa all’interno del proprio progetto politico. L’autorità imperiale, articolatasi ecclesiasticamente come funzione episcopale estrinseca (episcopus exterior), divenne, da Nicea in poi, parte integrante dell’esperienza sinodale ecumenica del primo millennio.

La dottrina tradizionale ha considerato per molto tempo e con una certa facilità il “concilio degli apostoli” come primo concilio della storia della chiesa, dal quale le forme conciliari posteriori sarebbero derivate per generazione storica spontanea, senza nessuna soluzione di continuità. Questa tesi sovrappone in sede di metodo l’aspetto storico e quello teologico del problema, senza saperli distinguere. Dal profilo teologico può essere esatto affermare che l’istituto conciliare ha il suo luogo teologico nella sinodalità propria alla costituzione della chiesa, menifestatasi con forma quasi istituzionale già al “concilio di Gerusalemme”, tuttavia questa premessa teologica non è sufficiente per sostenere che i sinodi della seconda metà del II sec. siano dal profilo storico una derivazione diretta di questo primo fatto apostolico.

La critica storica imperante nel secolo scorso, a sua volta, ha creduto di potere affrontare il problema dell’origine dei concili prendendo come unico criterio il metodo storico positivo. In realtà ha contrabbandato preconcetti dottrinali che l’hanno spinta a individuare gli antecedenti storici in istituti giuridici sia interni che esterni alla chiesa, come le presunte assemblee a carattere democratico-carismatico delle prime comunità cristiane (Sohm) o la prassi di invitare alle assemblee locali i rappresentanti delle comunità viciniori (Hauck), oppure i concili provinciali imperiali, che oltre ad una funzione politico-amministrativa esplicavano anche un importante ruolo liturgico-religioso (Friedberg, Stutz).

Di queste tesi fece giustizia il von Schwartz, sostenendo che l’origine del fenomeno conciliare fu il bisogno di consultarsi emerso nei vescovi man mano che i problemi assumevano una portata più ampia di quella locale. Sulla scorta di questo primo risultato ancora parziale, perché affronta il fenomeno conciliare riducendolo ad evento solo storico-positivo, gli storiografi moderni (Botte, Jedin, Kretschmar e Meinhold) hanno ricuperato la dimensione teologica dello stesso. Essi hanno dimostrato che, al di là dei modelli preesistenti e delle cause storiche immediatamente rilevabili, il fattore ultimamente genetico dei concili fu l’emergere con prepotenza, nel corso del II sec., della coscienza sinodale, dopo che l’autorità personale del singolo vescovo si era definitivamente affermata come elemento fondamentale della costituzione ecclesiale. L’autocoscienza dei vescovi di essere «in solidum» custodi della tradizione apostolica, in quanto membri di una sola ed unica chiesa la cui tradizione trascendeva quelle delle singole chiese locali, era del resto chiaramente già emersa durante tutto il periodo di transizione trascorso tra il regime apostolico e quello delle prime esperienze conciliari. Ne furono segni la costante preoccupazione dei vescovi – dai padri apostolici in poi – di rimanere in stretto contatto epistolare per confrontarsi sui problemi della fede, i faticosi viaggi intrapresi per consultarsi e l’obbligo di ospitalità nei confronti degli apostoli itineranti. Non esistendo ancora alcuna struttura capace di articolare gerarchicamente le singole chiese particolari, l’emergere sempre più deciso dell’autorità personale del vescovo in seno alle comunità avrebbe in realtà potuto suscitare alternative concorrenziali tra una chiesa e l’altra. Di fatto ciò divenne invece il presupposto per l’enuclearsi di una coscienza sinodale sempre più precisa, sfociata a livello istituzionale anche nella celebrazione di concili.

Se allo scopo di superare la crisi gnostica era bastato l’isolamento con cui i singoli vescovi avevano neutralizzato le comunità acefale e spiritualistiche e se lo stesso libero convergere con interventi paralleli dei singoli vescovi si era rivelato ancora sufficiente per risolvere il problema del canone della Scrittura poco dopo la metà del II sec., una convergenza più rigorosamente strutturata divenne inevitabile quando l’episcopato fu chiamato a prendere posizione sull’autenticità concreta di un profeta come Montano. Per la prima volta nella storia della chiesa un movimento, che aveva la pretesa di essere universale e centralizzato, metteva in discussione non solo una verità della fede, ma l’autorità costituzionale dei vescovi all’interno delle loro chiese particolari. Di fronte a questo attacco che colpiva la chiesa nella sua struttura costituzionale, i vescovi, incapaci di difendersi da soli, reagirono sinodalmente. Il passaggio al regime sinodale fu perciò il frutto di una maturazione teologica che, se non trovò subito una formulazione teorica adeguata, fece però prendere coscienza ai vescovi del fatto che la dimensione sinodale della loro responsabilità non rafforzava la loro autorità solo dal profilo strategico, ma metteva in giusto rilievo tutta la valenza ecclesiale del loro ufficio episcopale all’interno della «communio ecclesiarum». Anche la prassi dell’elezione dei vescovi – che inizialmente impegnava tutti i suffraganei di una provincia, poi un collegio di sette (Arles 314) e infine solo una terna di vescovi, rappresentanti il resto dell’episcopato (Nicea I) – fu una tipica manifestazione istituzionale della sinodalità. Non può essere però annoverata come elemento genetico dei concili, non solo perché i collegi o i sinodi elettorali, le cui competenze erano limitate ad un unico oggetto ebbero una funzione diversa da quella dei sinodi veri e propri, ma soprattutto perché il primo accenno all’esistenza di questa prassi risale solo alla «Traditio apostolorum» di Ippolito (215).

Se l’esito sinodale in cui è sfociata la conduzione della chiesa non può essere giustificato ricorrendo solo al “fatto imperiale” – benché la tendenza generale della chiesa precostantiniana di ricalcare molti istituti del sistema giuridico e politico romano sia incontestabile – non sarebbe neppure sufficiente, per stabilire un rapporto di causalità adeguato, ricorrere semplicemente al connaturale bisogno dei vescovi di consultarsi sui problemi più importanti. Non è solo all’insegna del principio: l’unione fa la forza, che i vescovi si riunirono in assemblee sinodali, ma a partire dalla coscienza di appartenere e rappresentare una realtà fondata sull’unicità e identità del sacramento e della parola, e perciò anche della «communio» esistente tra le chiese particolari.

Il fatto che tra il concilio di Gerusalemme e i primi concili storicamente accertati sia intercorso lo spazio di un secolo, non deve essere necessariamente considerato come una rottura della continuità storica. In realtà fu un periodo di preparazione all’attività conciliare sia da un punto di vista teologico che pratico. In forza della stessa dinamica intrinseca al rapporto esistente tra la dimensione personale e quella sinodale dell’ufficio ecclesiale, i vescovi presero coscienza della dimensione sinodale della loro successione apostolica con qualche decennio di ritardo rispetto alla presa di coscienza della dimensione individuale, anche se da subito hanno vissuto una prassi di solidarietà in nome della comunione che li legava vicendevolmente. Questa prassi, che era già una manifestazione dell’elemento sinodale della costituzione ecclesiale, è sfociata nell’istituto conciliare vero e proprio solo quando le circostanze resero inevitabile che i vescovi si riunissero tra di loro in grandi assemblee. Se le circostanze storiche contingenti, come i modelli istituzionali del diritto romano ai quali i vescovi possono essersi ispirati, sono da annoverare tra gli elementi che contribuirono a far nascere i concili, la loro genesi ultima fu senza dubbio la coscienza ecclesiologica della responsabilità comune maturata progressivamente nell’episcopato. Mentre è difficile poter sostenere che il “concilio di Gerusalemme” sia stato il modello istituzionale-giuridico dal quale i concili del II sec. sono derivati direttamente, è legittimo affermare che esso fu l’«Urbild» (Meinhold) di tutti i concili, perché dal profilo teologico ne ha anticipato la natura e la dinamica. È sintomatico che il concilio Costantinopolitano II (553) vi abbia fatto esplicito riferimento.

 

2. Le norme legislative sulla frequenza dei concili provinciali

 

La progressiva maturazione della coscienza sinodale nei sec. II e III ha trovato un puntuale riconoscimento legislativo al primo concilio ecumenico. Riferendosi evidentemente in primo luogo alla situazione della chiesa in oriente, i padri di Nicea hanno sanzionato la necessità di convocare il concilio provinciale due volte all’anno: in primavera e in autunno. Con questa norma, la cui universalità è diventata reale solo in quanto fu ripresa dai concili particolari del IV sec. i cui canoni vennero incorporati nelle raccolte sia orientali che occidentali, Nicea ha dato un orientamento definitivo non solo per l’articolazione territoriale della chiesa secondo il modulo delle province romane, ma anche per definire l’ambito istituzionale ordinario entro il quale doveva svolgersi l’attività sinodale particolare. Il concilio provinciale è stato – se si prescinde dal sinodo diocesano – l’unico istituto sinodale che ha resistito lungo tutta la storia della chiesa latina, rimanendo sostanzialmente uguale dal profilo formale, pur avendo assunto nella vita costituzionale della chiesa funzioni diverse secondo i momenti storici. A partire dalla storia del concilio provinciale si possono infatti ricostruire gli sviluppi e le involuzioni sinodali avvenute nella costituzione della chiesa. Ciò trova conferma nel fatto che i concili ecumenici sono puntualmente intervenuti per registrare, in rapporto all’ecclesiologia e alla politica ecclesiale del momento, la funzione del concilio provinciale.

Delle altre forme conciliari minori, intermedie tra il concilio ecumenico e quello provinciale, si è occupata invece la legislazione dei concili particolari man mano che questi diventavano, per un determinato territorio ecclesiastico, l’espressione privilegiata, alternativa a quella provinciale, della sinodalità episcopale. Si tratta di forme conciliari, come i sinodi patriarcali in oriente, i concili plenari in Africa del nord, quelli primaziali nella Gallia del sud, quelli nazionali o generali – per lo più misti – dei regni germanici, o quelli generali – rigorosamente ecclesiali – dell’alto medio evo, spesso convocati dal papa stesso o presieduti dai suoi legati. Esse assunsero caratteristiche giuridiche e funzioni ecclesiali e politiche diverse e fluttuanti secondo l’ambiente culturale e i periodi storici.

La distribuzione delle competenze tra i concili provinciali, che inizialmente godettero di una capacità globale di intervento sul piano legislativo-giudiziario-amministrativo, e le altre forme conciliari più grandi, fu tacitamente regolata per lungo tempo dal principio secondo il quale ciò che poteva essere trattato dai primi poteva esser definito anche dai secondi. Ciò permise alle forme conciliari più grandi o gerarchicamente superiori, sia in occidente che in oriente, di restringere di fatto l’ambito delle competenze dei concili provinciali, prima ancora che venisse fortemente compresso dal diritto delle decretali che si impose progressivamente come diritto alternativo non solo a quello dei concili minori ma anche a quello dei concili ecumenici.

È sorprendente costatare che la costituzione delle chiesa, – valutata a partire dalle norme legislative che hanno retto la frequenza dei concili provinciali – ha raggiunto il punto della sua maggiore densità sinodale già con il primo concilio di Nicea, appena un secolo e mezzo dopo l’inizio dell’esperienza conciliare. Il principio della convocazione biannuale dei concili provinciali fu ripreso un secolo dopo dal concilio di Calcedonia (451) quando però erano già emersi i segni di una prima crisi. Per ottenere un quadro circostanziato delle norme canoniche che hanno retto la frequenza dei concili provinciali non è sufficiente prendere come punto di riferimento i concili ecumenici, perché la legislazione ecumenica ha avuto in oriente come in occidente valore spesso solo indicativo. La prassi conciliare fu determinata in concreto, soprattutto nel corso del primo millennio, dai canoni rilasciati man mano dai concili minori. L’occidente, dove i problemi disciplinari e le dispute teologiche non furono così appassionati come in oriente o nell’Africa del nord e dove l’articolarsi delle sedi episcopali fu più lento, sentì ben presto il bisogno di attenuare il regime del diritto comune. Il concilio di Agde (506) ridusse, solo cinquant’anni dopo Calcedonia, la frequenza del concilio provinciale ad una sola volta l’anno, comminando però per la prima volta la pena della scomunica contro i vescovi negligenti. Il concilio di Tours (567), al tempo dei merovingi, tentò, come del resto avvenne più tardi sotto i carolingi, di ripristinare la disciplina niceno-calcedonense, ma già vent’anni dopo il concilio di Maçon (585) si vide costretto ad allargare il termine di convocazione fino a tre anni. Quasi contemporaneamente il concilio di Toledo (589) prescrive per la Spagna dei visigoti la convocazione annuale. Fino a questo momento la struttura conciliare provinciale non è quasi esistita, non solo in Inghilterra e in Germania, ma neppure in Italia, dove i concili romani, che avevano carattere molto allargato, prevalsero fino all’alto medio evo. Il secondo concilio di Nicea (787) tirò le conseguenze dalla situazione venutasi a creare, per ragioni diverse, sia in oriente che in occidente, riducendo l’obbligo di convocazione del concilio provinciale a una sola volta l’anno e comminando per la prima volta a livello di diritto ecumenico pene canoniche contro i metropoliti morosi. Il motivo addotto fu quello della difficoltà dei viaggi, che evidentemente era in grande parte conseguente al disordine socio-politico provocato dalle invasioni barbariche. In realtà le vere ragioni, sia in oriente che in occidente, erano di natura più profonda: per l’oriente il fatto che la chiesa ortodossa, dopo l’avanzata mussulmana, coincideva ormai praticamente con quella imperiale-bizantina, dove era già prevalso l’istituto del sinodo endemusa; per l’occidente il fatto che le forme conciliari miste, politico-ecclesiali, dell’epoca carolingia non lasciavano più uno spazio sufficiente per una reale autonomia sinodale a livello provinciale.

In occidente la norma della convocazione annuale fu ripresa, dopo la riforma gregoriana, dal Lateranense IV (1215), cinque secoli più tardi. L’idea del concilio fu quella di dare un nuovo assetto costituzionale alla provincia ecclesiastica, rilanciando anche, dopo alcuni secoli di usurpazione secolare, l’attività del concilio provinciale, che da Graziano in poi aveva riacquistato un’autonomia terminologica propria rispetto alle altre forme conciliari minori (Bonicelli). Un secolo più tardi il concilio di Valladolid (1322), che ebbe un certo riscontro in altri concili particolari, fu già costretto a mitigare la norma lateranense e a portare l’obbligo della convocazione a due anni. In compenso aggravò la pena della scomunica «ferendae sententiae», comminata dal Lateranense IV  contro i metropoliti trasgressori dei termini di convocazione, in pena «latae sententiae». Fu però il concilio di Costanza (1414-1418), malgrado il suo appassionato conciliarismo, a fare il passo decisivo verso una più diluita sinodalità della costituzione ecclesiale, progettando la convocazione solo triennale dei concili provinciali. L’idea, destinata a durare ben cinque secoli, fu ripresa, prima da Martino V nel suo decreto di riforma (1425), poi dal concilio di Basilea (1431-1437) e da quello Lateranense V (1512-1517), per essere infine sigillata dal concilio di Trento (Sess. 24, can. 2 de ref.) il quale, come il Lateranense IV, approfittò della riforma per dare al concilio provinciale anche un nuovo assetto ecclesiologico. I padri del Vat I hanno a loro volta preso in considerazione la possibilità di ridurre già fino a cinque anni il termine di convocazione, non senza suscitare qualche resistenza. Comunque in seguito alla prematura fine del concilio, fu il CIC (can. 283), mezzo secolo dopo, a tirare drasticamente tutte le conseguenze dello sviluppo storico avvenuto nella costituzione ecclesiale latina, allargando il termine della convocazione del concilio provinciale a una sola volta ogni venti anni. Con questa norma il CIC ha praticamente eliminato sia dalla costituzione che dalla prassi ecclesiale ogni possibile incidenza del concilio provinciale, senza per altro aver sentito il bisogno di procedere ad una riforma strutturale dello stesso, che dal profilo formale rimase quasi identico all’istituto tridentino.

 

3. La prassi conciliare nella chiesa latina

 

1. Analisi

Le norme che nella legislazione particolare e generale hanno regolato la frequenza e la funzione dei concili provinciali, sono un indice sicuro della consapevolezza teologica che la chiesa ha avuto della propria struttura sinodale nei vari periodi storici. Tuttavia un giudizio di valore sullo spessore sinodale della vita della chiesa non può essere dato prendendo come termine di riferimento solo le norme legislative, senza tener conto della prassi conciliare realmente sviluppata dalla chiesa nel corso della storia. Tenuto conto della fittissima struttura sinodale data alla chiesa dal diritto comune tra il primo e il secondo concilio di Nicea (325-787), il mito di una chiesa dell’antichità e del primo medio evo retta da una prassi sinodale capillare e costante non regge all’analisi storica. Una prima crisi conciliare era già in atto al tempo del concilio di Calcedonia, che dovette invitare i vescovi a praticare la correzione fraterna in merito alla partecipazione ai concili provinciali. L’attenuazione delle scadenze di convocazione ad opera dei concili particolari nei secoli seguenti testimonia, d’altra parte, che la crisi continuò ad aggravarsi. La stessa costatazione vele per tutto l’arco di tempo che intercorre dal secondo concilio di Nicea a quello di Trento, quando l’obbligo di radunare il concilio provinciale era ormai già ridotto ad una volta l’anno. I tentativi di riforma, fatti prima da s. Bonifacio e poi da Carlo Magno, ebbero efficacia solo momentanea, tanto che, dalla fine del regno carolingio alla metà del sec. XI, la celebrazione di concili provinciali rimase puramente occasionale. L’Hinschius elenca, per il secolo e mezzo trascorso tra il 906 e il 1054, solo 47 concili provinciali latini. Maggior successo ebbe la politica di rilancio iniziata dal movimento cluniacense. Esso promosse una ripresa dell’attività conciliare su basi canoniche per provocare lo sganciamento della chiesa dal potere temporale, che nei secoli immediatamente precedenti aveva usurpato anche le varie forme sinodali. Anche se sostenuta, ma soprattutto integrata dal papato all’interno del proprio programma politico di riforma – il cui orizzonte era quello di far prevalere il primato in una concezione universale della chiesa -, l’iniziativa provocò a lungo termine un tangibile risveglio sinodale anche nella periferia ecclesiale. Nei due secoli e mezzo trascorsi tra Leone IX († 1054) e l’inizio dell’esilio di Avignone (1305) furono celebrati nella chiesa latina circa 750 concili provinciali (Bonicelli), una media cioè di tre concili provinciali all’anno in tutta la chiesa. Ipotizzando l’esistenza. per tutto questo periodo, di 60 province ecclesiastiche, l’attività sinodale provinciale corrisponderebbe approssimativamente ad una percentuale del 5% rispetto al quoziente di concili che si sarebbe dovuto riscontrare in ossequio alla norma della convocazione annuale. Se si tiene conto che questo periodo fu caratterizzato dalla convocazione di tutta una serie di concili generali, o comunque super-provinciali, in grande parte direttamente o indirettamente gestiti dal papato, bisogna costatare che, globalmente preso, questo fu probabilmente il periodo della storia della chiesa latina nel quale l’attività sinodale ha raggiunto la sua massima intensità. È noto infatti che, nei due secoli e mezzo immediatamente precedenti il concilio di Trento, la paralisi conciliare fu quasi totale, malgrado l’euforia conciliaristica: in questo periodo fu celebrato solo un centinaio di concili provinciali (Hinschius), la cui distribuzione geografica lascia intravvedere anche uno spostamento dell’interesse sinodale dai paesi latini verso le Germania e l’Inghilterra.

Anche nel periodo dei 350 anni trascorsi tra la fine del Tridentino (1563) e la promulgazione del CIC (1918), durante il quale la norma legislativa prevedeva la convocazione triennale dei concili provinciali, la prassi sinodale fu debolissima. La valutazione di questo periodo domanda però un’analisi circostanziata rispetto ai vari momenti storici e alle diverse zone geografiche. I periodi di prassi più intensa furono il cinquantennio immediatamente susseguente al concilio di Trento e quello posteriore alla rivoluzione liberale del 1848. Nel primo periodo l’attività fu particolarmente vivace nei paesi latini come l’Italia e la Francia; nel secondo è prevalsa nei paesi anglosassoni e nelle missioni dell’America latina e dell’Asia. Se si prescinde dalla provincia di Tarragona, che continuò ininterrottamente la sua straordinaria serie conciliare (circa 95 concili provinciali) durata sei secoli (1146-1757), la quale, soprattutto dopo Trento, non ha però avuto grande rilevanza da un profilo sostanziale, e se si prescinde dall’Irlanda che fu l’unica realtà ecclesiale a conservare una sia pur tenuissima tradizione conciliare anche nel XVII e XVIII sec., i 250 anni trascorsi tra gli inizi del XVII sec. e il 1848 hanno registrato la paralisi conciliare probabilmente più grave di tutta la storia della chiesa latina. Dopo la liberalizzazione, più programmatica che reale, dei rapporti tra stato e chiesa ad opera della rivoluzione del 1848, il fenomeno conciliare più interessante della chiesa moderna – per molti aspetti parallelo a quello della chiesa del II e III sec., – fu quello della chiesa degli USA, dove dal 1829 al 1891 furono celebrati ben 34 concili provinciali e plenari (3), i quali impressero al primo secolo della storia ecclesiale statunitense un’inconfondibile gusto sinodale. Come tutti i grandi momenti legislativi (concili ecumenici, decretali, ecc…) anche la promulgazione del CIC provocò una certa ripresa sinodale nelle chiese particolari. Il consuntivo del mezzo secolo trascorso tra il 1918 e l’inizio del Vat II tuttavia sostanzialmente riducibile a quello della chiesa in Italia, che convocando 22 concili di cui 17 plenari, ha realizzato quasi la metà dell’attività conciliare provinciale e plenaria di questo periodo (51). La valutazione della prassi sinodale di questi ultimi 100 anni sarebbe parziale se non tenesse conto del progressivo consolidarsi in quasi tutte le chiese particolari o regioni ecclesiastiche delle conferenze episcopali, che a partire dal 1848 si sono diffuse ovunque molto rapidamente fino ad assumere con il Vat II, per alcuni settori della vita ecclesiale, le funzioni proprie di un’istanza collegiale intermedia, potenzialmente alternativa all’istituto dei concili minori.

La prassi sinodale post-tridentina fino alla promulgazione del CIC può essere valutata con precisione quasi matematica. Prendendo come base di calcolo una media di circa 110 province ecclesiastiche – passate dal concilio di Trento al Vat II da circa 80 a 345, soprattutto grazie all’intensa articolazione provinciale avvenuta nel sec. scorso e sotto il pontificato di Pio XII – e costatando che al posto dei circa 12.050 concili provinciali che si sarebbero dovuti celebrare a scadenza di tre anni ne furono celebrati in realtà solo circa 315 e 17 plenari, la percentuale si aggira tra il 2,5% e il 3% (Corecco). Ciò significa non solo che durante i 350 anni susseguenti al tridentino fino al CIC nella Chiesa latina furono celebrati statisticamente solo 3 concili per ogni singola provincia, vale a dire un concilio ogni 120 anni, invece di un concilio ogni tre anni come aveva prescritto Trento, ma che in tutta la chiesa universale, articolata con una media di circa 110 province, fu celebrato praticamente un solo concilio provinciale all’anno.

 

2. Cause dello scarto tra legislazione e prassi

Le ragioni della patologica incapacità della chiesa latina ad esprimere nella prassi conciliare la coscienza avuta della propria struttura sinodale, periodicamente emersa sia pure con parabola decrescente nella legislazione particolare e generale, sono molteplici. Al di là dei fattori socio-geogafici, contingenti e diversi secondo i periodi e i luoghi e messi in risalto per es. dal secondo concilio di Nicea, le cause più profonde toccano il livello ecclesiologico e politico. Dal profilo socio-geografico bisogna tener conto che in occidente l’articolarsi della struttura diocesana e metropolitana ebbe fino al V e VI sec. un ritmo più lento e che spesso si formarono territori metropolitani molto vasti come in Italia. Da un punto di vista socio-culturale bisogna prendere atto che dall’inizio del medio evo la realtà provinciale cessò, per grandi zone dell’Europa, come la Spagna e la Gallia, di essere l’ambito ordinario dell’attività conciliare e di conseguenza anche il baricentro della vita ecclesiale. Dato che i popoli germanici pensavano con categorie nazionali, slegate dalla struttura territoriale-amministrativa dell’impero romano, i concili provinciali vennero soppiantati da forme sinodali più ampie, organicamente inserite nel sistema politico-religioso unitario dei nuovi regni. Sono di natura più propriamente politica l’espandersi e il progressivo sovrapporsi del potere secolare a quello ecclesiastico: dall’VIII al XI sec. con l’affermarsi del progetto imperiale carolingio e ottoniano; dal XVII sec. in poi con il manifestarsi sia della crisi costituzionale interna alla chiesa, provocata dal gallicanismo, dal febronianismo e dal giuseppinismo, sia di quella per il potere scoppiata tra Chiesa e stato in seguito all’affermarsi dello stato assolutista moderno d’origine illuminista. Se il controllo del potere secolare nel primo medio evo sulle istituzioni ecclesiastiche ha provocato l’incapacità della chiesa di esprimersi a livello conciliare, l’ingerenza dello stato moderno ha avuto come riflesso quello di motivare la s. Sede nella sua decisa opposizione alla celebrazione di concili particolari, diventati facile preda del nuovo nazionalismo ecclesiastico. Dopo questi lunghi periodi di decadenza sinodale la ripresa fu in larga misura opera della politica papale: nell’alto medio evo, per integrare la chiesa particolare nell’unità della chiesa universale, mentre dalla metà del sec. scorso, essendo stata promossa dalle chiese particolari, essa fu sostenuta dalla s. Sede, sia per ricomporre in Europa la chiesa, uscita culturalmente e materialmente spogliata dalla rivoluzione francese, sia per venire incontro ai bisogni particolari della chiesa nei paesi di missione.

Più che dalle cause socio-culturali e politiche, nel medio evo relative al rapporto di concorrenza egemone tra potere temporale e spirituale e, nell’evo moderno, a quello tra stato e chiesa, lo sviluppo della prassi sinodale fu determinato in profondità dallo sviluppo avvenuto nell’ecclesiologia latina, già a partire dal primo medio evo. In alternativa a quella ortodossa-orientale, progressivamente irrigiditasi attorno ad una concezione di comunione ecumenica acefala, la tradizione cattolica si è precisata con determinazione sempre maggiore, e perciò non senza parzialità, attorno all’idea di chiesa universale, che ha trovato nell’universalismo medioevale il proprio terreno culturale ideale. Questa concezione monistica era tendenzialmente orientata verso una riduzione della chiesa particolare ad ambito amministrativo di quella universale e, di conseguenza, a non più esigere ch’essa esprimesse un’originalità culturale e legislativa propria. Poiché il presupposto per una prassi conciliare locale è che l’ambito di gravitazione reale della vita ecclesiale coincida con quello della provincia, non sorprende dover costatare che ogni qual volta la provincia ecclesiastica per una ragione o l’altra ha perso importanza, è avvenuto anche un forte calo nella frequenza dei concili particolari. Nella chiesa latina la provincia ha perso la sua funzione originale già dopo il VI sec., essendo prevalsa la concezione nazionale dei popoli germanici. D’altra parte il progressivo prevalere della chiesa universale su quella particolare-provinciale, cristallizzatosi sia attorno al primato papale sia attorno all’idea, propria all’alto medio evo, che l’«Ecclesia Romana» – retta dal collegio cardinalizio con il papa – rappresentava come in un’epitome tutta le chiesa universale (Alberigo), se non ha necessariamente rallentato l’attività sinodale particolare, ne ha però cambiato in profondità la sua funzione. Una riattivazione sinodale sia pure appena percettibile, ma parallela ad una risignificazione ecclesiale della provincia e dei concili particolari, è avvenuta con il Tridentino. Per contro l’epoca del conciliarismo, che ha ristimolato l’attività conciliare al vertice della chiesa universale, fu completamente incapace di sviluppare qualsiasi sussulto di sinodalità in quella particolare. Evidentemente la causa di questo fenomeno sta nel fatto che la costituzione della chiesa non era pensata dal conciliarismo in termini sinodali ma corporativistici e con sfumature oligarchiche, che, oltre a non sfuggire ai limiti propri di ogni ecclesiologia della chiesa universale, scalzava alla radice ogni possibile espressione di sinodalità episcopale a livello della chiesa particolare.

Per essere completa un’immagine della prassi sinodale non può prescindere, dall’analisi delle trasformazioni subite dal concilio provinciale dall’alto medio evo in poi, poiché esso è rimasto anche nel secondo millennio l’istituto paradigmatico di tutta l’attività conciliare particolare. Pur riconfermandogli quasi tutte le competenze materiali, tendenzialmente generali dell’istituto antico – limitate dall’esterno più di fatto che di diritto dalle decretali – il Lateranense IV ha assegnato come compito primario al concilio provinciale quello di applicare capillarmente il diritto generale, papale e conciliare, trasformandolo, da istituto chiamato ad una gestione autonoma della vita ecclesiale provinciale, in istituto destinato a fare un lavoro di preparazione e applicazione dei grandi avvenimenti conciliari e legislativi della chiesa universale.

Non sorprende perciò, che il Laterano IV sia stato il primo concilio ecumenico a legiferare anche sui sinodi diocesani, prescrivendone la convocazione annuale ed assegnando loro come compito primario quello di far conoscere capillarmente i decreti del concilio provinciale. Il sinodo diocesano, la cui attuale denominazione e struttura si è imposta solo nell’alto medio evo, si è formato in occidente all’inizio del VI sec. (Barion), con l’estendersi dell’organizzazione diocesana alle campagne, come istituto che rappresentasse il presbiterio. Se inizialmente la sua funzione fu quella di esercitare un controllo disciplinare sul clero, dato che il potere legislativo era esercitato dai concili provinciali, a partire dal IX sec., quando fu registrata una forte decadenza del metropolita, ma soprattutto in seguito alla riforma del Leteranense IV, il sinodo diocesano acquistò anche una funzione consultiva in rapporto alla legislazione del vescovo. Ciò è avvenuto per l’impulso congiunto di due fattori: da una parte il fatto che l’intensa attività legislativa del papato ha paradossalmente coinvolto nel processo creativo, sia pure in modo subordinato, tutte le istanze collegiali inferiori; dall’altra perché il diritto di consultazione acquisito dai capitoli della cattedrale, diventati, dal IX sec. in poi, epitome del presbiterio, ha avuto come esito di coinvolgere nel medesimo movimento rivendicativo di origine corporativistica anche i sinodi diocesani (ìMinistero).

Il legame stabilito dal Lateranense IV tra concilio provinciale e sinodo diocesano ha creato una comunanza di destino tra i due istituti. Quando l’attività dei concili provinciali fu vivace, lo fu generalmente anche quella dei sinodi diocesani, come nel sec. XIII e nella seconda metà del XVI. Il progressivo rafforzarsi dell’autorità del vescovo diocesano, in parte ristabilita del Tridentino, e il diffondersi, con le correnti regaliste e febroniane, delle tendenze nazionaliste e democratiche, provocò nei secoli seguenti il rapido declino anche dell’attività dei sinodi diocesani.

Una definitiva trasformazione strutturale del concilio provinciale avvenne pochi decenni dopo la fine del Tridentino, ad opera di Sisto V con la bolla «Immensa aeterni» (1588). Il Tridentino, sia pure con ambigua volontà di riforma, aveva evitato di indirizzare unilateralmente l’attività del concilio provinciale, come aveva fatto il Lateranense IV, in funzione dell’applicazione del diritto comune. Anzi, pur senza affermarlo esplicitamente, accettò il principio della sua competenza generale che numerosi decreti del concilio stesso cercarono di specificare. Sisto V, per contro, riprendendo la prassi precedente il Tridentino di far approvare i decreti dei concili provinciali dalla s. Sede – che nell’alto medioevo aveva esercitato anche il diritto di correggere ed approvare i decreti dei concili generali ed ecumenici – attribuì alla Congregazione del concilio il diritto di esame e revisione dei decreti provinciali. La dottrina finì per interpretarlo come condizione necessaria per la validità della promulgazione dei decreti da parte del metropolita. Questo intervento della s. Sede, che si inserisce nel generale processo di centralizzazione amministrativa sfociato nella creazione delle Congregazioni romane, ha senza dubbio inciso profondamente sulla natura dell’istituto provinciale, ma non sarebbe del tutto esatto affermare che ne ha alterato essenzialmente il carattere rispetto a quello dei concili antichi. Le norme del concilio provinciale conservarono il loro carattere di norme di diritto particolare, sinodale-episcopale, senza essere trasformate in diritto papale. La bolla di Sisto V, conferendo ai decreti provinciali la qualifica di conformità al diritto papale, ebbe come risvolto positivo quello di rafforzare l’autorità degli stessi e, di riflesso, quello di mettere nelle mani dell’episcopato uno strumento per lottare contro la crescente pressione politica dello stato assolutista moderno. D’altra parte essa ha permesso alla s. Sede di decidere, volta per volta, l’atteggiamento da assumere di fronte alla prassi sinodale provinciale e nazionale all’interno del progetto ecclesiologico e politico di realizzare una chiesa universale, considerata sempre più come un’unica grande diocesi gestita dal romano pontefice. Senza dover ristrutturare le competenze materiali dei concili minori, Roma ha potuto frenare l’attività sinodale in Europa e nei paesi d’oltre oceano, quando era necessario fare una politica di contenimento delle tendenze conciliaristiche o nazionalistiche; ha però anche potuto stimolare l’attività dei concili minori quando era necessario sostenere gli sforzi per conservare l’autonomia ecclesiastica di fronte allo stato. Questa politica differenziata ha assunto inevitabilmente aspetti contraddittori. Nei periodi di piena espansione gallicana, come nel XVII sec., Roma ha per es. impedito ai metropoliti italiani di convocare il concilio provinciale. Un secolo più tardi invece, nel tentativo di creare una larga base di consenso episcopale attorno alla costituzione «Unigenitus» (1713) che aveva condannato il gallicanesimo giansenista, Benedetto XIII, rifacendosi formalmente alla prassi antica dei concili romani, convocò a Roma il concilio del 1725, provocando una breve reazione a catena di altri concili provinciali in Italia e in Francia. Poco più di un secolo dopo, quando con la rivoluzione liberale del 1848 riemerse virulenta l’idea sinodale con tutte le sue tare illuministiche, la s. Sede si oppose alla celebrazione dei concili nazionali in Francia e in Germania e bloccò i sinodi diocesani rivendicati nei paesi di lingua tedesca dal movimento dei “sinodici”. Contemporaneamente sostenne invece ovunque la convocazione di concili provinciali, che essendo sotto il controllo della Congregazione del concilio erano ecclesiologicamente e politicamente meno pericolosi.

Non è un caso che la nascita delle conferenze episcopali nazionali e provinciali coincida con questo momento storico. Non essendo gravate da ipoteche politiche e godendo di un’assoluta agilità procedurale le conferenze sono sorte come alternativa agli istituti conciliari tradizionali. Si dimostrarono subito istituti adatti alla situazione, capaci di garantire l’unità dell’episcopato minacciato dall’ostilità sempre più anticlericale dei governi radicali della seconda metà del XIX sec. Questa nuova forma sinodale, nata nel Belgio in occasione dei moti liberali del 1831, si diffuse rapidamente dopo la metà del secolo, non solo in Prussia e in Baviera, ma anche nei Paesi Bassi, in Austria e in Svizzera, in Ungheria, in molte regioni italiane, in Australia, nell’estremo oriente e nell’America latina, che fu il primo continente a prescriverne – in occasione del concilio latino-americano del 1899 – l’obbligatorietà almeno ogni tre anni. Pur non godendo di nessuna competenza giuridica specifica, le conferenze o «conventus episcoporum» hanno esercitato un influsso immenso, dal profilo sia costituzionale che politico, poiché contribuirono in modo decisivo a rifare l’unità interna dell’episcopato e a rafforzarlo all’esterno nella lotta sostenuta in difesa della «libertas ecclesiae». Ravvisando in esse l’emergere di un’autentica tradizione sinodale, la s. Sede non solo ha sostenuto, ma ha promosso con energia il sorgere ovunque delle conferenze episcopali, anche se non trovò ovunque corrispondenza, come in Spagna e soprattutto in Francia, dove, per altro, a metà secolo era avvenuto un interessante risveglio sinodale provinciale che diede un notevole contributo dottrinale alla preparazione del Vat I. La diffusione e il consolidarsi delle conferenze episcopali nei vari paesi dell’orbe cattolico non sono dovuti all’iniziativa dei singoli episcopati locali, ma alle “pressanti raccomandazioni” della s. Sede. Gli esempi del Belgio e della Germania, dove la prima conferenza fu convocata a Würzburg nel 1848, non valgono a smentire quanto assunto, perché senza l’intervento di Pio IX e Leone XIII essi “sarebbero rimasti un fatto isolato” (Feliciani).

Concludendo si deve costatare che anche nel periodo post-tridentino si è manifestato l’influsso dei fattori tradizionali, socio-culturali, politici e teologici, che da sempre avevano inciso profondamente sulla prassi sinodale. Tra i primi è tipico di questo periodo l’impegno politico-mondano dell’episcopato europeo, che, sfociando nel fenomeno della cumulazione delle sedi episcopali nelle mani di pochi vescovi-principi – favorito dalla s. Sede per contenere le ambizioni politiche degli stati protestanti – ebbe un grande peso nel bloccare l’attività sinodale nell’Europa centrale. Comunque il fatto che la prassi sinodale locale – nella misura in cui è sopravvissuta – sia stata funzionalizzata alla politica ecclesiale d’integrazione delle chiese particolari in quella universale, non può essere unilateralmente valutato come un processo di involuzione costituzionale. In una situazione ecclesiale profondamente diversa da quella del primo millennio, in cui la sinodalità episcopale particolare si era spesso espressa come voce creatrice ed autonoma a livello legislativo, amministrativo e giudiziario, il fatto che l’attività conciliare del secondo millennio abbia sostanzialmente garantito l’applicazione capillare delle decretali, la cui massiccia produzione aveva in larga misura reso superfluo il diritto particolare, non può essere giudicato né astrattamente, a partire da esigenze diverse da quelle proprie alla nuova situazione storica, né ideologicamente, a partire da un modello di chiesa che ignora lo sviluppo avvenuto nell’ecclesiologia dal medio evo in poi (ìChiesa).

Che i concili minori siano stati funzionalizzati, dall’alto medio evo fino al CIC, in favore dell’unità legislativa e giuridica della chiesa universale, insidiosamente minacciata dal potere temporale e profondamente scossa dalla riforma protestante, può suscitare rimpianti ecclesiologici anche legittimi, ma non può essere interpretato a priori come segno perentorio di inautenticità sinodale (Zanchini). Sarebbe formale pretendere che l’unico criterio per valutare l’autenticità della prassi sinodale particolare sia il contributo autonomo e originale che questa ha dato allo sviluppo del diritto comune.

 

4. La prassi sinodale nella chiesa ortodossa

La sinodalità della chiesa ortodossa si è sviluppata fin dalla metà del V sec. in modo profondamente diverso da quella latina. Probabilmente l’immagine secondo la quale l’esperienza sinodale in oriente sia stata quantitativamente molto più intensa che in occidente non regge ad un’analisi critica, anche se il grado attuale di conoscenza delle fonti rende difficile una valutazione molto precisa. Comunque la diversità fu qualitativa, cioè di natura ecclesiologica. Tenuto conto della frammentarietà delle notizie esistenti sulla storia dei patriarcati di Alessandria, Gerusalemme ed Antiochia caduti sotto la dominazione mussulmana già nel corso del VII sec., l’unico punto di riferimento sicuro per valutare la prassi sinodale orientale – prima della formazione delle chiese autocefale moderne nel corso del XIX sec. – è il patriarcato bizantino. È un fatto che dal secondo concilio di Nicea in poi la chiesa orientale – a differenza di quella latina che si è espressa a livello conciliare generale e ecumenico – è stata incapace di esprimersi a livello panortodosso. D’altra parte è evidente che la denuncia emersa al concilio di Calcedonia, circa l’oblio in cui era caduta la prassi sinodale provinciale, coglieva prima di tutto la situazione in oriente. La stessa costatazione vale per gli interventi del concilio Trullanum (692) e del secondo concilio di Nicea, che si sono occupati dello stesso problema. Se nelle chiesa latina la prassi dei concili provinciali ha registrato, almeno a intermittenza, dei sussulti per tutto l’arco dei due millenni, non sembra – malgrado testimonianze contrarie limitate a periodi particolari (Hajjar) – che lo stesso fenomeno si sia verificato nella chiesa d’oriente, dove i concili provinciali hanno cessato di svolgere un ruolo degno di menzione dal V sec. in poi (Beck). Si deve eccettuare naturalmente l’attività svolta dai concili provinciali come collegio elettorale dei vescovi, la quale però – pur essendo di natura sinodale – non investe globalmente la vita della chiesa ma ne gestisce un solo settore, cosicché non può essere considerata come equivalente all’attività conciliare normale.

Prescindendo dai sinodi diocesani (la cui attività è in oriente ancora meno controllabile che in occidente) che assunsero progressivamente il carattere e la struttura concistoriale propria dei consigli di curia, gli altri istituti sinodali ordinari della costituzione della chiesa orientale furono il sinodo patriarcale, cui era affidato il supremo potere ecclesiale, e il sinodo dei metropoliti privi di suffraganei. Anche questi due istituti persero in grande parte la loro funzione dall’inizio della crisi iconoclasta. La profonda crisi dell’attività sinodale particolare ebbe origine, come in occidente, più ancora che da fattori socio-geografici contingenti, da cause di natura politica ed ecclesiologica. Il patriarca di Costantinopoli perseguì una politica di autocrazia primaziale parallela a quella del vescovo di Roma, iniziata in modo più esplicito durante la seconda fase della crisi iconoclasta e continuata con più profonda determinazione dopo la rottura formale avvenuta con la chiesa latina nel 1054 (Heiler). Anche nella chiesa bizantina si manifestò la tendenza, soprattutto nel secondo millennio, di considerare i metropoliti – che ricevevano ormai il pallio («omophorion») – alla stregua di vicari patriarcali, tanto che si può parlare di un trionfo dell’ecclesiologia della chiesa universale in una variante orientale (Schmemann). L’ambizione egemonica del patriarcato bizantino trovò un’evidente concomitanza di interesse nella politica degli imperatori, presso i quali i metropoliti, mossi dal desiderio di partecipare alla gestione del potere o costretti dalle circostanze politiche – come durante l’esilio di Nicea -, trasferivano per lunghi periodi la loro residenza. Del resto l’influenza sulla chiesa ortodossa si manifestò anche negli accordi conclusi dall’imperatore con i califfi circa la nomina dei patriarchi del medio oriente, le cui sedi rimasero lungamente vacanti o scoperte in seguito all’abitudine dei titolari di risiedere alla corte di Costantinopoli, tanto che difficilmente si può parlare di autocefalia di queste chiese. La scomparsa dei sinodi patriarcali ha coinciso con il progressivo identificarsi del territorio dell’impero, sotto i colpi dell’avanzata mussulmana, con quello del patriarcato di Costantinopoli. I sinodi patriarcali furono occasionalmente sostituiti da forme sinodali straordinarie, cui partecipavano – come al sinodo endemusa – metropoliti e patriarchi venuti dall’esterno. Questi sinodi straordinari, che durarono fin verso la fine del XVI sec. e che non riuscirono mai a costituirsi come sinodi panortodossi malgrado l’idea fosse emersa più volte, contribuirono in modo determinante a conferire autorità ecumenica al patriarca di Costantinopoli. Svolsero infatti un ruolo molto importante soprattutto in occasione dei tentativi di unione avvenuti sia durante l’esilio di Nicea, provocato dall’occupazione di Costantinopoli da parte dei crociati (1204-1271), sia dopo il concilio di Firenze (1439), sia in occasione del riconoscimento del patriarcato autocefalo russo (1589), sorto con l’ambizione di costituire la terza Roma. I 71 sinodi (o brevi serie di sinodi) straordinari di questo tipo elencati dal Beck per il millennio tra il 314 e il 1452, rappresentano, per il vero, ben poca cosa dal profilo statistico. Dal profilo formale, poi, non è sempre possibile stabilire se furono sinodi provinciali – come si potrebbe presumere per i primi secoli -, patriarcali o endemusa, ai quali avrebbero di fatto partecipato vescovi, metropoliti o patriarchi provenienti dall’esterno. Accanto alle forme sinodali costituzionali ordinarie, nelle quali sembra che la sinodalità ortodossa solo nei primi secoli abbia trovato un’espressione istituzionale continua e realmente efficace, si è formato per diritto consuetudinario, già a partire dal IV sec., a Costantinopoli come ad Alessandria ed Antiochia, il sinodo endemusa, la cui forma non essendo canonica incontrò forti ostilità fino al concilio di Calcedonia. A Costantinopoli il sinodo endemusa è nato come sinodo imperiale (Reichssynode), convocato e presieduto dall’imperatore, il quale occasionalmente riuniva i vescovi già presenti o venuti espressamente nella capitale per trattare questioni ecclesiastiche riguardanti tutto l’impero. Dopo che il concilio ecumenico di Costantinopoli del 381 – riunitosi inizialmente come sinodo endemusa – ebbe riconosciuto alla capitale dell’impero il primo posto dopo Roma, il sinodo endemusa fu presieduto, anche quando vi presenziavano metropoliti e patriarchi, dal vescovo di Costantinopoli. Dopo che il concilio di Calcedonia ebbe riconosciuto a Costantinopoli, come nuova Roma, il rango patriarcale – recependo così il sinodo endemusa tra le forme conciliari canoniche – fu presieduto dal patriarca. In seguito a questa prima fondamentale trasformazione il sinodo endemusa, pur non lavorando in permanenza – anche se divenne presto permanente almeno «ad hoc» (Potz) -, divenne l’istituto centrale e il fattore determinante dello sviluppo del patriarcato bizantino. Più della metà degli atti del patriarcato del periodo che corre tra il concilio di Calcedonia (451) e l’inizio delle lotte iconoclaste (717) hanno avuto carattere sinodale. Nei tre secoli e mezzo successivi, fino al grande scisma del 1054, l’istituto subì vicende alterne, passando da momenti di totale decadenza – accompagnati da crisi sinodale generale, come nella prima metà dell’VIII sec. o nel X sec., corrispondenti a periodi di forte pressione imperiale sulla chiesa – a momenti di grande splendore, come nella seconda metà del IX sec. L’istituto subì una seconda trasformazione in seguito all’identificarsi del territorio patriarcale con quello imperiale e all’oblio nel quale erano caduti i patriarcati del medio oriente con il progredire dell’avanzata mussulmana. Il coincidere delle persone che avrebbero dovuto partecipare sia al sinodo patriarcale che a quello endemusa facilitò le mire autocratiche del patriarca che poté imprimere all’attività sinodale uno stile funzionale non molto dissimile da quello dei concili papali dell’alto medio evo, e mettere i metropoliti sotto tutela.

Una terza metamorfosi dell’istituto avvenne nel XIII sec. quando, in seguito alla conquista di Costantinopoli da parte dei latini, i metropoliti abbandonarono le loro sedi per stabilirsi alla corte imperiale riparatasi a Nicea. Da questa situazione emersero i metropoliti-«synkellos» che godevano il diritto di rappresentare gli altri metropoliti al sinodo, il quale, cessando di essere fluttuante nella composizione dei membri, non solo divenne una struttura di potere fortemente gerarchizzata attorno all’autorità primaziale del patriarca, ma incominciò anche a lavorare in permanenza, staccandosi però sempre di più dalla base ecclesiale delle Chiese particolari dove i vescovi non mantenevano più la loro residenza (Schmemann).

A sua volta il sinodo permanente – che veniva convocato ormai più volte alla settimana – subì, dopo la conquista ottomana del 1453, una trasformazione in profondità in seguito alla quale al patriarca di Costantinopoli – incorporato nella gerarchia imperiale con il rango di visir – fu assegnata dai nuovi padroni la funzione di capo civile della popolazione ortodossa dell’impero. Al posto dei metropoliti, ritornati a risiedere nelle loro capitali, entrarono a far parte del sinodo permanente membri dell’alto clero e laici della curia civile del patriarca. Questa situazione di rafforzata autocrazia patriarcale, nella quale il sinodo permanente non fu più espressione pura della sinodalità episcopale, si protrasse fino ella metà del XVIII sec., quando con il gerontismo prevalse l’idea che l’intero episcopato poteva essere legittimamente rappresentato da un ridotto collegio di vescovi. Al sinodo fu dato un nuovo assetto: da struttura semplicemente gerarchica divenne oligarchica, composta da metropoliti-geronti – il cui numero fu progressivamente fissato da 4 a 12 – riuniti attorno al patriarca, il cui prestigio ecclesiale e politico aveva ormai toccato l’apice. Quando, in occasione di avvenimenti straordinari, partecipavano ai lavori altri metropoliti o patriarchi, il sinodo permanente sì ricostituiva occasionalmente come sinodo endemusa, l’ultimo dei quali fu celebrato nel 1872.

A questa situazione sinodale dualistica fu posto fine con il formarsi, nel XIX sec., delle moderne chiese autocefale, ma soprattutto con l’ingresso della Turchia, dopo la guerra di Crimea (1856), nella sfera culturale del diritto costituzionale europeo moderno fondato su una più netta distinzione tra potere temporale e spirituale. Privato del potere politico-civile il patriarca riacquistò, dopo oltre un millennio, la sua originale funzione ecclesiale, secondaria rispetto a quella del sinodo permanente. Quest’ultimo, a sua volta, subì sotto la spinta democratica un’ultima, definitiva evoluzione, poiché il diritto dei metropoliti di partecipare ai lavori fu regolato secondo il criterio del turno. Questa struttura del sinodo permanente è passata nelle costituzioni delle chiese autocefale moderne, le quali accanto ad essa hanno restaurato pienamente anche le antiche forme sinodali canoniche ordinarie, ricostituendo la sinodalità della chiesa ortodossa nella sua articolazione primitiva.

Concludendo si deve costatare che la sinodalità orientale, così come si è espressa nel patriarcato bizantino, che è l’unico tra quelli ortodossi antichi a poter essere preso come paradigma, ha subito, dal concilio di Calcedonia in poi, una progressiva, «reductio ad unum», sfociata in un assorbimento successivo, più o meno completo, dei sinodi ordinari – provinciale e patriarcale – in quello endemusa. Quest’ultimo, venne a sua volta sostituito, agli inizi del XIII sec., dal sinodo permanente, il quale, pur collocando la chiesa bizantina in stato di continua vita sinodale, è diventato sempre meno rappresentativo di una reale esperienza collegiale-episcopale di base, essendo trasformato in istituto misto e oligarchicamente strutturato, operante all’interno di un regime di gestione ecclesiale profondamente marcato dall’autorità primaziale del patriarca. Ciò permette di affermare che l’intensità effettiva dell’attività sinodale a livello provinciale e patriarcale della chiesa bizantina probabilmente non ha differito molto da quella registrata nella chiesa latina. Rispetto a quest’ultima fu però incompatibilmente molto più stringente al vertice, dove, prima nel sinodo endemusa e poi in quello permanente, la concezione ecclesiologica ortodossa ha potuto esprimersi in tutte la sua tendenziale antinomicità rispetto a quella latina.

 

5. Valutazione teologica

 

 1. La sinodalità episcopale

La prima costatazione che si impone è che la sinodalità – o elemento sinodale – non si esprime solo attraverso l’attività dei concili, ecumenici o minori. È una dimensione ontologica della costituzione ecclesiale che si attualizza anche in altri fenomeni – come p. es. quello del magistero ordinario dei vescovi – e che, per avere valenza teologica e giuridica all’interno della «communio ecclesiae et ecclesiarum», non ha bisogno di esprimersi necessariamente attraverso forme istituzionali specifiche.

Il Vat II non è riuscito ad affrontare il problema della sinodalità in termini dottrinalmente esaurienti. La ragione ultima sta probabilmente nel fatto che non seppe sviluppare un discorso teologico esplicito sulla chiesa a partire dalla categoria centrale della «communio», che comunque lega come tenue filigrana, tutta l’ecclesiologia vaticana (Saier). Sintomo di questo imbarazzo dottrinale è il mancato uso di sostantivi astratti come “sinodalità”, “conciliarità” e perfino “collegialità” i quali avrebbero inevitabilmente postulato una definizione teorica. Il concilio ha evitato anche l’uso degli aggettivi “sinodale” e “conciliare”, restringendo con grande parsimonia il proprio lessico all’aggettivo «collegialis», che, per la sua insopprimibile valenza tecnico-giuridica, era tra queste voci quella meno adatta ad esprimere con precisione l’idea della sinodalità. In effetti non tutti gli atti attraverso i quali si esprime la sinodalità hanno carattere “collegiale”. Anzi, dal profilo giuridico, gli atti compiuti dai vescovi nell’esercizio del loro ministero sono raramente “collegiali”, quando non siano compiuti all’interno di strutture conciliari come i concili o le conferenze episcopali. Un atto è “collegiale” solo quando la volontà dei singoli, perdendo la propria rilevanza autonoma, è integrata nella volontà del collegio, unico soggetto responsabile della decisione che può essere una realtà con o senza personalità giuridica propria (Aymans). L’atto collegiale è perciò diverso, sia dagli atti paralleli (p. es. esercizio del magistero ordinario da parte dei singoli vescovi in comunione con il papa), sia dagli atti collettivi (p. es. la concelebrazione eucaristica), i quali possono essere, o sono per loro natura, atti attraverso i quali si esprime l’elemento sinodale della chiesa. Il Vat II, usando con prevalenza l’accezione tecnica dell’aggettivo “collegiale”, ha dato adito all’equivoco secondo il quale la sinodalità – poco felicemente tradotta dalla dottrina teologica corrente con “collegialità” – si identifichi con l’attività dei vescovi riuniti in concilio.

Nella sinodalità emerge, a livello formale dell’esercizio del potere ecclesiale, il principio della «communio», il quale però ha una rilevanza ecclesiologica molto più vasta della sinodalità stessa, poiché investe non solo l’uso dei ministeri nella loro funzione sacramentale e giurisdizionale, ma tutta la realtà mistico-sacramentale della chiesa, che a livello ontologico è una «communio cum Deo et hominibus» e, a quello più strutturale della costituzione, una «communio ecclesiarum». Essendo espressione istituzionale della «communio ecclesiae et ecclesiarum», la sinodalità non tende a coartare l’esercizio personale-individuale del potere ma a conferirgli una dimensione più vasta e più perfetta in funzione dell’unità ecclesiale. Sarebbe perciò scorretto affrontare il problema della sinodalità, profondamente sentito dalla chiesa post-conciliare, a partire da motivazioni e modelli mondani. Il risultato sarebbe inevitabilmente quello di farla sfociare nell’insanabile antinomia tra principio personale e collettivo, soggiacente ad ogni istituto giuridico collegiale civile. Per cogliere la tipicità propria della sinodalità ecclesiale il discorso deve essere condotto con rigore teologico. Esso deve evitare di prendere lo spunto sia dallo scetticismo con il quale la coscienza democratica moderna giudica l’esercizio monocratico del potere, sia dall’ottimismo con il quale la scienze sociologiche postulano la gestione di gruppo o con il quale il modello tecnocratico propone la coordinazione o divisione del potere come unica forma di governo possibile in una società dei nessi sempre più complessi. Il ministero o ufficio ecclesiale non trova riscontro in nessun sistema politico moderno di organizzazione del potere, come quello totalitario o democratico, oppure quello di una società che si definisce solo come ambito di libera concorrenza di gruppi pluralistici per la gestione del potere. L’ufficio in quanto istituto giuridico si definisce per il fatto che il potere di cui è investito il titolare non è delegato, né dalla società né dallo stato, poiché sfugge alla loro disposizione (Pirson). È evidente che le costituzioni statuali moderne, di estrazione giusnaturalista e razionalista, sono fondate sulla delega dei poteri e non più sull’istituto dell’ufficio. Nella costituzione ecclesiale, per contro, il ministero o ufficio episcopale, cui è affidata la responsabilità e il potere di garantire nella storia il continuo attualizzarsi della missione salvifica di Cristo e della chiesa, non è affidato ai vescovi dalla chiesa ma da Cristo, sia pure attraverso la mediazione sacramentale e giurisdizionale della chiesa.

La natura personale dell’ufficio ecclesiale è colta con precisione dalla categoria teologica della “rappresentazione” che differisce dall’analogo istituto giuridico, civile e pubblico, per due aspetti: da una parte stabilisce un rapporto di relazione, non totale, ma parziale tra il ministro e il Cristo, che agisce nel sacramento ex opere operato; dall’altra non è applicabile alla persona morale o giuridica ma solo alla persona fisica. Per questa ragione la teologia non ha mai affermato che il concilio ecumenico o il collegio universale dei vescovi, che detengono il supremo e pieno potere ecclesiale, rappresentano Cristo. Solamente il vescovo può rappresentare e rendere presente Cristo; il collegio dei vescovi rappresenta solo la chiesa ma in un rapporto di relazione totale. Per la stessa ragione il collegio dei vescovi è radicalmente incapace di amministrare il sacramento. La concelebrazione non è atto collegiale, ma solo collettivo, perché posto dai vescovi singolarmente, in vista di produrre un effetto comune, senza essere integrati in un unico soggetto agente (Mörsdorf).

Se la radice della dimensione personale del ministero ecclesiale è la struttura sacramentale propria della rappresentazione, la radice della sua dimensione sinodale è invece la struttura particolare della chiesa universale che è una “communio ecclesiarum”. A differenza della chiesa particolare che è monistica, perché non è costituita dalla pluralità delle parrocchie, la chiesa universale è costituita dalla pluralità delle chiese particolari. La formula più sintetica e penetrante per definire la natura del rapporto tra chiesa universale e particolare è quella usata dal Vat II. La LG afferma che la chiesa universale si realizza nelle e dalle chiese particolari «in quibus et ex quibus una et unica ecclesia catholica exsistit», (23,1). La chiesa universale – pur avendo nel collegio dei vescovi e nel primato uffici ministeriali propri – non esiste come realtà autonoma ma solo in quanto si concretizza storicamente nelle singole chiese particolari ed emerge da esse come risultanza globale. Parallelamente il collegio episcopale non esiste se non come risultanza della pluralità dei vescovi, i quali, a loro volta, lo rendono presente, rappresentandolo, nelle chiese particolari. L’identità di adeguazione non esiste tra la chiesa universale e la singola chiesa particolare, ma tra la chiesa universale e la totalità delle chiese particolari. La stessa dinamica esiste tra l’elemento costitutivo della «communio ecclesiarum» e quello della sinodalità. Come la «communio» delle chiese particolari tra di loro è costituita dal rapporto di comunione che ciascuna gode con la chiesa di Roma, così anche la sinodalità episcopale – in quanto emergenza operativa della «communio» a livello ministeriale – ha la propria genesi non nel rapporto dei vescovi tra loro, ma nel loro rapporto con il romano pontefice (Aymans).

La struttura gerarchica della communio ecclesiale diventa rapporto di subordinazione nell’esercizio della sinodalità. Mentre i singoli vescovi sono il principio e il fondamento delle loro chiese particolari, e, solo mediatamente, della chiesa universale, il vescovo di Roma è l’unico principio e fondamento perpetuo personale della chiesa universale o «communio ecclesiarum» (LG 23,1).

L’aspetto personale dell’ufficio ecclesiale, radicato nella dinamica sacramentale della rappresentazione, e quello sinodale, radicato nella struttura pluralistica della «communio ecclesiarum», hanno la loro genesi comune nella dinamica personale e sinodale della successione apostolica, il cui «locus theologicus» è la struttura formale del sacramento e della parola. Dal profilo formale l’apostolicità si realizza, nella linea della successione individuale attraverso il sacramento; in quella sinodale, invece, attraverso la trasmissione del potere di giurisdizione, nel quale è cristallizata istituzionalmente la forza vincolante della parola. Nella linea delle successione sinodale l’apostolicità si realizza pienamente solo come partecipazione comune di tutti i vescovi «per modum non aequalitatis sed proportionalitatis» (Nexp., 1) al potere degli apostoli. Mentre nel sacramento il vescovo riceve personalmente la totalità del potere cansacratorio, nella missio canonica riceve solo una porzione del potere, che nella sua totalità appartiene «in solidum» o sinodalmente anche a tutti gli altri vescovi, Il romano pontefice in quanto successore di Pietro è l’unico vescovo ed essere investito del pieno e supremo potere di giurisdizione, che però gli è conferito formalmente non in quanto membro, ma in quanto capo del collegio dei vescovi, dal quale è strutturalmente inscindibile, anche se può rappresentarlo personalmente in una dinamica di relazione totale. Il Vat II ha colto la natura dell’elemento sinodale della chiesa con maggiore precisione del CIC. Non ha più preso come soggetto del pieno e supremo potere della chiesa universale il concilio ecumenico (can. 228, § 1), ma il collegio dei vescovi che dal profilo formale non è identico all’istituto giuridico del concilio, essendone la realtà teologica previa e costitutiva. Il concilio in quanto istanza collegiale, con o senza personalità canonica morale, che si esprime con lo strumento formale-giuridico dell’atto collegiale, non è soggetto né attivo né passivo del potere di ordine. Il collegio dei vescovi – che normalmente non si esprime attraverso atti collegiali, ma paralleli e collettivi – può essere invece più propriamente considerato soggetto di tutto il potere ecclesiale di ordine e di giurisdizione, anche se in modo solo disgiuntivo. Del collegio dei vescovi si può affermare che esercita il pieno e supremo potere di ordine, nel senso che tutti i singoli vescovi, membri del collegio, posseggono tutto il potere di ordine. Il potere del collegio, pur essendo pieno e supremo, non è né quantitativamente né qualitativamente diverso da quello posseduto dal singolo vescovo. In rapporto al potere di giurisdizione, per contro, il collegio dei vescovi – come del resto anche il concilio – esercita, indipendentemente dalla natura giuridica degli atti attraverso i quali si esprime, il potere di giurisdizione nella sua totalità. Esso non è solo quantitativamente diverso dalla somma di quello dei singoli vescovi, ma è anche e soprattutto diverso qualitativamente. Mentre il singolo vescovo può consacrare sempre validamente in tutta la chiesa universale, non può predicare autoritativamente la parola e derivarne un ordinamento giuridicamente vincolante all’interno delle «communio ecclesiarum», se non per la propria chiesa particolare. Per poter esercitare direttamente il potere di giurisdizione sulla chiesa universale deve inserirsi nella dinamica dell’integrazione sinodale che presuppone sempre il possesso della «communio plena». Il potere di ordine, trasmesso con il sacramento, si distingue formalmente da quello di giurisdizione per il fatto che non può essere perso. Il potere di giurisdizione, che ha la sua origine nella parola ed è trasmesso con la «missio», si distingue da quello di ordine perché gli è affidato il compito di regolare e controllare l’uso legittimo del sacramento. Sacramento e parola sono i due elementi formalmente diversi attraverso i quali, con dinamica strutturale diversa, ma in rapporto di dipendenza reciproca, viene realizzata la chiesa. Il sacramento concretizza l’efficacia della parola; la parola tende alla realizzazione del segno sacramentale, in un rapporto di coessenziale reciprocità (Söhngen). La parola si esprime attraverso lo strumento logico-formale del giudizio e della decisione, che, evidentemente, possono essere formulati non solo individualmente da una singola persona fisica, ma anche in modo collegiale da una persona morale. Se la dimensione, personale-individuale dell’ufficio episcopale ha la sua radice ultima nella logica strutturale del sacramento, la dimensione sinodale ha la sua radice ultima nella logica strutturale della parola di Dio che “giudica il mondo”, e che può essere pronunciata non solo dal singolo vescovo, ma anche dal collegio dei vescovi in quanto tale, con atto collegiale. Ne deriva che la dimensione personale dell’ufficio episcopale è il fondamento previo della dimensione sinodale. Infatti la parola non deve sempre essere necessariamente pronunciata da tutto il collegio dei vescovi con atto collegiale. Pur essendo coessenziale all’ufficio episcopale, allo stesso modo che la parola è coessenziale al sacramento, la sinodalità – nella misura in cui si esprime attraverso un giudizio o una decisione disciplinare formalmente collegiale – è sussidiaria nel suo esercizio anche se essa, lungi dal limitare l’espressione personale dell’ufficio, la rende più completa e perfetta.

Questo giudizio non può essere rovesciato né dalla consapevolezza degli sviluppi spesso unilaterali avvenuti nell’ecclesiologia latina, soprattutto a partire dall’alto medio evo, né dalla costatazione che altri elementi spuri di ordine socio-politico, hanno provocato un’ipertrofia monocratica nella gestione del potere ecclesiale, spesso enfaticamente accettata anche del magistero. Secondo la logica profonda dell’ecclesiologia cattolica, il mistero della salvezza in Cristo può attuarsi concretamente solo nella chiesa particolare, dove il vescovo è investito di tutto il potere necessario per garantire la celebrazione del sacramento e della parola. La funzione della chiesa universale è quella di garantire l’autenticità del sacramento e la legittimità della parola celebrati nella chiesa particolare. Il segno visibile di questa autenticità nella successione apostolica è la comunione esistente tra i vescovi e il romano pontefice. La sinodalità – nella misura in cui si distingue formalmente dalla «communio» – è la modalità giuridizionale attraverso la quale viene garantita, a livello d’interpretazione autoritativa della parola, l’unità dei vescovi all’interno della «communio ecclesiarum». Tuttavia la forza giuridicamente vincolante dei giudizi e delle decisioni collegiali non scaturisce dalla forza formale del principio della maggioranza – radicato in quello democratico dell’uguaglianza giuridica – ma da un fenomeno di convergenza dei vescovi tra di loro attorno alla testimonianza del vescovo di Roma, il quale, in quanto capo gerarchico del collegio universale, rappresenta Cristo nella pienezza del potere sia di ordine che di giurisdizione ed è perciò punto di riferimento personale per l’unità di tutta la chiesa. Il rifiuto del Vat II di riconoscere alle conferenze episcopali una competenza giuridica generale nel loro territorio ecclesiale è da un punto di vista ecclesiologico sintomatico. Da una parte mette a nudo il fatto che il Vat II, operando prevalentemente all’interno dell’orizzonte ecclesiologico tipico della tradizione latina, ha colto il problema della sinodalità solo a livello della chiesa universale, senza riuscire ad esprimere un giudizio sul valore della 5giurisdizione sinodale esercitata dai collegi episcopali particolari. Dall’altra, emerge la preoccupazione di evitare un’integrazione sistematica e globale dei vescovi in un’istanza gerarchica collegiale soprattutto in previsione del fatto che le conferenze episcopali, a differenza dei concili provinciali e plenari, sono destinate ad esplicare un’attività sinodale quasi-permanente. Dal momento che la conferenza è solo un’istanza gerarchica intermedia, ultimamente subordinata alla s. Sede, sarebbe stato possibile dal profilo strettamente teologico investirla di una competenza collegiale generale. Tuttavia non si può prescindere dal fatto che, non essendo strutturata internamente in modo gerarchico, sarebbe costretta ad applicare in modo esclusivo il criterio maggioritario, nella sua unilateralità ultimamente estraneo alla sostanza dell’ecclesiologia cattolica. Dal profilo di una politica legislativa si tratta di scegliere tra i vantaggi, indubbi, offerti da una gestione collegiale generalizzata del potere ecclesiale in una società dai nessi sempre più complessi, e gli svantaggi che il possibile equivoco democratico può far nascere nella coscienza della base ecclesiale.

Nella teologia orientale, segnata da un gusto ellenistico per l’ontologia delle realtà celesti, prevale, a differenza che in quella latina, – china di preferenza sulle realtà ecclesiali terrestri – l’idea della trascendenza. La chiesa è un’icona che deve rispecchiare con fedeltà l’uguaglianza esistente tra le persone della ss. Trinità. In forza del sistema della consacrazione relativa i vescovi sono tutti uguali tra di loro, cosicché nella frazione del pane rappresentano Cristo tutti allo stesso modo. Pur conservando la distinzione tra ordine e giurisdizione, la chiesa ortodossa non ha colto, come quella latina, la dimensione giuridica che lega l’eucaristia al potere di sciogliere e legare (Andresen). L’atto redentivo celebrato dai vescovi nel sacrificio eucaristico si esaurisce all’interno del suo aspetto sacramentale, per cui non è compiuto in modo eminente dal successore di Pietro, che di conseguenza non ha un primato di giurisdizione sugli altri vescovi. La subordinazione giuridica di un vescovo all’altro ha carattere solo storico e umano. Si realizza entro l’ambito di ogni singola chiesa acefala e patriarcato, ma trova il suo limite invalicabile nell’uguaglianza tra di loro dei super-vescovi proposti alle diverse chiese auto-cefale. Questa ecclesiologia, che non conosce il principio della «pars pro toto», ma solo quello della «pars in toto» (Bulgakov), si è tradotta in un sistema costituzionale paritario e acefalo, in cui la competenza ultima non spetta mai ad una autorità individuale, ma ad un collegio di vescovi.

L’istituto nel quale si è riflessa con maggiore trasparenza questa concezione ecclesiologica è il sinodo endemusa (e permanente). Più che l’immagine della chiesa particolare, in esso si cristallizza l’immagine specifica che gli orientali hanno della chiesa universale e del concilio ecumenico di cui il sinodo endemusa è una miniatura. Il sinodo endemusa in effetti, pur essendo un istituto particolare della chiesa patriarcale, ha funzionato come surrogato ecumenico del concilio panortodosso. Il suo regime è paritario poiché il patriarca, essendo semplicemente il «primus inter pares», non ha lo stesso potere primaziale di cui gode il papa all’interno del concilio ecumenico e il metropolita all’interno del concilio provinciale. Tuttavia la sua funzione non è riducibile a quella del presidente di un’assemblea democratica moderna. Il patriarca non è eletto e non esplica, in quanto presidente, una funzione solo procedurale, ma in quanto titolare dell’ufficio patriarcale è ontologicamente necessario per il costituirsi del sinodo. D’altra parte, se il sinodo non può procedere senza il patriarca, quest’ultimo non può prendere nessuna decisione importante senza di esso (Hajjar). È una parità nella quale il patriarca è considerato solo come organo del sinodo. Tradotto nella terminologia latina ciò significa che il patriarca, in quanto preside del sinodo, non gode di una giurisdizione ordinaria propria, ma solo di una giurisdizione ordinaria vicaria (Polz). Era inevitabile che questa visione ecclesiologica, nella quale la sinodalità al vertice della chiesa è considerata così coessenziale all’ufficio episcopale da sopprimere ogni giurisdizione super-episcopale propria, sfociasse – dal XIII sec. in poi – come frutto della disarmonia dottrinale e politica esistente con la chiesa latina, in una struttura sinodale continua: quella del sinodo permanente. Nel sinodo permanente la sinodalità orientale perde, a livello di esercizio il carattere sussidiario che essa ha nell’ecclesiologia latina. La dimensione personale dell’ufficio episcopale è assorbita quasi totalmente da quella sinodale. Per stabilire un criterio di unità non possiede altra soluzione che quella di ricorrere al principio democratico della maggioranza, radicalmente incapace di sostituire il principio personale gerarchico, fondato sulla dinamica della rappresentazione personale del Cristo.

Concludendo si deve costatare che l’analisi della prassi sinodale della chiesa conferma il giudizio teologico-sistematico sulla sinodalità. Il giudizio teologico non giustifica certo «a posteriori» lo scarto enorme (3%), clamorosamente anormale, verificatosi tra la coscienza che la chiesa ha avuto a livello legislativo della propria sinodalità e la prassi conciliare reale. Tuttavia non si può prescindere dal fatto che la storia della chiesa ha sempre uno spessore anche teologico. Deve perciò essere letta a partire dalla sua intrinseca valenza dogmatica perché contiene indicazioni sulla natura della costituzione ecclesiale e dell’ufficio episcopale, valevoli anche per il presente.

È un fatto incontrovertibile – al di là delle cause socio-politiche e teologiche che hanno frenato l’attività conciliare – che fino al grande scisma la chiesa orientale e latina hanno vissuto l’espressione conciliare della sinodalità come sussidiaria rispetto all’esercizio personale-monocratico del ministero episcopale. D’altra parte è sintomatico che la chiesa ortodossa si è messa in una situazione costituzionale di sinodalità qualitativamente diversa rispetto al passato, solo dopo che le ecclesiologie in oriente e in occidente si erano irreversibilmente diversificate.

 

2. Sinodalità presbiteriale e laicale?

La sinodalità ha una dimensione essenziale del ministero episcopale. Il suo luogo teologico primario è la «communio ecclesiarum», strutturata in modo gerarchico attorno all’ufficio primaziale del romano pontefice. In che misura è possibile parlare di sinodalità a livello della chiesa particolare, con riferimento alla partecipazione dei presbiteri e dei laici?

Il principio della LG secondo il quale la chiesa universale si realizza nelle chiese particolari, sembrerebbe offrire lo spunto per affermare che nella chiesa particolare oltre ai valori soteriologici generali dovrebbe declinarsi anche il modello strutturale della chiesa universale. La descrizione che il Vat II, per la prima volta nella storia conciliare, ha fatto della diocesi, ha come idea portante che la chiesa particolare deve essere una realtà grande a sufficienza e in possesso di tutte le strutture necessarie, per essere in grado di realizzare i predicati essenziali della chiesa universale e inserirsi nella «communio ecclesiarum» come entità originale, capace di sostenere all’interno del proprio ambiente storico-culturale un discorso ecclesiale universale (CD 11). La storicità di questa descrizione emerge inmediatamente dal fatto che da un punto di vista teologico la chiesa particolare coincide con l’eucaristia presieduta dal vescovo. Le dimensioni storico-culturale e geografico-antropologica non appartengono all’essenza costitutiva della chiesa particolare (Colombo). La chiesa particolare, nella sua sostanza teologica, non è costituita dal pluralismo socio-culturale delle chiese particolari, ma dalla pluralità delle eucaristie celebrate dai vescovi.

A differenza della chiesa universale, la chiesa particolare è una realtà fondamentalmente monistica. Non è data dalla somma delle parrocchie, che in ultima analisi sono semplici circoscrizioni amministrative alle quali il diritto canonico ha riconosciuto una certa autonomia, ma dalla «communio» delle diverse eucaristie presbiterali, le quali però non sono autonome rispetto all’eucaristia del vescovo. Il presbitero riceve il proprio ministero come partecipazione a quello del vescovo. Dal momento che la parrocchia o la comunità eucaristica non hanno la stessa consistenza ecclesiologica della chiesa particolare nella chiesa universale, il presbitero rappresenta solo in senso sociologico la propria comunità eucaristica in seno alla diocesi. Ciò è parallelo al fatto che il rapporto presbiteri-vescovo è profondamente diverso dal rapporto vescovi-papa. Il presbitero è un’emanazione necessaria dell’ufficio episcopale, nel quale si articola la pienezza ministeriale del vescovo. Vescovo e presbiteri formano un’unità sacramentale, anche se i presbiteri godono di un’autonomia propria in quanto rappresentano personalmente Cristo nella celebrazione sacramentale. Essi non esistono, tuttavia, se non in quanto derivano dal vescovo la propria funzione sia sacramentale che pastorale-giurisdizionale.

La struttura sinodale della chiesa particolare, fondata sulla partecipazione dei presbiteri alla pienezza dell’«ordo episcopalis» e sulla «communio hierarchica» con il vescovo, capo del presbiterio, è, di conseguenza, solo analogica rispetto a quella del collegio episcopale, dove tutti i vescovi posseggono in proprio il ministero ecclesiale sacramentale e giurisdizionale e non come partecipazione o derivazione dell’ufficio primaziale del papa. La sinodalità del presbiterio non è perciò fondata sull’autonomia sacramentale e giurisdizionale di ogni presbitero, ma sulla partecipazione di tutti alla pienezza dell’ufficio episcopale. Di conseguenza essa è situata teologicamente non nella chiesa universale ma nella chiesa particolare. Non essendo una partecipazione alla sinodalità specifica del collegio universale dei vescovi, ogni partecipazione dei presbiteri all’attività sinodale della chiesa universale esige un mandato da parte del collegio dei vescovi. Storicamente ciò trova un riscontro nel fatto che il collegio dei vescovi ha deciso volta per volta la posizione giuridica dei presbiteri chiamati al concilio ecumenico.

Il secondo livello al quale il problema della sinodalità si pone all’interno della chiesa particolare è quello dei laici. La partecipazione dei laici ai concili è un fatto che risale all’antichità, ma che la dottrina non è ancora riuscita a valutare in modo articolato. Anche la partecipazione dei laici all’attività della chiesa non può essere considerata come una forma di partecipazione alla sinodalità specifica del collegio episcopale. Il luogo teologico del laicato (ìLaico) è la dottrina del Vat II secondo il quale i laici partecipano «suo modo et pro sua parte» al sacerdozio, al magistero e alla regalità di Cristo (LG 31,1). Il concilio non è sempre stato coerente con questa definizione, perché non mancano testi dove il laico sembra essere definito dalla sua indole secolare, che oltrettutto non gli è esclusiva. Evidentemente il laico, grazie alla sua indole secolare, è in grado di dare un apporto specifico all’apostolato della chiesa, ma questa qualifica sociologica (Mörsdorf), non offre la giustificazione ultima della sua funzione nella costituzione della chiesa. Se è vero che nel medio evo i laici furono chiamati ai concili non in quanto membri del popolo di Dio, ma formalmente come rappresentanti del potere secolare, non bisogna trascurare il fatto che quest’ultimo era parte integrante della struttura propria alla cristianità. D’altra parte, se è vero che i laici oggi vi sono chiamati in quanto membri del popolo di Dio, non si può prescindere dal fatto che la componente che li abilita a stabilire un confronto reale della chiesa con la cultura moderna secolarizzata è la loro indole secolare. La diversa motivazione formale con la quale i laici possono essere stati chiamati a partecipare all’attività sinodale della chiesa non può ingannare sul fatto che la giustificazione teologica può essere solo l’abilitazione da essi ricevuta diventando nel battesimo partecipi dei tre «munera Christi».

Vescovi e laici partecipano ai tre «munera Christi», ma in modo qualitativamente diverso. La partecipazione del vescovo è ministeriale e implica una partecipazione alla forza vincolante formale del sacramento e della parola. Consacrando e predicando il vescovo si costituisce come principio e fondamento della chiesa particolare. Anche la partecipazione del laico all’ufficio sacerdotale, magisteriale e regale di Cristo è diretta e immediata, sia perché il battesimo, a differenza del ministero presbiterale, non è una derivazione dell’ordo episcopalis, sia perché l’episcopato non è uno sviluppo sacramentale del battesimo. Sembra perciò escluso che il laico, nel battesimo, riceva una partecipazione anche al sacramento del vescovo e al suo ufficio pastorale. In che senso allora si deve parlare di partecipazione del laico alla sinodalità della chiesa, indiscutibilmente fondata sulla sinodalità episcopale? Se è vero che la sinodalità è la realtà ontologica e la modalità tecnico-istituzionale – diversa da qualsiasi forma secolare di gestione comunitaria del potere – che qualifica l’esercizio della corresponsabilità ministeriale dei vescovi, è altrettanto vero che ha la sua radice oltre che nel sacramento episcopale anche nella «communio» che investe tutta l’esperienza ecclesiale: quella dei pastori e quella dei laici. In quanto emergenza tecnico-istituzionale della «communio» essa può perciò investire analogicamente («suo modo et pro sua parte») anche l’esercizio della corresponsabilità laicale. A differenza di quella del vescovo, tuttavia, la partecipazione del laico alle strutture sinodali della chiesa oltre ad essere sussidiarie rispetto alla sua responsabilità personale in quanto cristiano – come lo è quella del vescovo rispetto all’esercizio personale dell’ufficio pastorale – sarebbe anche non necessaria. Per il vescovo, membro del collegio episcopale, la partecipazione alle strutture istituzionalizzate della sinodalità è necessaria, poiché, pur essendo una funzione sussidiaria nel suo esercizio, la dimensione sinodale appartiene alla sostanza stessa dell’ufficio episcopale ed è perciò un dovere fondamentale. La partecipazione del laico, invece, è libera, poiché il singolo laico, per vivere la «communio» a livello di operatività responsabile, non deve necessariamente partecipare ad eventuali forme sinodali istituzionalizzate. Se la chiesa ha chiamato oggi i laici ad inserirsi nelle strutture sinodali diocesane – come potrebbe chiamarli domani a livello delle conferenze episcopali e della chiesa universale – lo ha fatto non solo per tener conto dell’ambiente socio-culturale democratico in cui l’annuncio cristiano deve essere fatto, ma soprattutto per sottolineare la loro responsabilità globale rispetto alla missione della chiesa nel mondo. Tuttavia la realizzazione della dimensione comunitaria dell’esperienza laicale nella chiesa non sembra implicare necessariamente una sua strutturazione sinodale-istituzionale. Fatta questa premessa, bisogna costatare che, se il luogo specifico della partecipazione sinodale dei presbiteri è l’ambito della diocesi in quanto tale, quello specifico ed eventuale dei laici sembra essere l’ambito della comunità eucaristica, dove il laico è chiamato a costituire il tessuto base del popolo di Dio (Aymans). Ogni altra partecipazione a livello di chiesa particolare e universale, in quanto implica una partecipazione alla sinodalità specifica del presbiterio e del collegio episcopale alle quali i laici non sono immediatamente abilitati in forza del battesimo, richiede in forma implicita o esplicita un mandato da parte dei vescovi stessi. Ricevendo il battesimo, il laico diventa partecipe dei tre «munera Christi», ma non dell’ufficio episcopale, la cui funzione, più che essere quella di costruire la chiesa creando i nessi di comunione da cui nasce il popolo di Dio, è quella di garantire l’autenticità della celebrazione del sacramento e della parola e l’unità della «communio ecclesiastica».

La chiesa ha tradotto il diverso valore teologico della partecipazione dei vescovi, presbiteri e laici alle strutture sinodali con gli istituti giuridici del voto deliberativo e consultivo. Se dal profilo teologico questi istituti non riescono a tradurre, con tutta la precisione desiderabile, la dinamica propria della sinodalità ecclesiale, anche dal profilo giuridico hanno valore solo analogico rispetto a quelli dei sistemi politico-civili moderni, fondati sul principio democratico della rappresentazione e su quello della divisione del potere.

Nel collegio episcopale, riunito in concilio, il voto del vescovo è deliberativo nel senso che esprime la testimonianza, per principio inappellabile e vincolante, della propria fede e della fede vissuta dalla sua chiesa particolare. Non ha invece carattere deliberativo nel senso che il vescovo attraverso il voto possa esprimere una decisione presa in modo volontaristico. La votazione sinodale non esprime, nella sua dinamica giundico-formale, una decisione sul contenuto della fede, ma solo la costatazione dell’esistenza di una convergenza nella testimonianza dei vescovi. Il contenuto della fede può essere solo costatato nella sua verità oggettiva e non deciso parlamentaristicamente, con un atto di volontà espresso da una maggioranza. Dato che le strutture sinodali non sono fondate sul principio parlamentare moderno della rappresentazione o delega del potere, ma sull’ufficio ecclesiale, solo la testimonianza di chi è investito di un ministero è vincolante giuridicamente. Per questa ragione, la testimonianza del presbitero in quanto preside dell’eucaristia possiede in linea di principio, all’interno delle strutture sinodali emergenti dalla comunità eucaristica, una consistenza superiore a quella dei laici, anche se subordinata al giudizio del vescovo, capo del presbiterio e garante ultimo dell’unità di ogni comunità eucaristica all’interno della chiesa particolare. Evidentemente il diritto canonico può articolare questa preminenza presbiterale con l’elasticità richiesta dall’ambiente socio-culturale e da adeguate prospettive pastorali. Per la stessa ragione la testimonianza dei presbiteri e dei laici, a livello della chiesa particolare ed universale, non ha la medesima consistenza di quella dei vescovi. La loro partecipazione agli uffici sacerdotale, profetico e regale di Cristo è qualitativamente diversa, e per quanto riguarda i laici anche solo analogica rispetto a quella del vescovo. Ciononostante il voto consultivo dei presbiteri e dei laici è parte integrante del processo dal quale emerge il giudizio vincolante di fede del vescovo, sia perché i presbiteri sono l’emanazione necessaria dell’ufficio episcopale, sia perché i laici sono, nel popolo di Dio, la base imprescindibile per la costruzione della chiesa particolare che deve dare una testimonianza cristiana, potenzialmente universale, al mondo. Il voto consultivo ha perciò una forza vincolante intrinseca che gli proviene dalla complementarietà strutturale esistente tra l’ufficio episcopale, i presbiteri e i laici. La sua funzione può apparire come una riduzione indebita della partecipazione alla gestione del servizio ecclesiale solo a partire da un giudizio mondano, incapace di capire la forza vincolante della «communio» e del significato costituzionale della sinodalità ecclesiale, che non è fondata sul principio della divisione del potere, ma sul fatto che la responsabilità del vescovo è indivisibile e non mai sostituibile con quella di una maggioranza.

La sinodalità, essendo la dimensione operativa della «communio ecclesiarum», si realizza in senso proprio solo nell’esercizio del ministero episcopale. Si esprime in modo pieno e supremo, valido per tutta la chiesa, nell’attività ordinaria o collegiale del «coetus episcoporum» e si realizza con valore vincolante, limitato ad un raggruppamento di chiese particolari, nei concili minori e nelle conferenze episcopali. A livello della chiesa particolare essa si esprime, come partecipazione qualitativamente diversa della sinodalità episcopale, nell’attività dei presbiteri all’interno del presbiterio e come esperienza solo analogica, nell’attività dei laici all’interno delle strutture sinodali proprie della comunità eucaristica.

 

Bibl. – Aa. Vv., La Chiesa locale (a cura di A. Tessarolo), Bologna 1970 (cf spec. gli articoli di G. Colombo, G. Carenzo), – Aa. Vv., Con (ed. francese) 1965 (cf spec. gli articoli di B. Tierney, H. Marot, H. Franzen, A. Weiler del n. 7 e gli articoli di T. G. Barberena, W. de Vries, W. Onclin, E. Nijmé, J. Hajjar, M. Bonnet del n. 8). – Aa. Vv., La chiesa del Vat II (dir. da G. Baraúna) Firenze 1965 (cf spec. gli articoli di J. Ratzinger, J. Lécuyer, E.

3. Ontologia della sinodalità

 

1. Sinodalità, conciliarità, collegialità

1. L’«impasse» terminologica e l’equivoco di fondo

Non è raro che la dottrina riconosca come espressione autentica della collegialità (o sinodalità) solo l’attività dei vescovi in seno alle strutture “collegiali” tradizionali (Concili ecumenici e particolari) e moderne (sinodo dei vescovi, conferenze episcopali), oppure ancora più rigorosamente, solo a quell’attività decisionale, che sfocia in un voto deliberativo.

In base a quest’ultima riduzione molti negano, di conseguenza, che il sinodo dei vescovi, il collegio dei cardinali e, per una larga parte della loro attività, le conferenze dei vescovi, siano autentiche espressioni della “collegialità”, per lo meno nella misura in cui tali organi si esprimono o dovessero esprimersi solo attraverso un voto consultivo.

L’attribuzione o la non attribuzione della qualifica di “collegialità” a questi istituti, o ad una parte della loro attività, e di conseguenza la maggiore o minore valutazione ecclesiologica di cui sono oggetto, è un indice dell’equivoco terminologico e di fondo in cui versa la dottrina.

Per un approccio corretto del problema della sinodalità non si può prescindere dalla constatazione dell’esistenza di una duplice non-identità: quella tra la sinodalità e l’attività conciliare e quella tra la sinodalità e la partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa.

Conducendo un’analisi sulla natura della sinodalità si deve accettare l’ipotesi che essa si realizzi non solo a livello episcopale, ed eventualmente presbiterale, ma anche laicale. Dal momento però che questa ipotesi si interseca dottrinalmente con il problema della differenza esistente tra la sinodalità e la partecipazione, è necessario scindere le questioni[1]. In questa sede affronteremo solo il problema della sinodalità episcopale.

Già a questo livello il problema è complesso e lo dimostra specularmente l’impasse terminologica in cui si dibattono l’ecclesiologia e la canonistica post-conciliari.

Per chiarire la questione di fondo, potrebbe rivelarsi molto utile la sostituzione del termine “collegialità” con quello di “sinodalità”, molto meno compromesso dal profilo giuridico e teologico. Il termine greco «synodos», che nella sua trascrizione latina («synodus») è sempre stato usato come sinonimo perfettamente equivalente di «concilium» (con il quale è stato tradotto), vanta oltrettutto il pregio di comprendere terminologicamente, tra gli istituti a carattere “collegiale”, anche il sinodo dei vescovi e il sinodo diocesano.

La sostituzione di “collegialità” con “sinodalità”, quantunque non si imponga per ragioni sostanziali, permette di evitare, almeno terminologicamente, l’equivoco secondo cui la “collegialità” si identifica con l’attività dei vescovi all’interno delle sue molteplici strutture “collegiali”. Non legato a preconcezioni storico-dottrinali riduttive, il termine sinodalità permette di affrontare il problema della “collegialità” senza legarlo concettualmente a quelle forme giuridico-istituzionali in cui essa può esprimersi.

 

2. L’imbarazzo dottrinale del Vaticano II e prime chiarificazioni

Se il Vaticano II non è riuscito ad affrontare il problema della sinodalità in modo dottrinalmente esauriente – non fosse che per il fatto di aver trattato della sinodalità solo a livello della Chiesa universale, senza entrare in merito a quella della chiesa particolare – dipende molto probabilmente dal fatto che non ha saputo sviluppare un discorso teologico esplicito sulla Chiesa, a partire dalla categoria centrale della «communio», che pure lega tutta l’ecclesiologia come una tenue filigrana[2].

Sintomo di questo imbarazzo dottrinale è il mancato uso di sostantivi astratti, come “sinodalità”, “conciliarità”[3], “collegialità”, che avrebbero inevitabilmente postulato dal Concilio una definizione teorica dei contenuti. Il Concilio ha evitato anche di usare gli aggettivi “sinodale” e “conciliare”, restringendo, non senza parsimonia, il proprio lessico all’aggettivo “collegiale”.

L’origine dell’equivoco dottrinale generato dal termine “collegialità” risale senza dubbio al ricorso fatto dal Vaticano II alla nozione, primordialmente giuridica, di «collegium» per esprimere la realtà ecclesiologica della comunione gerarchica costituita dagli apostoli con Pietro e dai vescovi con il Papa.

Usando per di più anche l’aggettivo “collegiale”, la cui valenza giuridica è pure insopprimibile, il Concilio ha aggravato l’equivoco.

Mettendo a tema il problema dell’attività “collegiale” del “collegio” dei vescovi con il termine astratto di collegialità, la dottrina ha potuto facilmente avallare un’accezione riduttiva della nozione in essi espressa. Infatti, è avvenuta sovente una «reductio ad unum» tra la dimensione della responsabilità solidale, insita nella natura del ministero episcopale e nel suo modo specifico di diventare operazionale, e le modalità istituzionali attraverso cui i vescovi possono realizzare sinodalmente la loro missione nella Chiesa, quasi che la collegialità sia autentica solo nella misura in cui essa si realizza attraverso atti collegiali (e in particolare nella forma del voto deliberativo) posti all’interno delle strutture decisionali collegiali, tradizionali (come i Concili), o più recenti (come il sinodo dei vescovi e le conferenze episcopali).

Interpretando la «Lumen gentium», che usa intenzionalmente il termine «collegium», alternativamente ad altri (come «coetus», «corpus», «ordus»), la «Nota explicativa praevia» nr. 1, tenta invano di spiegare la non identificabilità dell’«ordo episcoporum» con l’istituto giuridico del collegio, sostenendo che il collegio dei vescovi non realizza rigorosamente la nozione di collegio secondo l’accettazione propria alla teoria generale del diritto, per il fatto che esso non è retto dal principio della parità giuridica dei suoi membri.

In realtà la teoria generale del diritto e la prassi giuridica certificano dottrinalmente e storicamente dell’esistenza di collegi in cui non vige il principio della parità giuridica e sono strutturati gerarchicamente[4]. L’esempio moderno più eloquente è quello del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in cui due soli membri, gli USA e l’URSS, godono del diritto di veto, che rappresenta la forma più discriminatoria, perché rigorosamente gerarchizzata, dell’uso del potere collettivo.

In realtà ciò che distingue la struttura del collegio dei vescovi da quella dell’istituto giuridico del collegio, elaborata dalla teoria generale del diritto, è il fatto che, contrariamente a quest’ultimo, il collegio dei vescovi opera anche e soprattutto al di fuori del quadro istituzionale collegiale attraverso il quale viene regolata qualche volta la sua attività (Concilio ecumenico) ed entro cui i vescovi sono chiamati ad esprimersi (con voto deliberativo) attraverso un atto collegiale vero e proprio. L’episcopato sparso nel mondo non cessa di essere teologicamente e canonicamente collegio dei vescovi e di agire in modo sinodale, anche quando non è riunito in Concilio. I singoli vescovi a loro volta non cessano di agire formalmente in quanto membri del collegio anche quando operano individualmente.

In effetti, non tutti gli atti attraverso cui si esprime la sinodalità hanno carattere collegiale nel senso tecnico-giuridico. Anzi, dal profilo giuridico gli atti compiuti dai vescovi nell’esercizio del loro ministero sono raramente atti collegiali veri e propri.

Nel senso tecnico-giuridico un atto è collegiale solo quando la volontà dei singoli membri perde la sua autonomia giuridica per essere integrata nell’unico atto di volontà espressa dal collegio, in quanto unico soggetto giuridico. Ne consegue che la volontà del collegio non si identifica, dal profilo formale, neppure con la volontà della maggioranza.

L’atto collegiale è diverso dall’atto parallelo, così come si realizza per esempio nell’esercizio del magistero ordinario dei vescovi sparsi nel mondo o in certe decisioni delle conferenze episcopali. Nell’atto parallelo la volontà di ciascun membro converge nella produzione di una pluralità di risultati distinti dal profilo formale, ma uguali tra di loro sotto il profilo materiale. Nell’atto parallelo ogni vescovo rimane soggetto, autonomamente responsabile, del suo singolo atto[5].

L’atto collegiale è diverso anche dall’atto collettivo, il cui risultato non solo è uguale ma è unico per tutti, anche se la singola persona rimane autonomamente responsabile del proprio atto; come nella concelebrazione eucaristica, dove l’unica consacrazione delle specie non è il prodotto della volontà della maggioranza o del collegio in quanto soggetto giuridico unico, ma di ogni singolo concelebrante[6].

Occasionalmente il Vaticano II ha usato anche l’avverbio «coniunctim» per connotare il fatto che in un collegio un atto può essere a volte compiuto collegialmente, in senso tecnico, oppure solo parallelamente. Il Concilio ha sorprendentemente usato questo avverbio a proposito delle conferenze episcopali, sia per esimersi dal prendere posizione sul carattere sinodale delle stesse, trattandosi di un istituto delle chiese particolari e non della Chiesa universale in quanto tale; sia per tener conto del fatto che in esse i vescovi possono manifestare la loro volontà secondo forme giuridiche diverse: quella dell’atto collegiale o quella dell’atto parallelo[7].

 

3. La conferma dell’analisi storica

Se si dovesse identificare la sinodalità episcopale con l’attività conciliare dei vescovi, si dovrebbe concludere, sulla base di reperti storici, che la sinodalità è un fenomeno straordinario, se non addirittura sussidiario, dell’esercizio del ministero episcopale, sia a livello della Chiesa universale che della chiesa particolare.

In effetti la Chiesa universale ha celebrato nell’arco dei venti secoli della sua storia, solo una ventina di Concili ecumenici o generali, facendo oltretutto l’esperienza di lunghissimi periodi in cui l’attività conciliare ecumenica restò completamente paralizzata, come nei due secoli e mezzo trascorsi tra il Costantinopolitano IV (869) e il Lateranense I (1123) e nei tre secoli che separano il Tridentino dal Vaticano I.

Ad un risultato ancora più deludente, fatte evidentemente le debite proporzioni, porta l’analisi dell’attività conciliare delle chiese particolari, condotta sulla base dei Concili provinciali che, tra le diverse forme dei Concili particolari, è l’istituto rimasto non solo più costante nell’attività, ma anche sostanzialmente identico dal profilo formale dalla sua nascita, nel III e IV secolo, fino ad oggi[8].

La frequenza dei Concili provinciali (o minori in genere), anche se relativamente intensa tra il Concilio di Nicea I e II (325-787), fu comunque molto minore rispetto alla coscienza sinodale della Chiesa dell’epoca, espressasi nel can. 5 del Concilio di Nicea I, che prescrisse la convocazione di due Concili provinciali all’anno. Evidentemente nella valutazione reale della prassi conciliare di questo periodo bisogna tener conto, sia del fatto che la produzione legislativa, essendo prevalentemente di origine conciliare (cioè non decretalistica, come nel periodo seguente), avrebbe dovuto stimolare in modo ottimale la frequenza dei Concili; sia del fatto che la legislazione non avendo ancora la pretesa di regolare nel dettaglio la vita della Chiesa, come invece nel secondo millennio, rendeva la convocazione dei Concili meno urgente e indispensabile.

Di fatto l’attività conciliare provinciale si è spenta quasi completamente, assieme a quella ecumenica, nei secoli a cavallo del millennio. Il suo rilancio avvenne su basi più realistiche ad opera del Lateranense IV (1215), con la prescrizione del can. 6 di convocare il Concilio provinciale almeno una volta all’anno. Tuttavia, anche in questo periodo – che va dalla riforma gregoriana all’esilio di Avignone (1305) e che molto probabilmente segnò, malgrado il forte processo di centralizzazione papale, l’epoca d’oro di tutta l’attività conciliare della storia della Chiesa in Occidente -, se si tiene conto del numero delle province esistenti, la frequenza concreta non ha superato l’indice del 5% rispetto alle esigenze legislative.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la frequenza conciliare provinciale nei secoli del conciliarismo, segnati da una coscienza ecclesiologica più corporativistica che autenticamente sinodale, fu minima[9].

Dal Tridentino al Vaticano I, l’attività conciliare provinciale ha subito una gravissima flessione. Infatti, se si prescinde da qualche sussulto, registratosi nel primo mezzo secolo dopo il Tridentino – in funzione prevalentemente applicativa delle riforme del Concilio – e dopo la Rivoluzione liberale del 1848, soprattutto nelle Chiese non europee (come negli USA e nelle terre di missione), tra il 1600 e il 1850 corrono due secoli e mezzo di paralisi totale. La flessione è tanto più grave dal momento che, dopo aver constatato la minore sensibilità sinodale della Chiesa in questo periodo, la legislazione canonica aveva già ridotto sostanzialmente la richiesta circa la frequenza dei Concili provinciali. Infatti, già con il Concilio di Costanza domanda la celebrazione di un solo Concilio ogni tre anni, mentre il CIC del 1917 (can. 283) prescrive un solo Concilio ogni vent’anni.

Tenendo come punto di riferimento le prescrizioni legislative e il numero delle province ecclesiastiche (quasi quadruplicato dal Tridentino in poi, soprattutto nel secolo scorso, e durante il pontificato di Pio XII), si deve prendere atto che l’attività conciliare provinciale non ha superato l’indice del 2,5-3% rispetto alle esigenze della legislazione. Ciò significa che lungo tutto questo periodo, invece di un Concilio provinciale ogni tre anni, nelle singole province, fu celebrato nell’intera Chiesa latina un unico Concilio provinciale all’anno.

Anche da quest’analisi storica si deve concludere, almeno «post factum», che la sinodalità non può coincidere con l’attività conciliare, pena dover riconoscere che la Chiesa ha perso di fatto la coscienza della propria struttura sinodale durante i lunghissimi periodi della sua storia.

 

2. La dimensione sinodale del ministero episcopale

1. La dinamica della immanenza reciproca degli elementi costitutivi come nucleo essenziale della communio

 

Nella sinodalità, in quanto elemento intrinseco alla natura del ministero episcopale e modalità specifica del suo esercizio, affiora il principio ecclesiologico della «communio», che investe tutta la realtà mistico-istituzionale della Chiesa, secondo una struttura particolare.

Il criterio della «communio», infatti, determina prima di tutto il rapporto del fedele con Dio e gli altri fedeli («communio cum Deo et hominibus»), conferendo al fedele una nuova dimensione ontologica.

Esso assume un’ulteriore valenza nel rapporto gerarchico particolare esistente tra i vescovi e il Papa (oltre che tra i presbiteri e il vescovo), con la conseguenza che i vescovi (e presbiteri) sono legittimati ad esercitare il loro ministero, «ad validitatem» o «ad liceitatem», solo nella misura in cui accettano la «communio hierarchica» con il Papa (o con il vescovo).

Il principio della «communio» regola infine sia il rapporto costituzionale esistente tra la Chiesa universale e la chiesa particolare, sia, ecumenicamente, il rapporto delle chiese separate o comunità ecclesiali con la Chiesa di Cristo, che è la sola ad essere una, santa, cattolica ed apostolica, e che sussiste nella Chiesa cattolica romana.

Quest’ultimo livello eminentemente strutturale della «communio» è stato per la prima volta definito nella sua compiutezza dalla LG 23, 1, con la formula secondo cui la Chiesa universale si realizza nelle e dalle chiese particolari («in quibus et ex quibus una et unica ecclesia catholica exsistit»)[10]. La Chiesa universale, pur avendo nel collegio dei vescovi e nel Papa la propria espressione ministeriale (che comunque ha le sue radici nella chiesa particolare, poiché non solo i vescovi ma anche il Papa hanno il loro «locus theologicus» nella chiesa particolare), non esiste come realtà autonoma, ma solo in quanto si realizza concretamente e storicamente nelle chiese particolari ed emerge da esse come risultanza globale.

La Chiesa universale, che si realizza in ogni singola chiesa particolare, rende presenti in essa tutte le chiese particolari da cui è costituita[11]. L’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica romana in forza del fatto che in essa, per definizione, se non sempre storicamente, l’immanenza tra l’universale e il particolare è così perfetta da realizzare la pienezza della comunione.

La «communio» è «plena» solo nella misura in cui la Chiesa universale si realizza non come un’idea astratta, secondo la propensione del modello ortodosso di estrazione platonica («universalia ante res»), ma come una realtà storicamente esistente di fatto e composta concretamente da tutte le chiese particolari («universalia in rebus»). Essa è «plena», inoltre, solo nella misura in cui la chiesa particolare esiste, non tanto come una realtà autonoma, che secondo la propensione del modello protestante può aggregarsi nominalisticamente («universalia post res») con le altre chiese particolari su una base federativa, bensì come realtà in cui la totalità di tutte le chiese particolari è presente grazie alla mediazione della Chiesa universale, che si realizza in essa.

Il principio della immanenza reciproca degli elementi costitutivi della struttura costituzionale della Chiesa, che emerge in modo paradigmatico nella immanenza dell’universale nel particolare e del particolare nell’universale, forma l’essenza stessa della nozione di «communio». La LG 23, 1 ha colto con sorprendente lucidità questa dinamica a livello del rapporto tra la Chiesa universale e particolare. Si tratta di una dinamica che si ripete a tutti i livelli della struttura ecclesiale, oltre a quello della «communio ecclesiarum», cioè a livello della «communio hierarchica» o «ministeriorum», dove il Papa esprime tutto il collegio e il collegio comprende il Papa, e a quello della «communio fidelium», vale a dire a livello dell’antropologia cristiana[12].

Il fedele, infatti, è la persona la cui identità è determinata dalla sua appartenenza al popolo di Dio, il Corpo mistico della Chiesa, e di conseguenza dal fatto che tutti gli altri fedeli, attraverso la mediazione di questa appartenenza al Corpo mistico, sono realmente immanenti alla sua persona. Non sarebbe esatto perciò concepire il fedele come entità individuale, contrapposta a quella collettiva, così come avviene invece a livello naturale della società umana, dove il rapporto tendenzialmente antinomico in forza del peccato originale dell’individuo con la collettività è ultimamente superabile solo estrinsecamente attraverso un ordinamento giuridico che limiti, non solo di fatto, ma strutturalmente, la libertà di ogni persona.

 

2. L’immanenza reciproca tra la dimensione personale e sinodale del ministero episcopale

Anche la dimensione sinodale, connaturale al ministero episcopale, è determinata dal principio della «communio». In effetti la sinodalità non si contrappone alla dimensione personale, da cui è formalmente distinta, ma è immanente alla stessa, perché ogni vescovo è ontologicamente determinato dal fatto che anche gli altri vescovi posseggono lo stesso ed unico sacramento dell’ordine. L’unicità del sacramento nella pluralità delle sue realizzazioni personali è il fondamento della struttura non solo personale, ma anche sinodale del ministero.

Ne consegue che la sinodalità non tende a restringere l’esercizio personale del ministero episcopale, ma a conferirgli un’estensione più vasta, perché sviluppa la relazione ontologica con gli altri ministeri, che già possiede, allargandola oltre i limiti istituzionali, giurisdizionali o territoriali, in cui il vescovo è individualmente inserito.

Analogamente a quanto affermato circa la dimensione antropologica soprannaturale del fedele, sarebbe scorretto affrontare il problema della sinodalità, quale dimensione del ministero episcopale, a partire da modelli istituzionali naturali secolari. L’operazione sfocerebbe inevitabilmente nell’insanabile antinomia esistente tra il principio individuale e quello collettivo soggiacente ad ogni istituto collegiale umano e civile. Il discorso, per essere rigorosamente teologico, deve perciò evitare di prendere lo spunto sia dallo scetticismo con il quale la coscienza democratica moderna giudica l’esercizio monocratico del potere, sia dall’ottimismo con il quale le scienze sociologiche, oppure il modello tecnocratico, postulano la gestione di gruppo o la coordinazione o divisione del potere, come unica forma di governo possibile in una società dai nessi sociali, economici e politici sempre più complessi[13].

Il ministero o ufficio episcopale non trova infatti nessun riscontro nei sistemi politici monocratici o democratici le cui costituzioni, anche quando si richiamassero al diritto naturale, sono fondate sulla delega del potere e non sull’istituto dell’ufficio. Nella costituzione ecclesiale, per contro, il ministero o ufficio episcopale, da una parte sfugge alla disposizione della Chiesa, dall’altra si definisce per il fatto che la «potestas sacra» di cui è investito il titolare non è delegata. Essa è affidata ai vescovi non dalla Chiesa, ma da Cristo, sia pure attraverso la mediazione sacramentale.

Nel ministero episcopale possono essere isolate, dal profilo sistematico, due dimensioni: quella personale e quella sinodale, formalmente diverse, ma non adeguatamente distinte, poiché nella dimensione personale è insita quella sinodale e in quella sinodale rimane presente ed operante quella personale questa struttura complessa di immanenza reciproca deriva dal fatto che la dimensione sinodale, già presente in quella personale, si sviluppa ed esplicita non a partire da elementi estrinseci o casuali, ma da elementi ecclesiologici necessari, insiti alla natura del ministero episcopale.

Nella società civile, la pluralità degli uffici, su cui è fondato il principio della divisione e collaborazione dei poteri, non è di per se stessa necessaria, dal momento che la scelta tra un regime monocratico e uno democratico non si impone per necessità di diritto naturale. Nella costituzione ecclesiale, per contro, la pluralità degli uffici è ontologicamente necessaria. Non è il fatto materiale della pluralità dei vescovi in quanto tale, ma il fatto che essa è un elemento irrinunciabilmente necessario della costituzione della Chiesa che genera nel ministero episcopale una duplice dimensione. Non è infatti possibile spiegare la struttura pluralistica della Chiesa in forza di considerazioni filosofiche o storiche, e tanto meno solo pratiche. L’unità e la pluralità della Chiesa è conoscibile solo per fede e può essere resa teologicamente plausibile come riflesso storico-istituzionale dell’unità e pluralità del mistero trinitario[14].

 

3. La radice sacramentale di questa immanenza reciproca

L’origine sacramentale della dimensione personale del ministero episcopale conferisce al vescovo una capacità di rappresentazione radicalmente diversa dalla rappresentazione propria all’istituto giuridico pubblico o civile, e ciò per due ragioni diverse. Da una parte perché la rappresentazione sacramentale stabilisce una relazione di adeguazione non totale, ma parziale, tra il ministro e Cristo che agisce ex opere operato nel sacramento; dall’altra perché, a differenza di quella giuridica secolare, la rappresentazione sacramentale non è realizzabile dalla persona morale o giuridica, ma solo dalla persona fisica.

Per questa ragione, per esempio, la teologia non ha mai affermato che il collegio dei vescovi, o il Concilio ecumenico, rappresentano Cristo, quantunque detengano il supremo e pieno potere nella Chiesa universale. Solo il vescovo rappresenta sacramentalmente, e perciò personalmente, Cristo in quanto capo invisibile della Chiesa. Ne è prova il fatto che la concelebrazione eucaristica non è un atto del collegio in quanto tale, ma solo un atto collettivo in cui l’unica consacrazione delle specie è causata individualmente dal singolo ministro.

Il collegio dei vescovi, invece, rappresenta la Chiesa, ma a differenza del vescovo, nei confronti di Cristo, secondo un rapporto di relazione non parziale, ma totale.

La dimensione sinodale del ministero ecclesiale è fondata su un fenomeno di rappresentazione di natura ecclesiologica, che presuppone comunque, però, il sacramento dell’ordine. È in forza del sacramento dell’ordine che il vescovo rappresenta la propria chiesa particolare in seno a quella universale e quest’ultima in seno a quella particolare. In questo senso anche la rappresentazione ecclesiologica ha una radice sacramentale. Ciò spiega ulteriormente perché la distinzione tra dimensione personale e sinodale non è adeguata. Tuttavia l’elemento che genera la rappresentazione ecclesiologica è primariamente la struttura pluralistica necessaria della Chiesa, cioè il fatto che la Chiesa, costituzionalmente, non è una realtà monistica ma pluralistica; è una «communio ecclesiarum».

Questa pluralità non dipende, come si è visto, dal fatto materiale che nella Chiesa esiste storicamente una pluralità di vescovi e di chiese particolari, ma dal fatto che la Chiesa di Cristo, nella sua dimensione universale, si realizza necessariamente nelle e dalle chiese particolari. La base specifica della sinodalità rispetto alla dimensione personale del ministero episcopale è l’esistenza della «communio ecclesiarum», in quanto realtà ecclesiologicamente necessaria.

La dimensione pluralistica, a sua volta, non viene aggiunta additivamente alla chiesa particolare, ma è già presente in essa; ciò in forza di due fatti distinti, ma connessi tra di loro. Prima di tutto perché nella chiesa particolare sono già presenti tutte le altre chiese particolari, attraverso la mediazione della Chiesa universale (formata da tutte le chiese), che in essa si realizza. Ne consegue che a livello del rapporto Chiesa universale-particolare, la distinzione tra l’unità (chiesa particolare) e la pluralità (Chiesa universale), il cui corrispettivo è la distinzione tra l’elemento personale e sinodale del ministero episcopale, non è adeguata.

In secondo luogo perché la chiesa particolare ha già in se stessa una sua componente sinodale. Infatti, non è costituita solo dal vescovo, anche se è il principio e il fondamento della sua unità (LG 23,1), bensì dal vescovo con il suo presbiterio (oltre che dalla porzione di popolo di Dio che le è propria; can. 369). Il ministero episcopale è già costituito sinodalmente anche dal profilo della sua dimensione personale, perché non esiste senza i presbiteri. L’esistenza dei presbiteri attorno al vescovo non deriva da semplici motivi di ordine funzionale, quasi che il vescovo da solo non fosse in grado di esercitare tutti i compiti attinenti al suo ufficio, ma da motivi ecclesiologici. Una struttura monistica della chiesa particolare, cioè una struttura formata dal solo vescovo senza il presbiterio, non sarebbe in grado di realizzare in se stessa la struttura sinodale della Chiesa universale. Solo perché esiste nella chiesa particolare la struttura sinodale del presbiterio, di cui è capo il vescovo, è possibile la realizzazione in essa della Chiesa universale. Evidentemente la struttura sinodale della chiesa particolare è solo analogica rispetto a quella della Chiesa universale, poiché il rapporto vescovo-presbiteri è diverso da quello tra Papa e vescovi; se così non fosse il processo andrebbe all’infinito.

 

4. Le due modalità diverse di realizzazione della apostolicità

La differenziazione tra l’elemento personale e sinodale del ministero episcopale si realizza secondo le due modalità diverse con le quali avviene la successione apostolica, cioè attraverso la diversa struttura logica di trasmissione e di comunicazione proprie del Sacramento e della Parola.

Dal profilo formale l’apostolicità si realizza, nella linea della successione personale attraverso il Sacramento; nella linea sinodale attraverso la Parola, la cui forza vincolante si declina istituzionalmente come «iuris dictio», o giurisdizione.

La logica strutturale di comunicazione del segno sacramentale è diversa da quella del linguaggio parlato. Tuttavia la distinzione esistente non è adeguata, sia perché tutte e due hanno carattere simbolico, sia perché sono immanenti l’una all’altra. Infatti il Sacramento comprende sempre la Parola e la Parola ha un suo effetto sacramentale. Il Sacramento concretizza l’efficacia della Parola e la Parola tende irrinunciabilmente verso la realizzazione del segno sacramentale, conferendogli il significato salvifico[15]. Parola e Sacramento sono i due elementi formalmente diversi, ma inadeguatamente distinti, grazie ai quali, con dinamica strutturale diversa e in un rapporto di reciproca dipendenza, viene comunicata e trasmessa la salvezza.

Nel regime ordinario della salvezza, cioè nell’economia ecclesiale, il Sacramento, che comprende sempre anche la Parola, è indispensabile perché possa costituirsi la Chiesa. La Parola, da sola, per contro, non è sufficiente. Ciò spiega perché il Vaticano II ha riconosciuto la qualifica di “ecclesiale” solo a quelle comunità cristiane che conservano almeno il sacramento del battesimo. Al di là del battesimo esiste solo un regime di religione cristiana, nella misura in cui si ispira al messaggio di Cristo, privo però del valore salvifico proprio all’ecclesialità.

Il fatto che il Sacramento comprende anche la Parola – da cui il segno simbolico viene qualificato come segno salvifico – spiega perché «la sacra potestas», cioè la legittimazione a celebrare i sacramenti e a predicare la Parola con autorità – fino a declinarne norme di comportamento disciplinare giuridicamente vincolanti -, viene trasmessa nella sua totalità attraverso il sacramento dell’ordine. Quando non si tratta di trasmettere la «sacra potestas» in vista di garantire la continuazione della successione apostolica, ma di esercitarla nella vita quotidiana della Chiesa, essa opera secondo le logiche strutturali di comunicazione proprie del segno sacramentale e della Parola, che, nel linguaggio giuridico della seconda metà del XII secolo, hanno preso la denominazione di potere di ordine e potere di giurisdizione[16].

Ordine e giurisdizione non sono due parti distinte, con contenuti diversi, della «sacra potestas», ma solamente due funzioni formalmente diverse della stessa potestas che opera sempre nella sua totalità, sia nell’ordine che nella giurisdizione[17].

Poiché il segno simbolico attraverso il quale essa si esprime è sempre uguale e mantiene universalmente lo stesso significato, la «sacra potestas», operante nel sacramento dell’ordine, è formalmente e materialmente uguale per tutti i vescovi. Quando essa opera, invece, secondo la logica strutturale della Parola, può assumere un valore formale diverso, pur rimanendo ovunque identica nel suo contenuto.

Contrariamente al segno sacramentale, la Parola è strutturalmente connessa alla capacità dell’uomo di esprimersi attraverso lo strumento logico-formale del giudizio. Esso può essere enunciato non solo individualmente da una singola persona fisica, ma anche in comune da una pluralità di persone, che sono in grado di conferirle così un’autorità formalmente vincolante più universale.

A differenza del segno simbolico sacramentale, il giudizio può essere integrato nella dinamica specifica degli atti paralleli e degli atti collegiali veri e propri, trasformandosi in decisione dottrinale o disciplinare di tutto il collegio dei vescovi.

La Parola, che, dal profilo del suo contenuto materiale, può essere identica quando è pronunciata da un solo vescovo e da tutto il collegio episcopale, può assumere invece gradi diversi di universalità e perciò di autorità formale. Ciò spiega perché la responsabilità globale dell’annuncio della Parola appartiene «in solidum» a tutto il collegio dei vescovi, in cui si realizza l’espressione suprema ed universale della sinodalità.

Mentre il Sacramento conferisce al vescovo tutto il potere di ordine, cioè la possibilità dì rendere sempre ed ovunque operativa tutta la «sacra potestas» secondo la logica strutturale del segno simbolico, la «missio canonica» determina l’ambito territoriale o personale, all’interno della «communio hierarchica», entro il quale il singolo vescovo può usare autoritativamente la sacra potestas secondo la logica di comunicazione della Parola.

Il singolo vescovo, che può consacrare sempre validamente in tutta la Chiesa universale, può predicare autoritativamente il contenuto della Parola e derivarne un ordine disciplinare giuridicamente vincolante solo per la propria chiesa particolare.

Tuttavia, pur non godendo di un vero e proprio potere di giurisdizione in tutta la Chiesa universale, ogni vescovo è investito di una responsabilità e di una sollecitudine nei confronti di essa (LG 23, 2). Questa responsabilità è insita al ministero episcopale, sia perché Sacramento e Parola, nel loro contenuto, sono comuni e uguali per tutti i vescovi, sia perché la chiesa particolare è parte costitutiva della Chiesa universale[18]. Esercitando la «sacra potestas» nella sua chiesa particolare, secondo la modalità personale del ministero, il vescovo costruisce anche la Chiesa universale ed assume di conseguenza una responsabilità che già di per se stessa ha una dimensione sinodale.

Per poter invece esercitare «in solidum» la «sacra potestas», in quanto esprimibile nella Parola, con forza giuridicamente vincolante per tutta la Chiesa universale, il vescovo deve inserirsi nelle strutture (sinodali) previste dalla Chiesa universale, accettando le norme giuridiche dettate dalla «communio hierarchica».

La successione apostolica nella linea della Parola si realizza pienamente solo come successione “solidale” di tutti i vescovi, «per modum non aequalitatis sed proportionalitatis» (Nexp. 1), in ordine alla formulazione del giudizio sulla verità della fede e sulla autenticità della disciplina ecclesiale. Ciò significa che in forza della «sacra potestas», esercitata secondo la modalità della Parola o giurisdizione, il collegio dei vescovi ha anche l’autorità di formulare il giudizio ultimo sulla autenticità del Sacramento e perciò sulla liceità o validità del loro uso.

L’affermazione dogmatica secondo cui il collegio dei vescovi e il Papa personalmente possono esercitare nella Chiesa universale la piena e suprema «potestas» ha, in rapporto al potere di ordine e di giurisdizione, un significato diverso per il collegio e per il Papa.

Per il collegio l’affermazione ha un valore solo disgiuntivo, poiché esso esercita la «sacra potestas», secondo la modalità del segno sacramentale, unicamente attraverso i singoli vescovi. Il collegio in quanto tale non può esercitare il potere di ordine con atto collegiale vero e proprio e neppure con atto parallelo. In questo senso la «sacra potestas» del collegio è piena e suprema solo materialmente, non essendo diversa nel contenuto da quella di ogni membro del collegio. Non è piena e suprema in senso formale, poiché il potere di ordine di ogni singolo vescovo, in se stesso universale, non acquista una efficacia superiore per il fatto di essere esercitata da tutti i vescovi.

Per il Papa invece, la stessa affermazione non ha un valore disgiuntivo, poiché possiede tutto il potere di ordine e tutto il potere di giurisdizione sia dal profilo materiale che formale. Il vescovo di Roma, è l’unico vescovo abilitato ad esercitare la «sacra potestas», secondo la modalità espressiva della Parola, con tutta la estendibilità di giudizio e con tutta la forza vincolante formale insita alla stessa.

La giustificazione teologica di questo fatto è uno dei punti nodali di tutta la ecclesiologia. Se è facile fondare la struttura gerarchica della chiesa particolare prendendo come modello la struttura gerarchica dell’Eucaristia, è per contro difficile risalire dall’Eucaristia alla struttura gerarchica della Chiesa universale, poiché l’Eucaristia si realizza in modo sempre uguale in tutte le chiese particolari, compresa la chiesa di Roma.

La soluzione volontaristica, che permette di giustificare l’esistenza del primato di Pietro, facendo direttamente ricorso alla volontà di Cristo certificata dal NT, offre la garanzia dogmatica del fatto in se stesso, ma non dà le ragioni per cui Cristo lo ha posto. Anche l’eventuale ricorso, per rendere plausibile la struttura gerarchica della Chiesa universale, al modello trinitario offre, come per l’unità e la pluralità della Chiesa, solo uno spunto analogico.

La difficoltà di dare una giustificazione sistematica, intrinseca al «nexus mysteriorum», spiega perché la teologia ortodossa possa essere sfociata in una soluzione ecclesiologica acefala e sinodalmente paritetica e possa affermare che la subordinazione gerarchica di un vescovo all’altro ha carattere solo storico e umano[19].

 

3. Le principali forme istituzionale della sinodalità

 1. Dal Concilio ecumenico alle conferenze dei vescovi 

Il principio della «communio hierarchica», che determina la struttura del collegio dei vescovi e quella della «communio ecclesiarum», si traduce storicamente secondo forme istituzionali sinodali diverse.

Come la comunione delle chiese particolari, tra di loro, è derivata dal rapporto costitutivo di comunione che ciascuna di esse gode con la chiesa di Roma, così il rapporto di comunione dei vescovi, tra di loro, è derivato dal rapporto costitutivo di comunione che ogni singolo vescovo intrattiene con il Papa in quanto capo del collegio.

Ciò significa che, nell’esercizio concreto della «sacra potestas», secondo l’espressione formale della Parola, la sinodalità insita nel mistero episcopale può esprimersi solo nella misura in cui comprende, direttamente o indirettamente, anche il capo del collegio dei vescovi.

Dalla funzione diretta o indiretta riconosciuta al Papa, in quanto capo del collegio, dipende la valenza universale o meno universale della forza vincolante della decisione dottrinale o disciplinare.

D’altra parte, all’interno della funzione diretta riconosciuta al capo del collegio, l’esercizio della sinodalità può assumere una duplice forma: quella in cui il Papa è elemento costitutivo per l’esercizio della sinodalità del collegio in quanto tale e quella in cui il Papa esplicita la sinodalità inerente al suo ministero personale, non con tutto il collegio, ma solo con l’aiuto di alcuni vescovi convocati al sinodo dei vescovi. Sia nel primo che nel secondo caso la forza vincolante dell’esercizio della sinodalità è universale. La differenza, tuttavia, sta nel fatto che mentre nel primo caso il soggetto operante è tutto il collegio in quanto tale, nel secondo caso, cioè nel sinodo, il soggetto operante è il capo del collegio; il collegio è attivo solo indirettamente, attraverso il suo capo e una parte dei vescovi che lo rappresentano secondo un rapporto ecclesiologico di relazione non totale e perciò su una base fortemente sociologica.

a) La prima struttura giuridica in cui si declina istituzionalmente la sinodalità del collegio dei vescovi è quella nella quale il capo dello stesso è anche membro del corpo votante. Coincide di fatto con la struttura giuridica del Concilio ecumenico, o del Concilio per “lettera”, anche se in quest’ultima espressione la sinodalità è ridotta alla sua dimensione solo formale, priva dei contenuti emergenti dalla discussione. Il Concilio è la struttura che istituzionalizza nel modo più completo la dimensione sinodale del collegio dei vescovi.

Tutti i vescovi godono del voto deliberativo. Tuttavia il Papa, che può presiedere «iure proprio», non vota formalmente ma approva i decreti. Questa soluzione giuridica connota, sia il fatto che, essendo il “voto” del Papa costitutivo dell’atto collegiale, quest’ultimo non è determinato dalla maggioranza dei vescovi, ma dalla loro convergenza di giudizio con il capo del collegio, sia il fatto che senza il capo il Concilio non rappresenta il collegio dei vescovi. In caso di vacanza della sede di Roma, infatti, il Concilio è sospeso (can. 340)[20].

b) La seconda struttura giuridica è quella in cui il capo del collegio dei vescovi non è membro del corpo votante. Il voto dei vescovi è consultivo, poiché il collegio non si esprime formalmente in quanto tale, ma solo attraverso il Papa. La separazione del capo dal collegio votante (come nel sinodo dei vescovi e nel concistoro) imprime all’esercizio della sinodalità connotazione corporativistica. I vescovi rappresentano se stessi e non tutta la Chiesa se non secondo una dimensione fortemente sociologica[21].

Una prima variante di questo modello è quella del concistoro, quando è convocato non per consigliare il Papa, ma per celebrare un avvenimento o eventualmente per prendere atto di una decisione papale, (can. 353 § 2 in fine)[22]. La sinodalità, più che nell’esercizio della «sacra potestas» secondo la modalità della Parola, si esprime su base sacramentale.

Una seconda variante è quella del concistoro convocato per l’elezione del Papa. Non esistendo il capo del collegio non si può a rigore parlare di sinodalità (se questa è l’espressione della «communio hierarchica») ma solo di una struttura corporativa a scopo limitato, che tuttavia ha come fondamento il rapporto “orizzontale” di comunione esistente tra i vescovi-cardinali. Nella misura in cui essi rispettano la procedura di elezione fissata nel diritto papale, operano in una posizione di virtuale comunione gerarchica e di conseguenza di comunione con la Chiesa universale. Si tratta in effetti di una struttura originariamente propria della chiesa di Roma, che ha progressivamente assunto carattere universale.

c) La terza struttura giuridica è quella in cui il capo del collegio dei vescovi non fa parte del corpo votante. Ciò avviene nei Concili particolari e nelle conferenze dei vescovi, dove i vescovi si esprimono con voto deliberativo grazie alla «potestas propria», inerente al loro ufficio, e non sulla base di una «potestas delegata», come avviene invece al sinodo dei vescovi per i casi in cui il Papa concede al sinodo un potere deliberativo (can. 343)[23].

La «recognitio» dei decreti (cann. 446 e 456) da parte del capo del collegio dei vescovi ha significato diverso rispetto alla «confirmatio» (can. 341 § 1) dei decreti del Concilio ecumenico, poiché non incide sulla natura della decisione e di conseguenza non conferisce loro valore universale. Malgrado il controllo papale la decisione rimane espressione della sinodalità episcopale. Non comprendendo intrinsecamente una partecipazione decisionale del Papa, possiede carattere solo particolare.

Una prima variante puramente formale è quella in cui il Papa assiste personalmente ai lavori di un Concilio particolare.

Una seconda variante è quella in cui il Papa, non in quanto capo del collegio dei vescovi, ma solo in quanto metropolita o patriarca d’Occidente, celebra un Concilio particolare. I decreti di quest’ultimo acquisterebbero validità universale solo in forza di un eventuale fenomeno di recezione, o in forza di un atto primaziale.

Nel giudicare il valore sinodale di tutte queste strutture giuridiche non bisogna tener conto solo della loro valenza espressiva universale o particolare, ma anche della funzione ecclesiologica che assume in esse il voto deliberativo o consultivo.

 

2. La funzione del voto deliberativo e consultivo nell’esercizio della sinodalità

Gli istituti giuridici del voto deliberativo e consultivo svolgono nell’ordinamento della Chiesa una funzione diversa – almeno in linea di principio se non sempre nella prassi – rispetto a quella propria della teoria generale del diritto[24].

Valutati secondo la logica dei sistemi costituzionali statuali, dove il problema centrale è quello della ripartizione del potere, il voto deliberativo e quello consultivo possono facilmente essere equivocati nel loro significato.

Evidentemente, anche se il problema costituzionale non si pone nella Chiesa in termine di divisione del potere, essendo la «sacra potestas» indivisibile, è possibile fissare, estendere o restringere le competenze del ministero episcopale (e degli altri ministeri o uffici) – così come si è del resto ampiamente verificato nel corso della storia – facendo ricorso, tra l’altro, anche agli istituti del voto deliberativo e consultivo. Tuttavia il nocciolo della questione rimane diverso rispetto a quello statuale: da una parte perché il ministero episcopale ha un aspetto irrinunciabile dal profilo delle competenze, dall’altra perché, almeno secondo la coscienza ecclesiologica cui è pervenuta la Chiesa moderna, nessun fedele per principio dovrebbe essere escluso da una corresponsabilità globale nella costruzione della Chiesa e, di conseguenza, dalla dinamica di preparazione delle decisioni, anche quando esse spettano in ultima istanza ai vescovi.

La posizione dei vescovi al Concilio ecumenico si esprime giuridicamente attraverso il voto deliberativo. La votazione in se stessa però, più che a decidere, serve a constatare quali vescovi e quali chiese particolari da loro rappresentate hanno raggiunto un giudizio di comunione sulla fede e sulla disciplina. Più che di un fatto discrezionale di potere, si tratta, almeno a livello delle questioni fondamentali, di un atto di constatazione. Il giudizio comune del Concilio, del resto, non risulta di per sé dal giudizio della maggioranza, come in un parlamento, ma dalla convergenza dei vescovi con il Papa. Trattandosi di un fatto sinodale e non di un atto parlamentare di maggioranza, la tendenza connaturale alla decisione è quella di raggiungere l’unanimità almeno morale.

Il voto deliberativo dei vescovi al Concilio non è deliberativo secondo l’accezione propria alla teoria generale del diritto, perché la sua forza vincolante formale non deriva, in quanto tale, dalla discrezionalità propria alla volontà umana. È deliberativo nel senso che la testimonianza dei vescovi circa la loro fede e la fede delle loro chiese particolari è inappellabile. In effetti la fede non è un fatto che può essere definito volontaristicamente e neppure un fatto che può essere testimoniato per rappresentazione. Questo spiega, per es., perché il rappresentate di un vescovo al Concilio non gode voto deliberativo, ma tutt’al più solo consultivo[25]. Nessuno può infatti farsi rappresentare nella fede, essendo la salvezza un fatto eminentemente personale.

Il carattere deliberativo del voto del vescovo coincide perciò con la irrinunciabilità della sua testimonianza personale di fede. Ciò non esclude evidentemente il fatto che al Concilio, come in tutti gli altri settori della vita della Chiesa, si possa operare secondo una logica più vicina a quella della ripartizione del potere, che a quella inerente alla natura della sinodalità, e il pericolo è tanto più grande quanto più difficile è stabilire il nesso dei problemi concreti con il Sacramento e la Parola.

Con il voto consultivo l’ordinamento giuridico della Chiesa esprime invece, per principio, sia pure con approssimazione ed efficacia diversa, la posizione di tutti gli altri fedeli (laici e chierici) chiamati strutturalmente a contribuire alla formulazione del giudizio di fede di coloro che hanno la responsabilità di esprimerlo come giudizio comune, vincolante per tutti.

La differenza con l’istituto della teoria generale del diritto è data dal fatto che nella Chiesa il voto consultivo non dovrebbe tradurre (e di per sé non traduce) istituzionalmente una limitazione di potere, decisa da chi possiede il voto deliberativo, bensì una necessità inerente alla dinamica della comunione. Ciò dipende dal fatto che la chiesa particolare (per fare un solo esempio) non è costituita solo dal vescovo con il presbiterio, ma anche da una porzione di popolo di Dio.

Bisogna allora tener conto del fatto che il sacerdozio comune di tutti i fedeli è primario rispetto a quello ministeriale, nel senso che quest’ultimo esiste solo in funzione del primo, di cui perciò deve tener conto nella formazione del proprio giudizio, secondo modalità consultative che possono storicamente cambiare[26].

Il rapporto di immanenza alla porzione di popolo di Dio, di cui è formata la chiesa particolare, è perciò costitutivo per il processo dal quale deve nascere il giudizio dottrinale e disciplinare del vescovo. In esso devono confluire il sensus fidei e i carismi di tutti i fedeli, il cui giudizio, se non è misurabile con i criteri matematici della maggioranza numerica, non si costituisce neppure in quanto giudizio comune valido per tutti, finché il vescovo non pronuncia la sua testimonianza e la sua parola.

Questo rapporto strutturale di immanenza del vescovo alla sua chiesa particolare può essere espresso istituzionalmente con l’istituto del voto consultivo, ma non coincide con esso, non solo perché esistono teoricamente e praticamente altre possibilità per manifestarlo, ma soprattutto perché non rappresenta un compromesso tra una prassi autoritaria ed una democratica, come avviene negli ordinamenti giuridici statuali.

Pur assumendo significati diversi (anche se rimane identico dal profilo formale), a seconda che sia esercitato dai presbiteri nei confronti del vescovo o dai laici nei confronti dei presbiteri e del vescovo, il voto consultivo assume una forza vincolante che gli deriva dalla natura intrinseca della comunione, determinata dal principio della immanenza reciproca degli elementi.

In quanto espressione giuridica possibile di una dinamica insita alla natura costituzionale della Chiesa, il voto consultivo acquista una valenza non molto dissimile da quella del voto deliberativo, sia perché esprime istituzionalmente un rapporto di reciprocità necessaria, sia perché non esprime una posizione giuridica di potere, ma una testimonianza di fede, la cui forza vincolante non può essere misurata e delimitata adeguatamente in termini giuridici. Infatti, la verità della fede può emergere con evidenza intrinsecamente vincolante anche dalla testimonianza di un semplice fedele, di cui i pastori devono tener conto, a meno di mancare in modo grave alla loro funzione ministeriale[27].

A livello della Chiesa universale il voto consultivo può essere applicato per esprimere il rapporto di sinodalità inerente al ministero primaziale del Papa nei confronti degli altri vescovi. Come soggetto personale attraverso cui diventa operativo il collegio dei vescovi, il Papa, pur rimanendo unico responsabile del suo atto, è determinato dal rapporto sinodale che lo lega agli altri vescovi, sia in forza del fatto che è investito dello stesso Sacramento e della stessa Parola, sia in forza del fatto che la chiesa di Roma, di cui egli è vescovo appartiene in modo costitutivo alla «communio ecclesiarum».

Questo rapporto di dipendenza ontologica può essere esplicitato giuridicamente attraverso il voto consultivo riconosciuto ad una parte dei vescovi del collegio. Si trasformerebbe però necessariamente in voto deliberativo nel caso che tutti i vescovi fossero interrogati, poiché in questo caso i vescovi, con il Papa, rappresenterebbero il collegio con un rapporto di relazione totale e il soggetto operante diventerebbe sinodalmente il collegio in quanto tale.

Mentre il rapporto collegio-Papa si esprime dal profilo dell’atto collegiale attraverso il voto deliberativo, il rapporto Papa-collegio può essere espresso attraverso il voto consultivo di una parte dei vescovi. Il carattere consultivo del voto del sinodo dei vescovi non dipende dal fatto che non sarebbe un atto collegiale nel senso tecnico-giuridico. Infatti, anche il voto consultivo, in quanto voto del sinodo e non solo di una maggioranza, è un atto tecnicamente collegiale. Il carattere consultivo dipende invece dal fatto che non rappresentando ecclesiologicamente con relazione di totalità il collegio (pur operando sulla base della «potestas propria», dal momento che i vescovi per loro natura devono essere di aiuto al Papa), non esprimono la testimonianza di tutti gli altri vescovi.

Ne consegue che il voto consultivo, pur essendo una chiara (anche se non rigorosamente necessaria) espressione della sinodalità, è, in quanto tale, riformabile dal voto deliberativo di un Concilio ecumenico, a meno che esso, evidentemente, sia già stato assunto come atto primaziale irreformabile dal capo del collegio.

 

 

4. Conclusioni

Concludendo, si può affermare che la sinodalità è una dimensione inerente alla natura del ministero episcopale. Emerge nella sua struttura ontologica dal principio della «communio», che postula l’immanenza dell’universale nel particolare e del particolare nell’universale; essa è determinata dal fatto che tutti i vescovi partecipano al medesimo grado del sacramento dell’ordine, che comprende anche la Parola, e dal fatto che la Chiesa di Cristo si realizza con una dimensione particolare e universale.

Nell’esercizio della «sacra potestas» la sinodalità si esprime sacramentalmente soprattutto nella concelebrazione, ma assume tutte le sue capacità espressive solo quando opera attraverso la logica strutturale di comunicazione della Parola, cioè del cosiddetto potere di giurisdizione.

Solo la Parola, a differenza del Sacramento, assume infatti un valore vincolante più universale di quella personale pronunciata da un singolo vescovo o espressa sinodalmente da un gruppo di vescovi, grazie alla possibilità che essa venga integrata di fatto (come negli atti paralleli), o di diritto (come negli atti collegiali), in un giudizio dottrinale o disciplinare del collegio, sia che si esprima attraverso il suo capo, o attraverso la totalità dei suoi membri con il Papa.

 

[1] Per un primo approccio dei problemi posti dalla partecipazione, ci permettiamo di rinviare ai nostri studi: Sinodalità, in Nuovo Dizionario di Teologia, G. Barbaglio-S. Dianich (edd.), Roma 19823, 1466-1495; I laici nel nuovo Codice di Diritto Canonico, in La Scuola Cattolica 112, 1984, 194-218.

[2] Cf. O. Saier, Communio in der Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils, München 1973; cf. però le osservazioni in merito allo stesso di G. Alberigo, Istituzioni per la comunione tra l’episcopato universale e il vescovo di Roma, in Id. (ed.), L’Ecclesiologia del Vaticano II: Dinamismi e Prospettive, Bologna 1981, 233-242, spec. nota 11.

[3] Nell’uso fatto dalla dottrina di questo termine si insinua l’equivoco secondo cui la collegialità postulerebbe la permanenza del Concilio ecumenico; cf. per es. Y. Congar, Konziliare Struktur oder konziliare Regierungsform der Kirche, in Concilium 19, 1983, 501-506; G. Alberigo, Istituzioni per la comunione, cit., 235-262.

[4] Cf. W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung, München 1970, 196-201.

[5] Cf. W. Aymans, Kollegium und kollegialer Akt im kanonischen recht, München 1969, 88-91.

[6] Cf. K. Mörsdorf, Munus regendi et potestas iurisdictionis, in Acta Conventus Internationalis Canonistarum Romae diebus 30-25 mai 1968 celebrati, Città del Vaticano 1970, 199-211.

[7] Cf. CD 38, 1; can. 447.

[8] Per l’analisi dell’attività sinodale reale svoltasi nel corso della storia, cf. E. Corecco, La formazione della Chiesa cattolica negli Stati Uniti d’America attraverso l’attività sinodale, Brescia 1970, 41-84, più tabella in appendice; cf. anche S.C. Bonicelli, I concili particolari da Graziano al Concilio di Trento, Brescia 1971

[9] Cf. P. de Vooght, Le conciliarisme aux conciles de Constance et de Bâle, in Le concile et les conciles, Paris 1960, 179-180; G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale. Momenti essenziali tra il XVI e il XIX secolo, Roma-Freiburg-Basel-Barcelona-Wien 1964, 12.

[10] Cf. W. Aymans, Das synodale Element, cit., 318-324.

[11] Cf. il discorso di Giovanni Paolo II del 21 dicembre 1984 ai cardinali e alla Curia romana, in cui si afferma: “V’è infatti tra le singole chiese particolari un rapporto ontologico di vicendevole inclusione: ogni chiesa particolare, in quanto realizzazione dell’unica Chiesa di Cristo, è in qualche modo presente in tutte le chiese particolari, nelle quali e dalle quali ha la sua esistenza la Chiesa cattolica, una ed unica (LG 23)”: cit. in La TracciaL’insegnamento di Giovanni Paolo II, 11, 1985, 1429-1435.

[12] Il rapporto di immanenza reciproca si realizza per es. anche tra la Parola e il Sacramento, tra il sacerdozio ministeriale e quello comune, tra il dovere e il diritto del fedele nella Chiesa; cf. E. Corecco, Il catalogo dei doveri-diritti del fedele nel CIC, in Atti del V Colloquio Giuridico dell’Università Lateranense del 1984, in pubblicazione

[13] Cf. D. Pirson, Personalität und Kollegialität des kirchlichen Amtes, in ZevKR 19, 1974, 337-355.

[14] Cf. M. Philipson, La Santissima trinità e la Chiesa, in La Chiesa del Vaticano II, G. Baraúna (ed.), Firenze 1965, 327-350; E. Zoghby, Unità e diversità della Chiesa, 522-540.

[15] G. Söhngen, nel suo libro Symbolik und Wirklichkeit im Kultmysterium, Bonn 1973, 18, ha colto il problema con questa formulazione significativa: Vom Worte wird das Sakrament mit der Fülle mächtiger Geistlichkeit und vom Sakrament wird das Wort mit der Fülle geistlicher Wirklichkeit erfüllt. La determinazione con la quale J. Beyer si scaglia contro l’uso al singolare del termine Sacramento, invece del plurale, quando si tratta di Connotare tutta la realtà sacramentale in quanto tale, sembra superflua. Cf. dell’A. Il nuovo codice di diritto canonico. in La Scuola Cattolica 112, 1984, 131 n. 21.

[16] Cf. K. Mörsdorf, Die Entwicklung der Zweigliedrigkeit der kirchlichen Hierarchie, in MThZ 3, 1952, 1-16; A.-M. Stickler, Der Zweigliedrigkeit der Kirchengewalt bei Laurentius Hispanus, in A. Scheuermann, Ius Sacrum. Klaus Mörsdorf zum 60. Geburtstag, G. May (edd.), München-Paderborn-Wien 1969, 181-206.

[17] Cf. E. Corecco, Natura e struttura della “Sacra potestas” nella dotrinna e nel nuovo Codice di Diritto Canonico, in Communio 75, 1984, 24-52.

[18] Sul problema del rapporto Chiesa universale e chiesa particolare, cf. Ratzingher, Probleme und Hofflungen des anglikanisch-katholischen Dialogs, in IKZ Communio 12, 1983, 244-259.

[19] Cf., per es., V. Pospishil, Der Patriarch in der Serbisch-Orthodoxen Kirche, Wien 1966; R. Potz, Patriarch und Synode in Konstantinopel, Wien 1971

[20] Su tutta la problematica della recezione del Vaticano II nel CIC in ordine al Concilio ecumenico, cf. il quaderno di Concilium 19, 1983. Se è vero che il CIC alle formulazioni più possibiliste della LG ha preferito quelle più hierarcologiche della Nexp. ed ha collocato il Concilio in una posizione sistematica di secondaria importanza (anche rispetto al CIC del 1917), non risulta invece altrettanto plausibile l’appunto di aver attribuito una priorità sostanziale e sistematica al collegio dei vescovi sul Concilio. Il soggetto della plena, suprema universalis potestas non è infatti il Concilio in quanto tale, ma il collegio dei vescovi, anche durante la celebrazione del Concilio.

[21] Anche se il problema degli eventuali limiti imposti dalla collegialità al primato non ha trovato fino ad oggi risposte concrete, l’ipotesi di attribuire al sinodo dei vescovi reso permanente la legittimazione di rappresentare tutto il collegio non sembra plausibile, dal momento che nessuno nella Chiesa (e perciò neppure i vescovi) può farsi rappresentare nell’atto di testimoniare la propria fede. Sia la formula di compromesso del can. 343, per cui il Papa può attribuire al sinodo voto deliberativo, sia l’ipotesi di ammettere un appello da un eventuale sinodo permanente al Concilio, sono surrogati giuridici utili forse per incoraggiare una prassi sinodale più intensa a livello della Chiesa universale, ma incapaci di risolvere in sede teorica il problema dei limiti provocati dal principio della collegialità sul primato. Su queste questioni, cf., per es., il progetto di statuto per un nuovo sinodo dei vescovi elaborato da G. Alberigo, Appunti per organi collegiali nella Chiesa cattolica, in L’ecclesiologia del Vaticano II, cit., 262-266, con le contro-osservazioni fatte da J. Lecuyer, 267-270.

[22] È interessante notare ch per tutti e due questi casi il can. 353 § 1 usa l’espressione collegiali actione.

[23] A differenza di W. Bertrams, De Synodi Episcoporum potestate cooperandi in exercitio potestatis primatialis, in Quaestiones Fundamentales Iuris Canonici, Romae 1969, spec. 501-507, riteniamo che anche sostenendo la tesi dell’unico soggetto del potere nella Chiesa (il collegio dei vescovi in quanto tale), sia possibile attribuire al sinodo carattere solo consultivo (sia pure in forza di una potestas propria e non solo delegata). Il sinodo anche in questa ipotesi non rappresenta il collegio nella sua totalità, poiché i vescovi non possono farsi rappresentare nella testimonianza della loro fede. Su tutti questi problemi ci permettiamo di rinviare globalmente alle accuratissime analisi contenute nella grossa monografia in corso di stampa di G.P. Milano, Il Sinodo dei Vescovi (1985).

[24] Su tutta questa questione, cf. E. Corecco, Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale?, in Stumento internazionale per un Lavoro Teologico: Communio” 1, 1972, 32-44.

[25] Il nuovo CIC non si esprime su questo problema, ma non c’è ragione per ritenere che la coscienza della Chiesa sia cambiata su questo punto. Il can. 224 § 2 del CIC/1917, pur non riconoscendo nessun diritto di voto al rappresentante di un vescovo, gli attribuisce almeno quello di apporre la firma (come testimone) ai decreti conciliari.

[26] Il voto consultivo dei laici non può essere equivocato come fa A. Acerbi, L’ecclesiologia sottesa alle istituzioni ecclesiali post-conciliari, in L’Ecclesiologia del Vaticano II, cit., 226-228, come semplice “aiuto” prestato ai ministri ordinati. La funzione del sacerdozio comune e del sensus fidei non è quella di aiutare il sacerdozio ministeriale, ma di esprimere la propria testimonianza e la propria opinione sulla fede e sulla disciplina ecclesiale.

[27] Basterebbe richiamare il testo della LG 12 in cui si afferma che “…il giudizio sulla genuinità (dei carismi) e ordinato uso appartiene all’autorità ecclesiastica, alla quale spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cf. 1 Ts 5, 12 e 19-21)”, per rendersi conto della valenza giuridica dei carismi e perciò del dovere, pure giuridicamente esigibile, dei pastori.

 

 

4. Sinodalità e partecipazione nell’esercizio della «potestas sacra»

 

Sinodalità e partecipazione sono due nozioni che, pur definendo realtà ecclesiologiche diverse, hanno la loro radice comune nella «communio», di cui sono un inveramento a livello strutturale.

Mentre la sinodalità è una dimensione specifica del ministero sacramentale, la partecipazione si riferisce all’attività dei laici in rapporto all’esercizio del ministero ordinato. Per giungere, sia pure attraverso percorsi diversi, ad una comprensione ecclesiologicamente e giuridicamente adeguata della “sinodalità” e della “partecipazione” nella Chiesa, è necessario illustrare brevemente e prima di tutto la nozione di «communio».

 

1. Natura ontologica della «communio»

Il principio della «communio» si caratterizza anzitutto per il fatto di determinare il rapporto del fedele con Dio e con gli altri fedeli («communio cum Deo e communio fidelium»), conferendo al battezzato una nuova dimensione ontologica.

Esso assume un’ulteriore valenza nel rapporto gerarchico particolare esistente tra i Vescovi e il Papa, oltre che tra i presbiteri e il Vescovo. L’accettazione di questa «communio hierarchica» è, sia per i Vescovi che per i presbiteri, la condizione per poter esercitare il loro ministero «ad validitatem o ad liceitatem».

È il principio che investe tutto il mistero della Chiesa e tocca prima di tutto la Chiesa nella sua totalità, cioè nel rapporto costituzionale esistente tra la Chiesa universale e la Chiesa particolare. Ecumenicamente, regola il rapporto delle Chiese separate o comunità ecclesiali con la Chiesa cattolica e, di conseguenza, con la Chiesa di Cristo, che è una, santa, cattolica ed apostolica e sussiste nella Chiesa cattolica romana.

Questo rapporto di immanenza dei due aspetti formali dell’unica Chiesa di Cristo è stato per la prima volta definito nella sua compiutezza dalla LG 23, 1, con la Formula secondo cui la Chiesa universale si realizza nelle e dalle Chiese particolari («in quibus et ex quibus una et unica ecclesia catholica exsistit»).

La Chiesa universale, pur avendo nel Collegio dei Vescovi e nel Papa la propria espressione ministeriale, non esiste come realtà autonoma, ma solo in quanto si realizza, concretamente e storicamente, nelle Chiese particolari ed emerge da esse come risultanza globale[1].

In effetti, l’esistenza non solo dei Vescovi, ma anche del Papa, non è radicata nella Chiesa universale in quanto tale, ma in una Chiesa particolare in cui si realizza quella universale.

Il principio della immanenza reciproca, e perciò di inseparabilità, degli elementi formali costitutivi, della struttura costituzionale della Chiesa, così come emerge in modo paradigmatico nella immanenza dell’universale nel particolare e del particolare nell’universale, forma l’essenza stessa della nozione di «communio». Si tratta di un principio che, pur assumendo molti significati spirituali, è prima di tutto un principio strutturale.

Non esiste, infatti, solo un rapporto di immanenza reciproca e di inseparabilità tra le due dimensioni formali della Chiesa: quella particolare e quella universale e viceversa, ma anche a molti altri livelli formali o materiali della realtà ecclesiale, fino a investire anche la dimensione antropologica del fedele cristiano.

Infatti, esiste una immanenza reciproca tra la Parola e il Sacramento, che sono inscindibili; tra il Papa e il Collegio dei Vescovi; tra il Vescovo e il presbiterio; tra il sacerdozio comune e quello ministeriale; tra il dovere e il diritto nei fedeli; tra il fedele stesso e la Chiesa e viceversa, poiché la persona battezzata è immanente al Corpo Mistico di Cristo, e il Corpo Mistico, che è la Chiesa, è immanente al fedele. L’identità antropologica nuova del fedele è determinata proprio dal fatto che tutti gli altri fedeli gli appartengono, attraverso l’unico battesimo e l’unica fede, come elemento costitutivo della sua persona in quanto «homo novus».

2. La dimensione sinodale del ministero sacramentale

1. L’immanenza reciproca della dimensione personale e sinodale nel ministero episcopale

Anche la dimensione sinodale inerente al ministero episcopale, è determinata dalla «communio» e perciò dal principio della immanenza degli elementi costitutivi del ministero stesso.

In effetti la “sinodalità” – che non si identifica con la “collegialità” o attività concreta dei Vescovi nelle molteplici strutture “collegiali”[2], ma è una nozione più vasta e meno equivocabile – non si pone come dimensione alternativa rispetto alla dimensione personale del ministero episcopale.

È una dimensione formalmente distinta dello stesso ministero episcopale, perché ogni Vescovo è ontologicamente determinato, non solo dal sacramento dell’ordine di cui è investito personalmente, ma anche dal fatto che anche gli altri Vescovi posseggono l’identica pienezza dello stesso sacramento.

L’unicità del sacramento, nella pluralità delle sue realizzazioni, è il fondamento della struttura, sia personale che sinodale, del ministero.

Ne consegue che la sinodalità non restringe l’ambito dell’esercizio del ministero episcopale, ma gli conferisce una estensione più vasta, perché sviluppa la relazione ontologica esistente con gli altri ministeri, allargandola oltre i confini giurisdizionali e territoriali, che delimitano normalmente l’attività pastorale di un Vescovo.

L’ufficio episcopale non trova riscontro nei sistemi politici monocratici o democratici, fondati sulla delega del potere e non sull’istituto dell’ufficio.

Nella costituzione ecclesiale, il ministero o ufficio episcopale, si definisce per il fatto che la potestà, di cui è investito il titolare, non è delegata. Esso è affidato ai Vescovi non dalla Chiesa, ma da Cristo stesso, sia pure attraverso la mediazione sacramentale. L’ufficio episcopale, in quanto sacramento, precede, quale elemento fondante, la Chiesa.

Nella società civile, inoltre, la pluralità degli uffici e la divisione del potere, non è in se stessa necessaria. La scelta tra un regime monocratico e uno democratico non si impone per necessità di diritto naturale. Nella costituzione ecclesiale, invece, la pluralità degli uffici è ontologicamente necessaria[3].

Non è il fatto materiale della pluralità delle Chiese e dei Vescovi in quanto tali l’elemento decisivo, ma il fatto che questa pluralità è necessariamente iscritta nella costituzione della Chiesa. È questa necessarietà a generare nel ministero episcopale una duplice dimensione: quella personale e quella sinodale.

La struttura pluralistica della Chiesa non è plausibilmente giustificabile in base a considerazioni di ordine filosofico o storico, e tanto meno solo pratiche, ma solo dal profilo teologico.

L’unità e la pluralità della Chiesa è conoscibile solo per fede e può essere resa teologicamente plausibile unicamente in quanto costituisce un riflesso storico-istituzionale dell’unità e pluralità del mistero trinitario[4].

 

2. La radice sacramentale della sinodalità e l’istituto della rappresentazione

L’origine sacramentale della dimensione personale del ministero episcopale conferisce al Vescovo una capacità di rappresentazione radicalmente diversa rispetto all’istituto della rappresentazione, tipico delle esperienze giuridiche laiche, e ciò per due ragioni diverse.

La rappresentazione sacramentale stabilisce una relazione di adeguazione non totale, ma parziale, tra il ministro e Cristo. Infatti, non è il ministro, ma è Cristo che agisce ex opere operato nel sacramento. Ne consegue che, a differenza dell’istituto della rappresentazione del diritto statuale, la rappresentazione sacramentale non si realizza nelle persone giuridiche, ma solo nelle persone fisiche.

La teologia, infatti, non ha mai affermato che il Collegio dei Vescovi, o il Concilio ecumenico, rappresentino Cristo, quantunque detengano il supremo e pieno potere nella Chiesa universale. Solo il Vescovo rappresenta sacramentalmente, e perciò personalmente, Cristo in quanto capo invisibile della Chiesa. Ne è prova il fatto che la concelebrazione eucaristica non è un atto del collegio in quanto tale, ma solo un atto collettivo, in cui l’unica consacrazione delle speci è causata ministerialmente, dai singoli ministri e non dal collegio dei concelebranti, in quanto tale.

Il Collegio dei Vescovi, per contro, rappresenta la Chiesa e, a differenza del singolo Vescovo, la rappresenta secondo un rapporto di relazione totale e non parziale.

La capacità rappresentativa del ministero ordinato, da cui deriva la sinodalità, non è perciò di natura sociologica, bensì sacramentale ed ecclesiologica, poiché presuppone il possesso individuale del sacramento dell’ordine da parte di ogni Vescovo. È in forza del sacramento dell’ordine che il Vescovo rappresenta la propria Chiesa particolare in seno a quella universale e quest’ultima in seno a quella particolare.

Anche la rappresentazione ecclesiologica ha perciò radice sacramentale. Ciò spiega ulteriormente il fatto che la distinzione formale, esistente tra dimensione personale e sinodale del ministero episcopale, non sfocia in una separazione reale e perciò in una antinomia. Sono due aspetti formali diversi di un’unica realtà, il sacramento dell’ordine.

Anche la Chiesa particolare ha già in se stessa una sua componente sinodale. Infatti, non è costituita solo dal Vescovo, anche se è il principio e il fondamento della sua unità (LG 23, 1), bensì dal Vescovo con il suo presbiterio (oltre che dalla porzione di Popolo di Dio che le è propria; can. 369). Il ministero episcopale ha, perciò, una dimensione sinodale già nella sua valenza eminentemente personale, perché comprende in se stesso anche i presbiteri.

L’esistenza dei presbiteri attorno al Vescovo, infatti, non deriva da semplici motivi di ordine funzionale, quasi che il Vescovo da solo non fosse in grado di esercitare tutti i compiti attinenti al suo ufficio, ma da motivi ecclesiologici.

Una struttura monistica della Chiesa particolare, cioè una struttura fondata solo sul Vescovo, senza il presbiterio, non sarebbe in grado di realizzare in se stessa la struttura sinodale della Chiesa universale. Due realtà eterogenee tra di loro non potrebbero fondersi in unità, secondo il principio della «communio» cioè della immanenza reciproca.

Solo in forza del fatto che nella Chiesa particolare esiste necessariamente una struttura sinodale (quella del presbiterio di cui è capo il Vescovo) è possibile il realizzarsi in essa della Chiesa universale.

Evidentemente la struttura sinodale della Chiesa particolare è solo analogica rispetto a quella della Chiesa universale, poiché il rapporto Vescovo-presbiteri è diverso da quello esistente tra Papa e Vescovi. Se così non fosse il processo di immanenza dell’universale nel particolare e viceversa andrebbe all’infinito.

Questa diversità consiste sostanzialmente nel fatto che il presbitero riceve il proprio ministero come partecipazione a quello “pieno” del Vescovo, per cui la dimensione sinodale del ministero presbiterale non è fondata su un’autonomia sacramentale e giurisdizionale analoga a quella di cui gode ogni singolo Vescovo rispetto al Papa.

Il presbitero è un’emanazione necessaria dell’ufficio episcopale e la sua autonomia è limitata alla rappresentazione personale di Cristo nella celebrazione dei sacramenti. Il presbitero, infatti, rappresenta la propria comunità eucaristica in seno alla Chiesa particolare in modo solo analogico rispetto al Vescovo, che, invece, rappresenta in modo totale la propria Chiesa particolare in seno a quella universale.

Ciò non significa, tuttavia, che il ministero presbiterale non sia necessario, né che lo stesso non abbia, a sua volta, una valenza sinodale, emergente del resto nel Consiglio Presbiterale Diocesano.

Un esame della sinodalità specifica del ministero presbiterale richiederebbe uno studio particolare, impossibile da affrontare in questa sede, dovendo, infatti, ancora parlare, sia della sinodalità come espressione della Parola (e non solo del Sacramento), sia della partecipazione dei laici all’esercizio della «sacra potestas» legata al ministero ordinato.

 

3. La sinodalità come espressione della Parola

Poiché il segno simbolico sacramentale attraverso il quale il potere ecclesiale si esprime è sempre uguale e mantiene universalmente lo stesso significato, la «sacra potestas» operante nel sacramento dell’ordine è formalmente e materialmente uguale per tutti i Vescovi[5].

Per contro, allorché tale «potestas» opera secondo la logica strutturale della Parola, cioè della «iuris dictio», può assumere un valore formale diverso, pur rimanendo ovunque identica nel suo contenuto.

Contrariamente al segno sacramentale, la Parola può essere enunciata, sia individualmente, da una singola persona fisica, sia in comune, da una pluralità di persone, che sono in grado di conferirle così un’autorità formalmente vincolante più universale.

A differenza del segno simbolico sacramentale, la Parola, come giudizio ecclesiale di molti, può integrarsi nella dinamica specifica non solo degli atti paralleli, ma pure degli atti collegiali veri e propri. In questo caso si trasforma in decisione, dottrinale o disciplinare, di cui l’unico soggetto di imputazione è il Collegio dei Vescovi in quanto tale.

La Parola, che, come il sacramento può essere identica dal profilo del suo contenuto materiale, quando è pronunciata da un solo Vescovo e da tutto il Collegio episcopale, può assumere invece, a differenza del sacramento, gradi formali diversi di universalità, cioè di autorità vincolante. Ciò spiega perché la responsabilità globale dell’annuncio della Parola appartiene «in solidum» a tutto il Collegio dei Vescovi, in cui si realizza la espressione suprema ed universale della sinodalità.

Mentre il Sacramento conferisce al Vescovo tutto il potere di ordine, cioè la possibilità di rendere sempre ed ovunque operativa tutta la «sacra potestas», secondo la logica strutturale di comunicazione (specifica del segno simbolico), la «missio canonica» delimita l’ambito territoriale o personale, all’interno della «communio hierarchica».

Entro questo ambito il singolo Vescovo può usare autoritativamente la «sacra potestas», secondo la logica di comunicazione della Parola. Si tratta di una delimitazione a carattere solo formale, non materiale. Incide solo sulla forza vincolante del magistero del singolo Vescovo, non sui suoi contenuti.

Il singolo Vescovo, che può consacrare sempre validamente in tutta la Chiesa universale, può predicare autoritativamente il contenuto della Parola e derivarne un ordine disciplinare, giuridicamente vincolante, solo per la propria Chiesa particolare.

Tuttavia, pur non godendo di un vero e proprio potere di giurisdizione in tutta la Chiesa universale, ogni Vescovo e investito anche di una responsabilità e di una sollecitudine nei confronti di essa (LG 23, 2).

Questa responsabilità è, però, insita al ministero episcopale, non è additiva, sia perché Sacramento e Parola sono comuni e uguali per tutti i Vescovi, sia perché la Chiesa particolare è parte costitutiva della Chiesa universale[6].

Esercitando la «sacra potestas» nella sua Chiesa particolare, secondo la dimensione personale del suo ministero, che ha oltre tutto una valenza sinodale anche in rapporto al suo presbiterio, il Vescovo edifica anche la Chiesa universale ed assume, di conseguenza, una responsabilità, che acquisisce così, già di per se stessa, una dimensione sinodale.

Per poter invece esercitare «in solidum» la «sacra potestas», in quanto espressa dalla Parola, con forza giuridicamente vincolante per tutta la Chiesa universale, il Vescovo deve inserirsi nelle strutture sinodali previste dalla Chiesa universale, accettando le norme disciplinari statuite all’interno dalla «communio hierarchica».

Il principio ecclesiologico della «communio hierarchica», inerente alla struttura del Collegio dei Vescovi, si invera storicamente secondo istituzioni sinodali diverse.

Prima di tutto si realizza nel Concilio ecumenico, in cui il capo del Collegio dei Vescovi è anche membro effettivo del corpo votante.

In secondo luogo si invera nel Concistoro e nel Sinodo dei Vescovi, che sono forme sinodali in cui il capo del Collegio dei Vescovi non è membro effettivo del corpo votante[7]. In queste due ultime strutture sinodali i Vescovi votano sulla base di presupposti diversi: nel Concistoro sulla base del rapporto orizzontale di comunione, esistente tra i suoi membri, i Vescovi-cardinali; nel Sinodo dei Vescovi, per contro, sulla base di una attribuzione di sinodalità effettuata dal Papa.

In terzo luogo vengono i Concili particolari e le Conferenze episcopali. In questi casi il capo del Collegio dei Vescovi non solo non fa parte del corpo votante, ma non è neppure il referente immediato della decisione sinodale, come invece nel Sinodo dei Vescovi. In queste strutture, i Vescovi esprimono il loro voto deliberativo in forza della «sacra potestas propria», inerente, cioè, al loro ufficio.

Allo stesso modo che la comunione reciproca esistente tra le chiese particolari è derivata dal rapporto costitutivo di comunione che ciascuna di esse gode con la Chiesa di Roma, così il rapporto di comunione dei Vescovi, tra di loro, è derivato dal rapporto costitutivo di comunione, che ogni singolo Vescovo intrattiene con il Papa, in quanto capo del Collegio.

Ciò significa che, nell’esercizio concreto della «sacra potestas» secondo l’espressione formale della Parola, la sinodalità, insita nel ministero episcopale, può esprimersi, comunque, solo nella misura in cui essa comprende, direttamente o indirettamente, anche il capo del Collegio dei Vescovi.

Dalla funzione diretta o indiretta riconosciuta al Papa, in quanto capo del Collegio, e dalla sua stessa operatività, almeno morale, all’interno di queste strutture, dipende la forza vincolante, più o meno universale, della decisione dottrinale o disciplinare presa dai Vescovi, in una delle citate istituzioni sinodali.

Così, posto che il Papa è elemento costitutivo per l’esercizio della sinodalità del Collegio in quanto tale, allorché esercita la sua funzione diretta insieme con tutto il Collegio, si ha la massima valenza vincolante (es. in un Concilio ecumenico); per contro, allorquando esercita solo indirettamente la sua funzione (es. nel Sinodo dei Vescovi) ed il Collegio è attivo solo parzialmente, cioè attraverso una parte dei Vescovi che rappresentano il Collegio universale solo secondo un rapporto ecclesiologico di relazione non totale (e perciò su una base anche fortemente sociologica), si ha una valenza universale meno vincolante della pronuncia collegiale. La sinodalità delle Conferenze episcopali, per contro, ha valore solo particolare.

Definito in questi termini il contenuto caratterizzante la nozione di sinodalità, soprattutto a livello episcopale, vediamo ora di affrontare il secondo modo di inveramento del principio della communio: la cosiddetta “partecipazione dei laici”.

 

3. Natura della partecipazione dei laici all’esercizio del ministero ordinato

1. L’identità ecclesiologica dei laici

Il nuovo Codice di diritto canonico ha valorizzato pienamente, dal profilo sistematico, la posizione ecclesiale dei laici nei confronti degli altri due stati ecclesiali, quello clericale e quello dei consigli evangelici, attribuendo allo stato laicale la priorità sistematica nell’ordine della trattazione della materia legislativa concernente il Popolo di Dio, capovolgendo la situazione non solo rispetto al CIC del 1917, bensì anche rispetto alla LG.

Così facendo il nuovo CIC ha capovolto totalmente la situazione rispetto al CIC del 1917 in cui i laici apparivano, dopo i chierici e i religiosi quasi marginalmente, in coda al II libro, il quale affrontava la questione della costituzione della Chiesa, non in una prospettiva ecclesiologica, ma nella prospettiva giuridico-civilistica delle persone.

Anche rispetto alla LG, che tratta dei laici nel cap. IV dopo i chierici (cap. III), ma prima dei religiosi (cap. VI), il nuovo CIC ha fatto registrare un progresso considerevole.

Dal profilo sostanziale, questo progresso ha indotto il legislatore a redigere, sul modello costituzionale civile, un catalogo dei doveri e dei diritti specifici dei laici (cann. 225-231), già enunciati, nei suoi elementi generali, dal Concilio e a formulare talune norme, direttamente concernenti l’impegno di animazione cristiana del mondo da parte dei laici[8]. Hanno questo carattere il dovere e diritto generale di lavorare, godendo della necessaria libertà, alla trasformazione delle realtà terrestri (cann. 225 par. 2 e 227); il diritto di associarsi per questo scopo (cann. 327-329) e, infine, i diritti e doveri della famiglia nel settore dell’educazione dei figli (cann. 226, 793, 796-799).

La stragrande maggioranza dei doveri e diritti dei fedeli laici, formulati dal CIC, non sono derivati direttamente sulla specificità teologica dell’indole secolare, bensì sulla loro partecipazione sacramentale, previa peraltro all’indole secolare, cioè ai tre uffici di Cristo, di insegnare, santificare e governare, secondo la definizione di LG 31, 1. Tuttavia è proprio a questo primo livello sacramentale (comune a tutti i fedeli, anche ai chierici e ai religiosi) che il progresso nella chiarificazione dello statuto giuridico ecclesiologico dei fedeli laici è avvenuto non senza contraddizioni.

Il CIC, infatti, non fa un discorso articolato sulla partecipazione all’ufficio di governo, se non nel can. 129 par. 2, che prevede per i laici con formula, quasi machiavellica, una «cooperatio in exercitio potestatis regiminis» dei ministri sacri.

Il problema viene posto, così, in termini solo additivi, perché cooperare significa partecipare all’attività di un altro soggetto e non implica una partecipazione alla natura del potere o dell’ufficio del soggetto titolare. Per presbiteri, quali «fidi cooperatores» del Vescovo (per es. can. 245 par. 2), il problema è diverso, perché – come si è visto precedentemente – pur non avendo la pienezza dell’ordine sacro, cooperano non tanto all’esercizio del ministero del Vescovo, ma sinodalmente allo stesso ministero del Vescovo, sia pure con un potere subordinato, sulla base della loro partecipazione al sacramento dell’ordine stesso di cui il presbiterato è una derivazione.

Su queste basi, in cui l’idea di supplenza purtroppo soggiacente, e fermo restando che i laici non partecipano al sacerdozio ministeriale e perciò non possono essere investiti della «sacra potestas», si pone ora il problema di individuare le strutture nelle quali i laici possono esprimere con organicità la loro responsabilità di governo nella vita quotidiana della Chiesa.

In altri termini si tratta di individuare e definire le strutture di partecipazione dei fedeli laici alla edificazione della Chiesa, sotto il profilo del «munus regendi».

 

2. La natura ecclesiologica delle strutture di partecipazione

Le strutture previste dal Concilio Vaticano II per istituzionalizzare la partecipazione nella Chiesa particolare sono di due tipi diversi:

– da una parte il Consiglio Pastorale Diocesano (CD 27, 5);

– dall’altra i cosiddetti “Consigli dei laici” (AA 26,1-2) nei quali chierici, religiosi e laici sono chiamati a lavorare assieme a livello parrocchiale, decanale, diocesano, nazionale o internazionale, per altro ignorati dal CIC del 1983[9].

Il carattere particolare di questi “Consigli dei laici” – il cui compito, secondo il testo conciliare, è quello di “giovare alla mutua coordinazione delle varie associazioni e iniziative dei laici, nel rispetto dell’indole propria e dell’autonomia di ciascuna” – è dato dal fatto che la loro attività, a differenza del Consiglio Pastorale, non è subordinata direttamente ai pastori responsabili a livello costituzionale della porzione di Chiesa in cui sono inseriti (parrocchia, diocesi, regione ecclesiale, Chiesa universale).

Il clero, infatti, non esercita in essi una funzione gerarchica; presbiteri e religiosi sono presenti semplicemente come i «Christifideles», ossia come membri credenti del Popolo di Dio e a tale titolo chiamati a lavorare assieme, pur esercitando il loro ministero, agli altri fedeli ed in particolare ai laici.

A differenza del Consiglio Pastorale Diocesano, che è una istituzione appartenente alla struttura costituzionale della Chiesa particolare e che di conseguenza deve riprodurre il modello gerarchico della stessa, i Consigli dei laici non avendo un fondamento costituzionale sono strutturati, o possono esserlo secondo il modello corporativo.

Accanto a questi “Consigli dei laici”, da una parte, e al Consiglio Pastorale Diocesano dall’altra, è stata creata negli ultimi anni, in forza del diritto particolare, recepito al can. 536, una terza forma: il Consiglio Pastorale Parrocchiale che ha progressivamente abbandonato il terreno corporativistico per svilupparsi in struttura di tipo costituzionale.

La conseguenza inevitabile di questo sviluppo costituzionale è che il Consiglio Pastorale Parrocchiale deve ripetere, sia pure in forma analogica, il modello gerarchico proprio della Chiesa particolare e, quindi, rispettare integralmente la funzione ecclesiale specifica dell’ufficio ministeriale, conferita dal sacramento dell’ordine.

È una struttura che non può, di conseguenza, essere snaturata dalla logica propria al sistema giuridico corporativo. In essa il ruolo gerarchico del parroco deve essere garantito, per analogia, secondo il modello di quello del Vescovo nel Consiglio Pastorale Diocesano. Il suo fondamento è il sacramento dell’ordine e non un mandato democratico, che viene dal basso.

Per questi Consigli a carattere costituzionale il punto di riferimento è la struttura gerarchica dell’Eucaristia. Del resto la parrocchia è solo la forma istituzionalmente più importante tra le diverse comunità eucaristiche di una Diocesi[10]. Di conseguenza l’unità della parrocchia non si realizza in forza di decisioni maggioritarie, ma attraverso il riconoscimento della funzione propria al ministero ordinato.

A livello decanale o regionale il problema si pone in modo diverso, poiché il decano non esplica nei Consigli Decanali una funzione costituzionale, strettamente gerarchica, ma piuttosto una funzione di controllo e di coordinazione.

È perciò possibile concepire il Consiglio Pastorale Decanale, e le assemblee relative, come organi di coordinazione delle attività dei gruppi ecclesiali esistenti a livello decanale delle associazioni pastorali, caritative, sociali, ecc.), secondo il modello proprio del diritto corporativo, dove prevale il principio della volontà della maggioranza.

Fatta e brevemente illustrata questa distinzione fondamentale fra gli organismi a carattere costituzionale e quelli fondati sulla libera iniziativa e perciò, dal profilo giuridico, sul modello offerto dal diritto corporativo, resta da analizzare il problema della logica interna di funzionamento degli organismi costituzionali di partecipazione.

 

3. La dinamica della partecipazione

Questo problema va affrontato analizzando due concetti fondamentali: quello di “rappresentazione”, quello di “voto deliberativo e consultivo”; infine il problema della “competenza”.

 

a) L’idea fondamentale del parlamentarismo moderno è quella di “rappresentazione”. Il potere viene delegato ad alcune persone sulla base di un voto popolare universale.

Nella comunità cristiana la rappresentazione – di cui si è già parlato a proposito della sinodalità – è radicalmente diversa per due ragioni fondamentali. Prima di tutto perché la «sacra potestas» è conferita dal sacramento.

Innanzitutto, le persone che hanno il compito di guidare la comunità non sono investite della potestà ecclesiale dal popolo cristiano. Esse esercitano questo potere, o servizio, in forza del sacramento dell’ordine e della «missio canonica», anche quando dovessero essere elette dalla base.

La «potestas sacra» è conferita totalmente dall’ordine, ma, nei suoi limiti territoriali o personali, e perciò di esercizio valido o legittimo, all’interno della comunione ecclesiale, è specificata dalla «missio», conferita da persona investita del sacramento dell’ordine.

Questa radice sacramentale e non sociale della «sacra potestas» spiega, sia perché nella Chiesa universale solo il Papa e il Collegio dei Vescovi possono rappresentare la Chiesa, sia perché solo il Vescovo diocesano rappresenta la Chiesa particolare.

Ne consegue che solo il Vescovo, non invece il Consiglio Pastorale Diocesano (come del resto anche il Consiglio Presbiterale), sono legittimati a rappresentare la Chiesa particolare in seno al Collegio episcopale.

Gli stessi Capitoli Cattedrali non hanno mai rappresentato le Diocesi nei Concili medievali. Hanno rappresentato solo se stessi e i loro interessi corporativistici, su base di una rappresentazione sociale e non ecclesiologica.

Il parroco, dal canto suo, rappresenta sia Cristo che il Vescovo in seno alla comunità eucaristica parrocchiale, poiché l’ordine sacro, in forza del quale egli agisce «in persona Christi», è anche una partecipazione al sacramento dell’ordine, posseduto dal Vescovo nella sua pienezza. È capo gerarchico della comunità parrocchiale, non quale mandatario della stessa, ma perché in forza del sacramento dell’ordine rappresenta Cristo e il Vescovo stesso.

In secondo luogo la nozione ecclesiologica di rappresentazione è sostanzialmente diversa in forza del fatto che la fede non può mai essere rappresentata per delega. La salvezza è eminentemente personale e non può perciò essere oggetto di delega. Nell’atto di fede e nella professione della stessa non è possibile farsi rappresentare da un’altra persona.

In definitiva nella Chiesa il concetto di “rappresentazione” si identifica con quello di “testimonianza”. Solo la testimonianza del Vescovo sulla fede, e sulla fede nella sua Chiesa particolare, ha valore ultimo e forza vincolante definitiva. È per questo che al Concilio il suo voto ha forza “deliberativa”.

Ne segue che la testimonianza dei membri laici dei Consigli Pastorali (che ecclesiologicamente non rappresentano terzi, ma testimoniano solo la propria fede personale), non ha valore di testimonianza ultima. Senza la testimonianza del Vescovo, alla quale si unisce la loro, il voto dei membri di un Consiglio Pastorale Diocesano non ha forza vincolante ultima. Questo è il significato del “voto consultivo”.

Alla distinzione fra voto deliberativo e voto consultivo è però bene prestare maggiore attenzione.

b) Gli istituti giuridici del voto deliberativo e consultivo svolgono nell’ordinamento della Chiesa una funzione diversa – almeno in linea di principio se non sempre nella prassi – rispetto a quella propria della teoria generale del diritto statuale[11].

Valutati secondo la logica dei sistemi costituzionali statuali, dove il problema centrale è quello della ripartizione del potere, il voto deliberativo e consultivo del diritto ecclesiale possono facilmente essere equivocati nel loro significato.

Evidentemente, il problema costituzionale in seno alla Chiesa non si pone come problema di divisione del potere, essendo la «sacra potestas» indivisibile. Ciò è vero anche se è possibile fissare, estendere o restringere le competenze del ministero episcopale (e degli altri ministeri o uffici) – così come si è del resto ampiamente verificato nel corso della storia – facendo ricorso agli istituti giuridici del voto deliberativo e consultivo.

Il nocciolo della questione è perciò diverso: da una parte perché il ministero episcopale ha un contenuto insopprimibile e irrinunciabile dal profilo delle competenze; dall’altra, perché, almeno secondo la coscienza ecclesiologica cui è pervenuta la Chiesa contemporanea, nessun fedele in linea di principio e per ipotesi astratta dovrebbe essere escluso da una corresponsabilità globale nella edificazione della Chiesa e, di conseguenza, dalla dinamica di preparazione delle decisioni, anche quando esse spettano in ultima istanza ai Vescovi.

Il voto deliberativo dei Vescovi al Concilio non è deliberativo secondo l’accezione propria alla teoria generale del diritto statuale, perché la sua forza vincolante formale non deriva, in quanto tale, dalla discrezionalità propria alla volontà umana. È deliberativo nel senso che la testimonianza dei Vescovi circa la loro fede e la fede delle loro Chiese particolari è inappellabile. I Vescovi non decidono volontaristicamente sulla fede ma sono chiamati a constatarla come si constata l’esistenza di una realtà preesistente.

Il carattere deliberativo del voto del Vescovo coincide perciò con la irrinunciabilità della sua testimonianza personale di fede.

Con il voto consultivo l’ordinamento giuridico della Chiesa esprime, invece, per principio, sia pure con approssimazione ed efficacia diversa, la posizione di tutti gli altri fedeli (laici e chierici) chiamati strutturalmente a contribuire alla formulazione del giudizio di fede di coloro che hanno la responsabilità di esprimerlo come giudizio comune, vincolante per tutti.

Il «sensus fidei» dei fedeli è fondamentale, ma rimane subordinato dal profilo della sua capacità vincolante al magistero episcopale.

Sul carattere del voto consultivo dei Vescovi in seno alle strutture sinodali della Chiesa universale, come per es. quello del Sinodo dei Vescovi, riferirà in questo Congresso il Prof. Giampiero Milano.

La differenza con l’istituto della teoria generale del diritto statuale è data dal fatto che, nella Chiesa, il voto consultivo non è una limitazione di potere imposta dal più forte al più debole. Istituzionalizza, per contro, una necessità inerente alla dinamica della comunione. Ciò dipende dal principio della «communio», intesa come fatto di necessaria immanenza degli elementi costitutivi di una realtà ecclesiologica. Nel caso specifico l’immanenza del «sensus fidei fidelium» al «munus docendi» del ministero sacramentale dei Vescovi.

L’esempio della Chiesa particolare è paradigmatico. Essa è costituita non solo dal Vescovo con il presbiterio, ma anche da una «portio Populi Dei». Ne consegue perciò che, essendo il sacerdozio comune, con il «sensus fidei» di tutti questi fedeli, primario rispetto a quello ministeriale – nel senso che quest’ultimo esiste solo in funzione della realizzazione del sacerdozio comune – il Vescovo e il clero, nella formazione del loro giudizio in ordine al governo della Chiesa particolare, non possono prescindere dallo stesso, anche se le modalità concrete di consultazione possono storicamente cambiare[12].

Il rapporto di immanenza alla porzione di popolo di Dio di cui è formata la Chiesa particolare, che vive però un’esperienza reale di fede, è perciò di per sé costitutivo nel processo dal quale dovrebbe nascere il giudizio dottrinale e disciplinare del Vescovo. In esso devono confluire il «sensus fidei» e i carismi di tutti i fedeli.

Il loro giudizio, tuttavia, se, da una parte, non è misurabile con il criterio della maggioranza numerica, dall’altra, non può diventare neppure punto di riferimento valido per tutti, se non quando il Vescovo pronuncia la sua testimonianza e la sua parola.

Questo rapporto strutturale di immanenza, del Vescovo alla sua Chiesa particolare e dei fedeli al ministero episcopale, può essere espresso istituzionalmente con l’istituto del voto consultivo. Non coincide, però, con l’analogo istituto del diritto statuale, sia perché esistono teoricamente e praticamente altre possibilità, rispetto al diritto statuale, per manifestarlo, sia perché non nasce dal compromesso con il quale, negli ordinamenti giuridici statuali, si cerca di mitigare il principio autoritario con quello democratico.

c) Resterebbe brevemente da vedere il terzo punto: quello della estensione delle competenze materiali dei Consigli.

Il concetto di “communio” esige dai Vescovi, non solo una trasformazione della mentalità ereditata dal passato, ma anche un ripensamento del modo individualistico con il quale sono state concepite finora le loro competenze.

Se al Vescovo non può, di per sé, essere sottratta nessuna competenza, è altrettanto vero che le sue competenze e l’esercizio della sua potestà, non possono di per sé essere slegate dal nesso ecclesiale in cui il suo ufficio, quello di essere principio e fondamento dell’unità, è inserito.

I Consigli Pastorali, diocesani e Parrocchiali, sono stati introdotti dal Concilio come declinazione operativa, a livello della Chiesa particolare, della struttura “comunionale” della Chiesa universale.

Non esistono ragioni teologiche stringenti per escludere dalle competenze di questi organismi consultivi settori pastorali generali, come se ne esistessero di quelli che per loro natura sfuggono alla possibilità di una riflessione comune e di una verifica consultiva da parte dei presbiteri o dei laici. La competenza consultiva dei Consigli Presbiterali e Pastorali (diocesani e parrocchiali) potrebbe, in effetti, essere estesa, almeno in teoria, se non nella prassi concreta, date le innumerevoli difficoltà tecniche, a tutti i settori della vita della Chiesa.

Ciò non elimina la responsabilità eminentemente personale del Vescovo o del parroco. Un aspetto della diaconia del Vescovo o del parroco è proprio quello di esigere dal clero e, rispettivamente, dai fedeli una partecipazione responsabile al compito che gli è proprio.

In questa prospettiva di comunione e di immanenza il problema del potere nella Chiesa si sottrae alla possibilità di porsi, come nella democrazia, quale problema di spartizione del potere; si pone invece come problema di informare organicamente al principio della comunione ecclesiale le diverse diaconie e i vari carismi.

 

4. Conclusioni

 

Concludendo si può affermare che la “sinodalità”, istituto tipico della realtà ecclesiale, è innanzitutto una dimensione inerente alla natura del ministero episcopale. Emerge nella sua struttura ontologica dal principio della «communio», che postula l’immanenza degli elementi costitutivi di una realtà ecclesiologica. Essa è determinata dal fatto che tutti i Vescovi partecipano al medesimo grado del sacramento dell’ordine, che comprende anche la Parola, e dal fatto che la Chiesa di Cristo si realizza con una dimensione particolare e universale.

Nell’esercizio della «sacra potestas» la sinodalità si esprime, sacramentalmente, soprattutto nella concelebrazione. Tuttavia, proprio la concelebrazione eucaristica, che non è, dal profilo tecnico, un atto collegiale, ma solo collettivo, dimostra che la nozione di sinodalità è più ampia e comunque meno ambigua di quella di collegialità. La collegialità connota l’esistenza di un atto collegiale in senso giuridicamente stretto.

La sinodalità, tuttavia, assume tutte le sue capacità espressive solo quando opera attraverso la logica strutturale di comunicazione della Parola, cioè del cosiddetto potere di giurisdizione, che è solo formalmente distinto da quello di ordine perché sia nel primo, che nel secondo, è presente ed opera tutta la «sacra potestas».

Solo la Parola, a differenza del Sacramento, può assumere, infatti, un valore vincolante più universale di quello inerente ad un atto posto personalmente da un singolo Vescovo (o sinodalmente da un gruppo locale di Vescovi). Ciò si verifica in forza del fatto che solo la Parola può essere integrata in un giudizio dottrinale o disciplinare del Collegio dei Vescovi, in quanto soggetto operante unico. Un soggetto che può esprimersi, sia attraverso il suo capo, sia attraverso la totalità dei suoi membri, con il Papa.

La “partecipazione”, pur non essendo una nozione tipicamente ecclesiale, può essere recepita nella teoria generale del sistema canonico, a condizione di attribuirle un significato diverso rispetto a quello della dogmatica giuridica dei sistemi statuali[13].

Innanzitutto, perché la «potestas sacra» è d’origine sacramentale.

In secondo luogo, perché l’organizzazione di tale «potestas» è retta dal principio della «communio» e perciò dell’immanenza reciproca dell’elemento personale e sinodale.

Si tratta di un principio che non ha nulla in comune con i principi civilistici del controllo democratico e della divisione del potere.

Valorizzando tutta la funzione ecclesiologica del sacerdozio comune dei fedeli, e recuperando il significato specificatamente ecclesiale di concetti come “rappresentazione”, “voto deliberativo”, “voto consultivo” (e “competenza”), è possibile definire la “partecipazione” dei fedeli laici all’esercizio della “sacra potestas” in termini, non di contrapposizione dialettica, bensì di testimonianza di fede, che anche i fedeli laici devono dare, quale contributo proprio all’edificazione della Chiesa.

Questa testimonianza, fondata nel sacerdozio comune (di cui il «sensus fidei» è l’aspetto corrispondente alla Parola), deve essere intesa come un contributo dato dai fedeli laici al formarsi del giudizio magisteriale del Vescovo e per analogia del presbitero. Una testimonianza necessaria anche se rimane il più delle volte implicita, poiché tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale esiste un rapporto di immanenza reciproca, che scaturisce dalla «communio»[14].

Si tratta tuttavia di una testimonianza di fede che, pur avendo una sua autonomia propria, perché ha come fondamento il battesimo, non ha la pretesa di porsi come partecipazione alla «sacra potestas» del ministero episcopale o sacerdotale, che hanno il loro fondamento, non nel battesimo, bensì nell’ordine sacro.

È una partecipazione, non al sacramento dei ministri ordinati, ma alla responsabilità globale, incombente a tutti i fedeli laici, per la edificazione della Chiesa. Ciò dipende dal fatto che il battesimo, e perciò il sacerdozio comune con il «sensus fidei», è costitutivo della istituzione della Chiesa, anche se in modo essenzialmente diverso dal sacramento dell’ordine.

Non si traduce perciò dal profilo giuridico, cioè all’interno delle strutture di partecipazione, come voto deliberativo, bensì come voto consultivo, poiché il voto deliberativo presuppone la capacità di dare una testimonianza sulla fede, vincolante per tutti. Una capacità che è esclusivamente legata al possesso della pienezza dell’ordine sacro e della “potestas sacra” conferita dallo stesso, cioè del ministero episcopale.

 

 

[1] Cfr. il discorso di Papa Giovanni Paolo II ai Cardinali e alla Curia Romana del 21 dicembre 1984, in cui si afferma: “V’è infatti tra le singole Chiese particolari un rapporto ontologico di vicendevole inclusione: ogni Chiesa particolare, in quanto realizzazione dell’unica Chiesa di Cristo, è in qualche modo presente in tutte le Chiese particolari, “nelle quali e dalle quali ha la sua esistenza la Chiesa cattolica, una ed unica (LG 23)””, citato da La Traccia, L’insegnamento di Giovanni Paolo II, 11 (1985), 1429-1435.

[2] Per una valutazione teologica globale di tutta la questione, cfr. E. Corecco, Sinodalità, in: Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di G. Barbaglio-S. Dianich, Roma 1982, 1466-1494.

[3] Cfr. D. Pirson, Personalität und Kollegialität des kirchlichen Amtes, in: ZevKR, 19 (1974), 337-355.

[4] Cfr. M. Philippon, La Santissima Trinità e la Chiesa, in La Chiesa del Vaticano II, diretto da G. Baraúna, Firenze 1965, 327-350; E. Zoghby, Unità e diversità della Chiesa, in ibidem, 522-540.

[5] Cfr. E. Corecco, La sacra potestas e i laici, in: Studi Parmensi, Milano, 28 (1980), 3-36.

[6] Sul problema del rapporto Chiesa universale e Chiesa particolare cfr. J. Ratzinger, Probleme und Hoffnungen des anglikanisch-katholischen Dialogs, in: IKZ Communio 12 (1983), 244-259.

[7] Sul punto, cfr. G.P. Milano, Il Sinodo dei Vescovi, Milano 1985, p. 286 s.

[8] Cfr. E. Corecco, I laici nel nuovo Codice di diritto canonico, in: Sc.Catt. 112 (1984), 194-218.

[9] Cfr. W. Aymans, Kirchliches Verfassungsrecht und Vereinigungsrecht in der Kirche, in: OAfKR 32 (1981), 79-100.

[10] Cfr. L. Gerosa, Die Pfarrei als ein Grundtyp der eucharistischen Gemeinde, in: TrThZ 98 (1989), 297-310.

[11] Su tutta questa questione cfr. E. Corecco, Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale?, in: Strumento Internazionale per un Lavoro Teologico: Communio 1 (1972), 32-44.

[12] Il voto consultivo dei laici non può essere equivocato come fa A. Acerbi (L’ecclesiologia sottesa alle istituzioni ecclesiali post-conciliari, in: L’Ecclesiologia del Vaticano II, o.c., 226-228) come semplice “aiuto” prestato ai ministri ordinati. La funzione del sacerdozio comune e del sensus fidei non è quella di aiutare il sacerdozio ministeriale, ma di esprimere la propria testimonianza e la propria opinione sulla fede e sulla disciplina ecclesiale.

[13] Per un’analisi dell’evoluzione storica della nozione di partecipazione politica, cfr. A. Savignano, Art. Partecipazione, in: EDD, vol. 32, Milano (1982), 1-14.

[14] A tale proposito cfr.: E. Corecco, Riflessione giuridico-istituzionale su sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, in: Popolo di Dio e sacerdozio. Atti del IX Congresso nazionale dell’ATI, Padova 1983, 80-120; E. Corecco, Natura e struttura della “sacra potestas” nella dottrina e nel nuovo Codice di diritto canonico, in: Strumento internazionale per un lavoro teologico: Communio 75 (1984), 24-52.

 

 

5. Articolazione della sinodalità nelle Chiese Particolari

 

Abbiamo compiuto insieme, in queste giornate congressuali, un itinerario scientifico molto stimolante, incentrando la nostra attenzione su un elemento essenziale della vita della Chiesa.

Anche se i nostri lavori non sono stati introdotti dalle relazioni storiche, mi sembra che un itinerario retrospettivo sul Congresso, con l’intento di raccogliere qualche elemento di riflessione, esiga di tener conto con priorità logica dell’analisi storica.

È stata un’analisi sufficientemente ampia, che tuttavia ha messo in risalto l’impossibilità di inquadrare, in un omogeneo impianto dottrinale e sistematico, le molteplici espressioni del principio sinodale, emerse nel corso di quasi due millenni.

Oggi tuttavia i tempi sembrano maturi per osare un approccio dottrinale complessivo al fenomeno della sinodalità. Ciò è tanto più necessario perché, senza un’ipotesi dottrinale valida, anche la lettura della storia diventa ardua, soprattutto se lo scopo non fosse solo quello di raccogliere informazioni, ma anche di distinguere, nella molteplicità fenomenologica dell’attività sinodale, gli elementi che appartengono alla caducità del tempo, da quelli che appartengono alla sostanza della tradizione ecclesiale. Non è forse stato Yves Congar che, proprio da Parigi, ci ha esortati a saper distinguere tra «Les traditions et la Tradition de l’Eglise» ?

Il Congresso ha certamente operato in tale direzione; tuttavia la diversità delle opinioni emerse mi invita a proporre un modello dottrinale-interpretativo, prendendo spunto dall’ambiguità in cui si dibatte l’istituto delle Conferenze Episcopali.

Esse infatti sembrano mettere in crisi la nozione stessa di sinodalità, proprio nel momento in cui stanno ponendo la Chiesa latina, per la prima volta nella sua storia, in una situazione di sinodalità permanente.

L’enorme sviluppo dell’attività sinodale rischia, infatti, di offuscare la vera identità e responsabilità del vescovo.

Il legislatore canonico, forse avvertendo queste difficoltà e nel tentativo di conciliarle, ha cercato di risolvere il problema in termini programmatici, facendo ricorso al sistema del “catalogo” delle competenze.

Il presupposto di questo catalogo è la presunzione giuridica, secondo cui al vescovo rimangono tutte quelle competenze che non sono state attribuite alla Conferenza. Tuttavia, la prassi dimostra che le Conferenze, spinte dalle circostanze, sono sempre più inclini ad estendere di fatto, ma con autorità praticamente vincolante, l’ambito delle loro attribuzioni ben oltre i confini fissati dal diritto comune.

La formula del “catalogo”, oltre a diventare, di fatto, sempre meno affidabile, ignora la realtà teologica in quanto tale, soggiacente al fenomeno della sinodalità. In effetti, non sembra tener conto della identità ecclesiologica esistente, in linea di principio, tra l’istituto delle Conferenze Episcopali e quello dei Concili particolari, i quali godono di una competenza generale.

Possiamo fare astrazione, in questo contesto, della diversità di struttura, comunque esistente tra le Conferenze e Concili particolari, emergente nel fatto che le Conferenze sono rette dal principio democratico e non da quello gerarchico. In esse manca il «protos» strutturale, la cui necessità è stata, giustamente, messa in evidenza in questo Congresso, almeno in rapporto alla tradizione ortodossa, con la sottolineatura del nesso stringente esistente tra il principio sinodale e la celebrazione dell’Eucaristia; cioè tra la struttura sinodale della Chiesa e il Sacramento.

La soluzione pragmatica scelta dal diritto comune latino non è in grado di risolvere la latente antinomia esistente tra le Conferenze e i Concili particolari, per cui, a lungo andare, è destinata all’insuccesso, poiché: elude il problema alla sua radice : quella della natura ecclesiologica della sinodalità.

Per affrontare questo problema si offrono due strade: quella di derivare la sinodalità primariamente, dalla «communio Ecclesiarum», oppure quella di derivarla, primariamente, dal Sacramento dell’ordine.

La prima opzione ha come conseguenza logica quella di negare il carattere sinodale, sia all’attività del Sinodo dei Vescovi, sia all’attività del Presbiterio, poiché né l’una né l’altra sono espressioni sufficienti e vere della “communio Ecclesiarum”,.

In questo modello le due forme di attività, nel Sinodo dei Vescovi e nel Presbiterio, sono ridotte, come abbiamo affermato in questo Congresso, al rango di «Konsiliarität» cioè di “consiliarità”, in cui i soggetti operanti, i vescovi e i presbiteri, non agirebbero formalmente in forza del Sacramento dell’ordine sacro.

La seconda opzione mette al centro il Sacramento dell’ordine, giustificando tutta la realtà ecclesiale – e perciò anche la sinodalità – a partire dalla natura intrinseca del Sacramento, il quale ha, come unico referente reale, la persona del fedele.

Poiché la Chiesa non è ipostatizzabile come realtà astratta, non può neppure essere considerata come soggetto dal quale derivano i Sacramenti. Poiché non esiste nessuna realtà ecclesiale se non perché esistono persone configurate a Cristo, attraverso la ricezione dei sacramenti, bisogna concludere che l’unica opzione ecclesiologica corretta è quella espressa nel principio «Ecclesia a sacramentis», e non invece in quello «Sacramenta ab Ecclesia».

Partendo da questo principio, anche la sinodalità può essere affrontata correttamente solo come dimensione inerente al Sacramento dell’ordine.

È in forza del fatto che tutti i vescovi sono consacrati nell’unico e stesso Sacramento, che nasce un rapporto essenziale di sinodalità.

Il fenomeno è parallelo a quello che si verifica a livello della Chiesa in quanto tale. Non esiste infatti una Chiesa universale ed una Chiesa particolare, come se esse si materializzassero in entità concrete distinte. Esiste invece l’unica Chiesa di Cristo, che si realizza secondo due dimensioni: quella particolare e quella universale. Parallelamente, esiste un unico Sacramento dell’ordine, che conferisce il ministero ecclesiale segnato da una duplice dimensione, una personale, e perciò particolare, ed una universale.

La dimensione universale della Chiesa nasce dal fatto che esiste, necessariamente, una pluralità di vescovi, cioè, una pluralità di singole persone investite dello stesso e unico Sacramento. Questa molteplicità dei vescovi non deriva dal mero fatto che un vescovo può conferire il suo Sacramento ad altri fedeli, bensì dal fatto che Cristo, nella sua unicità, può essere adeguatamente reso presente, quale capo della Chiesa, solo da una molteplicità di persone: gli apostoli e i vescovi.

Questa molteplicità spiega l’esistenza delle Chiese particolari cioè della «communio Ecclesiarum» e della sua necessità quale elemento costitutivo della sinodalità.

Tuttavia, è altrettanto vero che Cristo può essere rappresentato solo dalla singola persona fisica, cioè, nel caso specifico, dal vescovo, e non, invece, dal Collegio dei vescovi in quanto tale. La teologia, infatti, non ha mai affermato che il Collegio dei vescovi (con il Papa) rappresenta Cristo, bensì che il Collegio rappresenta la Chiesa.

La «communio Ecclesiarum» è una derivazione, sia pure necessaria, del fatto che solo la persona singola del vescovo può rappresentare Cristo, come capo della Chiesa, e che Cristo ha istituito una pluralità di Apostoli e di vescovi per farsi adeguatamente rappresentare. Ciò avviene a imitazione del modello trinitario, dove l’unico Dio si consustanzia nelle Tre Persone.

La sinodalità è perciò una dimensione derivata, benché necessaria, dalla dimensione e responsabilità personale del vescovo, primariamente inerente al Sacramento dell’ordine.

Il vescovo rappresenta in sé tutti gli altri vescovi perché da solo rappresenta già Cristo e quindi rappresenta anche il Collegio episcopale. Infatti la pluralità dei vescovi, e perciò la «communio Ecclesiarum», non aggiungono nulla, dal profilo materiale e dei contenuti, al ministero del vescovo e alla Chiesa particolare che ha in se stessa la pienezza sacramentale e perciò della salvezza.

La pluralità delle Chiese particolari che si costituiscono attorno ai vescovi, non è necessaria, infatti, per realizzare la comunione con Dio in quanto tale, valore primario della salvezza ma è necessaria per realizzare la comunione tra i vescovi e perciò tra le Chiese particolari.

La comunione tra gli uomini dipende e deriva dalla comunione di ciascuno con Dio. La necessità della comunione tra i vescovi, e perciò tra le Chiese particolari, ha solo la funzione di dare la garanzia della verità e autenticità della comunione con Dio, sia del singolo vescovo sia delle singole Chiese particolari. La struttura del supremo comandamento cristiano, quello della carità, cioè di amare Dio e di amare, di conseguenza, anche il prossimo, regge tutta la struttura della Chiesa, che è appunto una struttura di comunione.

Come la Chiesa universale esiste solo in quanto esiste la Chiesa particolare (in cui si realizza «in quibus» e da cui si costituisce «ex quibus»), così, anche il Collegio dei vescovi esiste solo in forza del fatto che esistono i singoli vescovi. La salvezza, infatti, può realizzarsi solo nella Chiesa particolare, poiché è solo nella Chiesa particolare che i Sacramenti e la Parola sono celebrati.

Il sacramento dell’ordine è il presupposto dell’esistenza della dimensione sinodale. La sinodalità risulta perciò derivata dalla dimensione primaria dell’ordine sacro, quale responsabilità, incombente al vescovo, di garantire la comunione con gli altri vescovi, per garantire la salvezza stessa nella sua Chiesa particolare.

Il carattere derivato della sinodalità emerge anche dal fatto che la sinodalità, in senso stretto, si realizza solo a livello dell’annuncio della Parola non a quello della celebrazione del Sacramento. Infatti, il Sacramento può, essere celebrato dal vescovo solo personalmente.

In questo senso la distinzione tra atti collettivi e paralleli è corretta, pur ammettendo che, data la loro natura giuridica ecclesiale e non civilistica, si realizzano all’interno di una realtà di natura ecclesiale e perciò in un contesto di sinodalità, sia pure intesa in «sensu non strictu».

Per contro, la sinodalità può realizzarsi in «sensu strictu» a livello della Parola, anche se l’annuncio, fatto sinodalmente, non aggiunge nulla al contenuto della Parola stessa. La Parola pronunciata dal vescovo e la Parola pronunciata dal Collegio episcopale (o dal Papa solo) possono, infatti, avere lo stesso ed identico contenuto. La sinodalità aggiunge solo un elemento formale.

L’annuncio sinodale o atto sinodale (o collegiale «sensu strictu») conferisce alla Parola del singolo vescovo soltanto un maggior grado di forza vincolante.

Mentre il Sacramento, quando è celebrato correttamente dal profilo materiale del rito, è sempre uguale a se stesso e si ripete in modo uguale in tutte le Chiese particolari ed ha dunque, nella Comunione cattolica, un identico grado di vincolatività, la Parola è, invece, facilmente soggetta a differenti gradi di espressione e di interpretazione della verità. Ne consegue che solo l’annuncio della Parola, espresso a livello dell’universalità cattolica, può costituire il criterio ultimo della sua verità intrinseca[1].

Alla luce di queste considerazioni deve essere giudicata anche la sinodalità a livello dei Concili particolari e delle Conferenze dei vescovi.

È evidente che l’esistenza della sinodalità a livello delle Conferenze dei vescovi non deriva dalla collegialità o sinodalità del Collegio universale dei vescovi, bensì dalla dimensione sinodale inerente al singolo ministero episcopale. Le Conferenze dei vescovi non partecipano alla sinodalità del Collegio universale, ma realizzano una sinodalità, propria, in forza del Sacramento dell’ordine ricevuto dai singoli vescovi. Sarebbe più corretto definirla come sinodalità particolare, piuttosto che sinodalità parziale.

È quindi scorretto qualificare la natura della sinodalità, a livello delle Conferenze dei vescovi, a partire dalla estensione dei poteri da esse esercitati. Anche se avessero competenze generali, la natura teologica delle Conferenze non muterebbe.

Tenendo conto, tuttavia, della primarietà della dimensione personale del Sacramento dell’ordine, rispetto a quella derivata dalla sinodalità, si deve concludere che, per preservare la figura del vescovo da ogni riduzione, un’ulteriore dilatazione, sia della frequenza, sia delle prerogative delle Conferenze episcopali, potrebbe giustificarsi solo se si introducesse nelle Conferenze il principio della unanimità per le sue delibere.

Infatti, soltanto l’unanimità potrebbe compensare in parte la mancanza della nota dell’universalità. Ma, appunto, la potrebbe compensare solo in parte, poiché l’universalità, soprattutto a livello dell’esercizio della Parola, può essere garantita solo dal Collegio universale dei vescovi o dal Papa.

Le pronunce dottrinali delle Conferenze, decise all’unanimità, impegnerebbero ogni vescovo, ma solo interlocutoriamente, poiché solo il Magistero universale li può vincolare definitivamente.

La prova che la sinodalità deve essere giustificata primariamente a partire dalla struttura del Sacramento dell’ordine, e non dalla «Communio Ecclesiarum» è data anche dal fatto che il Sacramento dell’ordine porta, in se stesso, un’altra valenza pluridimensionale.

Il Sacramento dell’ordine è sinodale non solo nella sua proiezione universale, ma anche nella sua peculiarità personale e perciò particolare.

Infatti, dalla pienezza episcopale del Sacramento dell’ordine deriva, necessariamente, il grado sacramentale del presbiterato. Si tratta di una differenza solo di grado, non di qualità, come invece quella esistente tra il battesimo e l’ordine.

Prescindiamo in questa sede dal problema del diaconato.

Il vescovo, concettualmente, non esiste da solo, ma soltanto assieme al collegio dei presbiteri. Questi ultimi, tuttavia, non avendo la pienezza del sacramento, non sono in grado di rappresentare, nella sua totalità, la Chiesa universale, cioè la «Communio Ecclesiarum».

La ragione ecclesiologica profonda dell’esistenza del collegio presbiterale, con il vescovo, risiede nel fatto che la Chiesa universale non potrebbe realizzarsi (con la sua struttura sinodale) nella Chiesa particolare, se quest’ultima le fosse strutturalmente eterogenea, se non avesse, cioè, a sua volta, una struttura sinodale, ma fosse retta, monisticamente solo dal vescovo.

Il carattere sinodale della Chiesa particolare, tuttavia, deriva come tale dalla natura stessa del Sacramento dell’ordine, che si realizza secondo tre gradi diversi: l’episcopato, il presbiterato e il diaconato.

Se si prescinde dal problema del diaconato, si deve perciò constatare che il ministero sacramentale del vescovo si apre, intrinsecamente, secondo una duplice dimensione sinodale, quella universale e quella particolare.

Il ministero del presbitero, per contro, non realizzando la pienezza dell’ordine sacro, si apre intrinsecamente solo verso una sinodalità interna alla Chiesa particolare. Non è possibile perciò negare il carattere sinodale del rapporto dei presbiteri con il vescovo e viceversa perché questa sinodalità è inerente alla natura stessa del Sacramento dell’ordine.

Essendo il presbiterato una partecipazione di grado inferiore alla pienezza del ministero sacramentale del vescovo, non ha in se stesso una valenza universale, poiché non è in grado di rappresentare la Chiesa particolare in seno alla Chiesa universale. Rimane subordinato al vescovo, il quale emerge come capo del presbiterio in modo sacramentalmente più forte dello stesso Papa in seno al Collegio dei vescovi.

Dal fatto che il presbiterato non è autonomo nella sua sacramentalità, ne consegue che i presbiteri non sono legati tra di loro da un rapporto di sinodalità, a livello della Chiesa universale. Il collegio dei presbiteri della Chiesa universale non esiste, poiché il rapporto con la Chiesa universale, cioè con il Collegio dei vescovi, si realizza solo indirettamente, attraverso la mediazione del vescovo stesso.

Precisati i fondamenti sacramentali della sinodalità episcopale e presbiterale, rimane il problema della sua eventuale realizzazione a livello dei fedeli laici. È ancora una volta la struttura intrinseca del Sacramento in quanto tale che risolve il problema.

Il punto ineludibile di riferimento è l’affermazione della LG 10, secondo cui esiste una diversità di essenza tra il sacerdozio comune (o personale) e quello ministeriale. Questa diversità ha origine nel fatto che il Sacramento del battesimo e quello dell’ordine sono due modalità diverse di partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo. Infatti, il Sacramento dell’ordine non è una derivazione del battesimo, e il battesimo non è una partecipazione al sacramento dell’ordine. Si tratta di due partecipazioni autonome al sacerdozio di Cristo, anche se il battesimo è il presupposto per ricevere l’ordine e continua a sussistere in chi riceve l’ordine sacro.

Se questa diversità ha conseguenze a livello del coinvolgimento dei fedeli laici nell’edificazione responsabile della Chiesa, l’immanenza del sacerdozio comune o personale, nei ministri ordinati, significa che esiste un legame sacramentale che accomuna laici e chierici nella responsabilità di fronte alla Chiesa.

Voler definire questo legame come sinodalità significherebbe però conferire un significato essenzialmente diverso e perciò eterogeneo alla nozione di sinodalità e creare confusione teologica. Se è vero che i laici sono membri del sinodo diocesano, ciò non significa che l’istituto del sinodo diocesano, in quanto tale, possa conferire una dimensione sinodale al laicato, poiché non può mutare la natura e la finalità del Sacramento del battesimo, rendendolo partecipe alla natura e alla finalità del Sacramento dell’ordine.

È stato usato, dal Prof. Aymans, il termine di «Konsiliarität» cioè consiliarità; forse potrebbe essere recuperata per definire il rapporto del sacerdozio comune (o personale) con quello ministeriale e, di conseguenza, la natura della partecipazione dei fedeli laici alle strutture sinodali.

Il fatto che, sia i presbiteri che i fedeli laici godano nel sinodo diocesano di voto solo consultivo non deve trarre in inganno, perché al di là della capacità tecnica dell’ordinamento canonico di definire con più precisione la modalità specifica del voto dei presbiteri e dei laici, la loro posizione ecclesiologica all’interno del sinodo diocesano rimane, nella sua essenza, diversa.

Anche il fatto che il canone 466 definisca il vescovo come unico legislatore non può essere interpretato positivisticamente nel senso che nell’ambito non legislativo del sinodo diocesano i presbiteri e i fedeli laici godano nei confronti del vescovo di una posizione sinodalmente diversa e più forte. La legge canonica è una «ordinatio fidei». Questa ordinatio non si traduce solo in norme giuridicamente vincolanti. Sono una «ordinatio» tutti gli interventi che regolano, a partire dalla fede, la vita della Chiesa a livello non solo legislativo, ma anche pastorale.

La responsabilità nella Chiesa è sempre soggiacente al giudizio di fede, che diventa vincolante per tutti, e non solo per singoli o una parte dei fedeli, solamente quando è sanzionato dalla «sacra potestas», cioè dal ministero ordinato.

Cari colleghi, mi sono permesso di sottoporre alla vostra attenzione alcune riflessioni, suggeritemi dai lavori di questo Congresso.

Oltre a non avere assolutamente la pretesa di essere una sintesi delle numerosissime relazioni, il mio intervento non ha, con tutta evidenza, neppure quella di essere, in quanto tale, la parola del Presidente, ma semplicemente l’opinione di un membro della «Consociatio».

Come Presidente, invece, non dubito di interpretare l’unanime sentimento nell’esprimere un giudizio molto positivo sulla qualità scientifica del nostro Congresso, che ancora una volta ha confermato l’alto livello dottrinale dei nostri, periodici e frequenti, incontri.

Ancora più certo di interpretare il pensiero di tutti, sento il dovere di esprimere il nostro plauso e il nostro ringraziamento al Prof. Patrick Valdrini, anima operativa e infaticabile di questo VII Congresso Internazionale.

Profonda riconoscenza dobbiamo anche al Magnifico Rettore dell’«Institut Catholique», il Prof. Paul Guiberteau, che, con tanto entusiasmo, ha assecondato, fin dal primo momento, la nostra iniziativa di venire a Parigi e ha permesso di realizzarla.

Un grande grazie anche a tutte le organizzazioni e a tutti gli enti ecclesiali e civili che, a vario titolo, hanno contribuito a rendere finanziariamente possibile lo svolgimento del Congresso.

Ma, come dimenticare tutte quelle persone del Comitato organizzatore e della Segreteria, che, quotidianamente, hanno praticato nei nostri confronti la più squisita ospitalità e attenzione, soddisfacendo ogni nostra esigenza ?

Concludiamo oggi un Congresso Internazionale che fa onore oltre che all’«Institut Catholique» anche al nostro sodalizio e che senza dubbio rimarrà iscritto a caratteri d’oro nella memoria della nostra «Consociatio».

 

 

[1] Per ulteriori precisazioni sulla communio quale criterio che determina l’efficacia stessa dei Sacramenti e della Parola, cfr. E. Corecco, Natura e struttura della Sacra potestas nel nuovo Codice di Diritto Canonico, in: Communio 75 (1984), 24-52.