6. La rinascita dell’Azione Cattolica Diocesana

Dopo anni di assenza operativa dell’Azione Cattolica Diocesana, il Vescovo Eugenio Corecco rifonda l’Associazione durante un Congresso a Lugano, 8 Ottobre 1989

1. Un Congresso di verifica
Il presente Congresso non è stato voluto per compiere un atto celebrativo. È un Congresso di verifica. Intende appurare se in Diocesi, oltre al desiderio e magari alla nostalgia, esiste anche una reale determinazione di far rifiorire l’albero ultracentenario dell’Azione Cattolica.
Il primo atto costitutivo dell’Azione Cattolica (=AC) risale al 2 maggio 1868, quando Pio IX approvò lo Statuto in 37 articoli della Società della gioventù cattolica, costituitasi a Bologna alcuni mesi prima per iniziativa di due giovani, Mario Fani di Viterbo e Giovanni Acquaderni di Bologna.
La proposta lanciata con il loro appello era stata quella di federare, a livello nazionale, tutta la realtà della gioventù cattolica. 53 In quel momento le nostre Parrocchie ticinesi appartenevano ancora alle Diocesi italiane di Como e Milano.
Lo spiccato carattere laicale di quel primo nucleo della moderna AC risulta chiaramente dal confronto con le molteplici forme di aggregazione di fedeli, fiorite fino allora anche in Italia, per iniziativa soprattutto di preti o religiosi e dal suo ruolo svolto nella formazione del cosiddettoMovimento cattolico, in sintonia con il Movimento di riorganizzazione dei cattolici, manifestatosi in Europa nella seconda metà del secolo scorso.54
Il legame con la Gerarchia -lo vedremo meglio inseguito- è un dato peculiare dell’AC e fu particolarmente intenso sin dal suo primo sorgere.
La sua originalità rispetto agli altri gruppi, leghe, associazioni, e Congressi, nazionali o internazionali, fu tuttavia la sottolineatura di una sostanziale “autonomia” del laicato. L’organizzazione del laicato su queste basi si dimostrò capace, infatti, di esprimersi, con spirito di iniziativa, di responsabilità e di creatività che, pur non assumendo ancora le caratteristiche dottrinali del Concilio Vaticano II, ha segnato profondamente, con la sua intensa prassi, tutta un’epoca che ha posto, di fatto, le premesse per gli sviluppi ecclesiologici avvenuti ad opera del Concilio stesso.
L’idea di procedere a questa verifica, con l’intento e la speranza di rinnovare lo slancio missionario di tutta la nostra Chiesa particolare, è nata da alcune convinzioni profonde, maturate in questi tre anni di episcopato.
Prima di tutto, la constatazione che una larga proporzione degli adulti, maturi o anziani, ancora regolarmente presenti alle nostre celebrazioni liturgiche domenicali, o agli appuntamenti diocesani, quali i consueti pellegrinaggi, oppure l’apertura e la chiusura dell’Anno Mariano, si è formata tra le fila dell’AC.
Tale constatazione solleva immediatamente una duplice domanda: come riuscire a dare oggi un’analoga salda formazione cristiana alle generazioni più giovani, quelle che si sono disgregate, perché sprovviste di un giudizio di fede e di una pratica religiosa di fronte al dilagare della cultura laicista e consumistica o di fronte all’irruenza ideologica del ‘68?
È possibile, nella Chiesa contemporanea, riformulare un itinerario educativo specifico dell’AC, avente finalità e metodi propri, malgrado la presenza di altre proposte educative forti, come quelle dei nuovi movimenti ecclesiali, nate dal carisma particolare dei loro fondatori?
In secondo luogo, la convinzione, acquisita in seno alla Chiesa universale, dell’insostituibile responsabilità di cui sono investiti i laici nell’edificazione della comunità ecclesiale: «Nelle circostanze attuali – afferma la Christifideles laici (n. 27) – i fedeli laici possono e devono fare moltissimo per la crescita di un’autentica comunione ecclesiale all’interno della loro Parrocchia e per ridestare lo slancio missionario verso i non credenti e verso gli stessi credenti, che hanno abbandonato o affievolito la pratica della vita cristiana”.
Il fedele laico, uomo o donna che sia, è responsabile dell’edificazione della comunione ecclesiale, né più né meno dei fedeli chierici e religiosi. Diversa è solo la modalità specifica di espressione di questa comune responsabilità nell’edificare il Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa.
L’AC è un’associazione laicale e, come tale, deve ritrovare il suo posto esatto all’interno della “nuova stagione associativa” conosciuta dalla Chiesa contemporanea, dopo il Concilio Vaticano II, superando eventualmente qualsiasi atteggiamento di “rivalità”, di “monopolio” o di “esclusione” nei confronti delle altre forme associative, aventi pedagogie diverse.
Che l’AC avesse, e non ha perso, la sua legittimità ad esistere, l’aveva già sottolineato papa Paolo VI, quando non esitò ad affermare che l’AC, grazie alla sua storia, è inserita dal Concilio, con la forza che le viene dalla sua lunga esperienza, nel «disegno… e nel programma operativo della Chiesa».55 Più che un giudizio storico, questo è un giudizio di valore. Vale di conseguenza anche per la nostra Diocesi, dove l’AC vanta una grande tradizione.
La terza convinzione ricomprende le prime due, in un orizzonte più vasto e più fondamentale: è la convinzione profonda ed acuta che urge rievangelizzare la nostra società.
«L’ora è venuta – scrive papa Giovanni Paolo II nella Christifideles laici (n. 34) – per intraprendere una nuova rievangelizzazione. Tanti Paesi e Nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dare origine a comunità di fede vive ed opero- se (come nelle nostre terre ticinesi), sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei Paesi e delle Nazioni del cosiddetto Primo mondo…”, dove la vita “è vissuta come se Dio non esistesse. Ora, l’indifferenza religiosa e la totale assenza di significato di Dio per i problemi pratici, ma anche gravi, della vita degli uomini e delle donne non sono meno preoccupanti ed erosivi dell’ateismo dichiarato. Ne va di mezzo la bellezza e l’umanità della vita di questi uomini e di queste donne. Per questo urge rifare il tessuto cristiano della società umana».
La condizione, per Giovanni Paolo II, è chiara, è che si rifaccia prima di tutto “il tessuto delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi Paesi e in queste Nazioni”.
Questo grido di allarme e la consegna data a tutta la Chiesa, alla soglia del terzo millennio, di rievangelizzare la società moderna, non sono – come potrebbero pensare molti scettici – un fatto nuovo nella storia della Chiesa. È una missione che già sessant’anni or sono papa Pio XI aveva affidato proprio all’AC come obiettivo specifico, con toni magari meno drammatici di quelli attuali.56Certo, le ristrutturazioni statutarie date all’AC nei primi decenni del secolo, in vista di tale compito, non erano scevre da implicazioni politiche; in un primo tempo quella legittimista di sostegno del Papa nella “questione romana”; poi, quella di resistenza al potere fascista, incapace di tollerare qualcosa di “diverso”, di “altro” da sé.
Tuttavia, è altrettanto vero che in questo “progetto storico” di papa Pio XI di creare, attraverso l’AC, una presenza critica dei cristiani in seno alla società civile e politica, egemonizzata dalla cultura laicista ed anticlericale, la componente religiosa è sempre stata preminente.57
Lo specifico dell’AC è sempre stato, in primo luogo, quello dell’azione evangelizzatrice, da svolgere, per incominciare, all’interno della Chiesa stessa.
Il programma della nuova evangelizzazione su scala nazionale della società italiana, proposto da Pio XI, aveva assunto il linguaggio caratteristico dell’epoca. Assieme all’idea di “diffondere il Regno di Dio là dove non era stato predicato” appare anche quella di “riparare alle perdite nel Regno già conquistato”.
Oggi, siamo ben lontani dal riproporre con gli stessi termini di allora il compito della nuova evangelizzazione della società. Non si tratta di riconquistare posizioni perdute, bensì di riproporre Cristo al mondo, nella coscienza che il compito fondamentale del cristiano è quello di dare al mondo questa testimonianza.58
Del resto, della situazione religiosa attuale è responsabile, assieme a cento altri fattori, anche l’involuzione conosciuta un po’ ovunque da quel tipo di AC, sintetizzata, in modo emblematico, dalle sorti subite dall’AC francese specializzata.
Un acuto osservatore ha infatti fatto notare che l’AC francese, dopo essere partita da un’enfatizzazione della propria fierezza, è passata, successivamente, dall’idea di conquista del mondo a quella dell’apostolato; dall’apostolato è passata poi alla testimonianza, dalla testimonianza alla presenza nella società e, dalla presenza, al semplice ascolto degli altri.59
Questa posizione di semplice ascolto nei confronti della società e della sua cultura ha suggellato, nell’AC di quegli anni, una progressiva perdita di identità e di capacità propositiva.
Il problema attuale, perciò, non può essere primariamente quello di riorganizzarsi, perché l’inquadramento organizzativo dei fedeli non è mai in grado di supplire alla loro mancanza di fede. Questa conferma ci è data dalle crisi conosciute dall’AC a partire dagli anni ‘60. nonostante l’ipertrofia organizzativa cui era arrivata.
La nuova evangelizzazione, cui oggi l’AC è chiamata a dare il proprio contributo, deve essere pensata prima di tutto come attività pastorale orientata a proporre una conversione personale degli uomini a Cristo, nella fede. Questa proposta di conversione delle persone può avvenire solo se nasce da una testimonianza comune dei cristiani e perciò da un soggetto che gode di un minimo di organicità, dal profilo organizzativo.
L’organizzazione si legittima solo come postulato di quella comunione ecclesiale, che dovrebbe esistere tra i fedeli, dopo aver acquisito la consapevolezza che il loro destino in Cristo è comune.  «Ora i fedeli laici – afferma ancora la Christifideles laici – in forza della loro comune partecipazione all’ufficio profetico di Cristo, sono pienamente coinvolti in questo compito della Chiesa». Ad essi tocca in modo particolare testimoniare – a partire dalla propria esperienza personale – che «…tutti gli sforzi che l’umanità va compiendo… trovano piena risposta nell’intervento di Gesù Cristo, Redentore dell’uomo e del mondo».60
Ciò è possibile, afferma ancora l’Esortazione apostolica Christifedeles laici (n.34), riecheggiando laGaudium et spes del Concilio e la Evangelii nuntiandi di Paolo VI, solo se i fedeli laici sapranno superare in se stessi «la frattura tra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività, in famiglia, sul lavoro e nella società, l’unità della loro vita».61
Verificare in questo Congresso la possibilità di rilanciare quella forma specifica educativa del laicato, che p rende il nome di AC, non è velleitario, se tale verifica è compiuta tenendo presente le due linee evolutive, che nella Chiesa contemporanea hanno contribuito alla maturazione del laicato.
Innanzitutto la maturazione della teologia del laicato negli ultimi quarant’anni fino alla Christifideles laici; in secondo luogo la maturazione della coscienza di identità avvenuta proprio in seno all’AC italiana, che, oltre ad aver dimostrato la maggiore continuità in Europa, si offre, per ragioni storiche e culturali ovvie, come punto connaturale di riferimento per la nostra esperienza diocesana.

2. La definizione teologica del fedele laico
L’evoluzione della teologia del laicato degli ultimi quarant’anni è stata ampiamente descritta da molti autori negli anni immediatamente precedenti il Sinodo dei Vescovi del 1987, dedicato ai laici.62 Essa sembra essere entrata nella sua quarta fase.

1. La prima fase, quella di rottura, avvenuta nei confronti non tanto della prassi reale dell’AC precedente, quanto piuttosto con la teologia che l’aveva accompagnata, è generalmente fatta incominciare con l’apparizione quasi contemporanea di una serie di opere importanti: prima, del coraggioso volume di Yves Congar Jalons pour une théologie da laicat del 1953, seguito nello stesso anno in Italia dal libro di Spiazzi “La missione dei laici”; poi, un anno dopo, dal volume Le rôle du laicat dans l’Eglise, del Philips, uno dei futuri ispiratori più influenti dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II.
Pur partendo da premesse diverse, questi autori arrivano ad analoghe conclusioni, così sintetizzabili: il laico, da oggetto passivo di cura e cliente della Chiesa, diventa soggetto responsabile di apostolato.
La sua dignità e il suo ruolo scaturiscono dal Battesimo, che lo fa partecipe del triplice officio di Cristo, mentre il suo apostolato si esplicita specificatamente nell’ambito delle “realtà terrene”, in forza della sua “indole secolare”.
Questa teologia di rottura, ampiamente recepita dal Concilio Vaticano II, benché elaborata dai citati autori in polemica con le precedenti teorizzazioni dottrinali, affonda le sue radici sperimentali nella vastissima esperienza fatta dai laici in seno al “Movimento cattolico” europeo nella seconda metà del secolo scorso e, in particolare, nei ranghi dell’AC, strutturandosi secondo due moduli diversi.
Mentre l’Italia, seguita dall’Austria, dalla Polonia e dalla Spagna, ha organizzato l’AC in modo unitario secondo quattro pilastri, le donne, le ragazze, gli uomini ed i ragazzi, senza distinzioni di ceti, in Francia si è optato per il criterio dell’AC specializzata con un’organizzazione centrale comprendente, come in un cartello, tutte le componenti di categoria.

2. La seconda fase va dal Concilio fino all’inizio degli anni Settanta. È caratterizzata dall’urgenza, spesso più ideologica che teologica, di declericalizzare la Chiesa. La componente ideologica ha condotto inevitabilmente a conclusioni contraddittorie.
Infatti, furono proprio coloro che sostennero con più ardore il processo di declericalizzazione della Chiesa a teorizzare l’attribuzione ai laici di poteri liturgici e pastorali, così ampli, da creare l’illusione, avallata da Karl Rahner 63, di poter assistere alla nascita di un clero laico, sposato, parallelo a quello ordinato e celibe.
L’istanza di declericalizzazione della Chiesa, comprimendo il ruolo esorbitante del clero, è sfociata, per pena di trapasso, in una clericalizzazione del laicato, che disattendeva la sua “indole secolare”.
È contro questo sviluppo falsificante, sia la propria istanza iniziale, sia quella del Concilio, che interviene papa Giovanni Paolo II con il celebre discorso ai preti di tutta la Svizzera tenuto ad Einsiedeln il 15 giugno del 1984, durante il suo viaggio apostolico nel nostro Paese,64 nel quale mette in guardia di fronte al pericolo di una nuova clericalizzazione dei laici.
Il nocciolo della questione dottrinale sta, infatti, nella definizione della cosiddetta “indole secolare” del laico, concetto introdotto dalla Lumen Gentium (n. 31, 2).
L’indole secolare del laico è una dimensione sociologica, oppure teologica? In altri termini, il laico, a differenza del clero e dei fedeli consacrati, è “secolare”, perché vive ed opera, di fatto, nelle strutture del mondo e della società secolarizzata, oppure è “secolare” perché ha come compito primario quello di rappresentare, in veste di primo protagonista, la dimensione secolare di tutta la Chiesa?
Tutta la Chiesa come tale, infatti, ha una dimensione secolare. Non è una realtà soprannaturale che vive ed opera nel mondo come se fosse una sovrastruttura, ma è una realtà soprannaturale, che, vivendo ed operando nel mondo, assume tutta la natura intrinseca alle cose, così come è stata loro conferita dal Creatore.
La Chiesa, infatti, in forza del Battesimo, assume la persona, con tutte le esigenze della sua natura umana; il Battesimo informa ed investe le sue facoltà intellettive e volitive con la luce della fede; informa ed investe tutte le relazioni naturali, costitutive dell’uomo.
Tra queste relazioni naturali alcune sono fondamentali: la relazione sociale con gli altri uomini, fondata sulla libertà di scegliere il modo di organizzare la vita comune; la relazione uomo-donna, il cui esito naturale è il Matrimonio, che, in quanto istituto stabile ed orientato a garantire la continuità del genere umano, è antecedente al Sacramento stesso; la relazione con le cose, fondata sul diritto alla proprietà, tesa a garantire il sostentamento e l’autonomia della famiglia.
Il laico è il fedele che, vivendo fino in fondo questi rapporti naturali, di libertà, di fecondità sessuale e di proprietà patrimoniale, ricorrenti del resto in ogni cultura umana, dà loro un significato storico e salvifico diverso.
In altre parole il fedele laico è chiamato a trasformare o “trasfigurare” queste realtà naturali e terrestri, assumendo il compito di primo responsabile nei confronti di tutta la Chiesa e di rappresentare, perciò, tutti gli altri fedeli che, nella Chiesa, sono investiti di un compito primario diverso.
I chierici, chiamati, in forza dell’ordine sacro, prima di tutto a celebrare sia la Parola che i Sacramenti, ed a garantire, perciò, l’unità interna della comunità ecclesiale.
I fedeli consacrati, i quali, con la pratica dei consigli evangelici, che implicano la rinuncia a vivere secondo le t re relazioni naturali fondamentali, hanno il compito profetico di ricordare a tutti i cristiani che la Salvezza di Cristo non si realizza solo in questo secolo, ma si compie pienamente solo nella vita eterna.

3. La terza fase di evoluzione della teologia del laicato si sovrappone, cronologicamente, alla seconda e si protrae fino al Sinodo dei Vescovi sulla Vocazione e missione dei laici, del 1987. Questa fase di sviluppo è caratterizzata dalla riscoperta dei carismi e dei ministeri. Ciò induce molti teologi a definire il laico come soggetto portatore di carismi e di ministeri, essendo anch’esso, come i chierici e i religiosi, membro a pieno titolo della Chiesa, la quale ha nella sua totalità una dimensione carismatica e ministeriale.
Questo nuovo orientamento della teologia del laicato deve, però, fare i conti con un duplice insegnamento dogmatico del Concilio Vaticano II: sia con la dottrina che i carismi non sono elargiti dallo Spirito Santo solo a fedeli laici (Lumen Gentium, n.12,2); sia con l’affermazione secondo cui tra la dimensione ministeriale inerente al Battesimo, alla Cresima ed al Matrimonio, e quella specifica del Sacramento dell’Ordine, esiste una diversità non solo di quantità, ma di essenza, come insegna sempre il Concilio Vaticano II (Lumen Gentium, n.10,2).65
Se non si tiene conto di questi due punti fermi si arrischia di sovvertire la struttura fondamentale della Chiesa e di clericalizzare un’altra volta, in forme opposte, i fedeli laici. La coscienza di queste insidie dottrinali ha fatto sì che negli ultimi anni l’ardore per tali approcci teologici del laicato si placasse.

4. La quarta fase della teologia del laicato è iniziata con l’Esortazione apostolica Christifideles laici, promulgata quest’anno, ed ha portato alla chiarificazione di tre elementi fondamentali:
– il fatto che il fedele laico, come tutti gli altri fedeli, ha la vocazione di vivere tutta la sua nuova esistenza in Cristo;
– il fatto che questa vocazione è in funzione della missione di annunciare a tutti gli uomini che Gesù Cristo, Redentore dell’uomo, è il «centro del cosmo e della storia» (Redemptor hominis, n.1);
– il fatto, da ultimo, che il fedele laico, quale soggetto corresponsabile di questa missione universale nella Chiesa, deve assumerla secondo una modalità diversa, rispetto ai chierici ed ai religiosi: quella della secolarità.
Tale diversità si esprime nel fatto che il fedele laico vive la sua vocazione e la sua missione, arrischiando la propria libertà nella scelta della professione e dei mezzi per organizzare la propria vita sociale, culturale e politica; nell’assunzione del rapporto uomo-donna in vista della propria autorealizzazione e della continuità del genere umano; nel possesso dei beni della terra, in funzione della realizzazione di tutti questi compiti.
65 Cfr. pure PO 2.
Questi sono i termini positivi con cui il fedele laico deve essere definito, per prendere sul serio laChristifideles laici, che rinuncia a definire il fedele laico negativamente, solo come colui che non ha ricevuto l’Ordine sacro, ma lo definisce positivamente, affermando che l’indole secolare è una sua qualità peculiare e specifica, di natura non solo «antropologica e sociologica, bensì specificatamente teologica ed ecclesiale» (n.15).

3. La partecipazione del laico alla missione della Chiesa attraverso la vita associata
Fatte queste premesse teologiche sull’identità del fedele laico e sulla sua vocazione personale all’apostolato, secondo la dimensione della sua “indole secolare”, si pone il problema della natura e del senso della realizzazione comunitaria o associata di questa vocazione da parte dei fedeli laici.
Il tema particolare, che oggi ci sta più a cuore, infatti, è quello del significato dell’associarsi di fedeli laici secondo la modalità specifica dell’ “Azione Cattolica”. Come noto, l’AC è un’associazione laicale che storicamente e dottrinalmente si distingue dalle altre forme ecclesiali di vita associativa, non solo antiche, come ad esempio le confraternite, ma anche moderne, come per esempio i nuovi movimenti ecclesiali.
Premessa «assoluta necessità dell’apostolato della singola persona» (n.28), la Christifideles laiciafferma esplicitamente che «la comunione ecclesiale, già presente ed operante nell’azione della singola persona, trova una sua specifica espressione nell’operare associato dei fedeli laici, ossia nell’azione solidale da essi svolta nel partecipare responsabilmente alla vita e alla missione della Chiesa» (n.29).
Ciò significa che la pluralità di forme associative, caratterizzante la “nuova stagione aggregativa dei fedeli laici”, cui assistiamo, deve essere valutata in se stessa come un fatto estremamente positivo. Essa dimostra, inoltre, come la Chiesa, quando è docile all’azione dello Spirito Santo, sia capace di inserirsi con grande duttilità e creatività nel variegato tessuto sociale e culturale che la circonda.
È opportuno, prima di tutto, ricordare che il diritto dei fedeli di associarsi liberamente, ampiamente riconosciuto dal Vaticano II e dal nuovo Codice di diritto canonico (cann. 215 e 216), non è una concessione congiunturale e benevola dell’autorità ecclesiastica, per far fronte in modo più efficace alle sfide culturali e politiche del nostro tempo; non è neppure solo una conseguenza diretta della natura sociale dell’uomo.
Tale diritto scaturisce dal Sacramento del Battesimo e come tale ha presupposti teologici ed ecclesiologici precisi. Ne è prova il fatto che il Concilio Vaticano II definisce l’apostolato associativo dei laici come «segno della comunione e dell’unità della Chiesa in Cristo» (Aposto – licam actuositatem, (AA) n.29).
Tale diritto deriva non solo dalla libera volontà associativa, ma dall’urgenza intrinseca all’essere di ogni fedele, e dunque anche dei laici, di rendere più visibile ed operante la propria novità di vita cristiana nella comunione. Ciò spiega perché in molti casi, all’origine di un fenomeno di aggregazione ecclesiale, troviamo la forza ed il fascino di un carisma suscitato dallo Spirito Santo per una migliore edificazione della Chiesa di Cristo.66
Quando Pio IX nel 1869 ha costituito in associazione, denominandola Azione Cattolica, quella prima “Società di giovani cattolici”, sorta a Bologna per iniziativa di Mario Fani e Giovanni Acquaderni, non ha forse riconosciuto l’ecclesialità del carisma che li aveva spinti a lanciare l’appello a tutti i giovani cattolici italiani di aggregarsi su scala nazionale?
E chi potrebbe negare l’ispirazione particolare o il dono di un carisma al Servo di Dio Mons. Aurelio Bacciarini, quando decise, il 1° maggio del 1922, di inserire la formazione dei laici della nostra Diocesi nel grande alveo dell’AC italiana e della Chiesa universale?67
La vitalità autentica di una forma associativa ecclesiale, che nasca dalla forza aggregativa di un carisma originario o dall’attivazione pura e semplice del diritto di associarsi liberamente, si esprime nella capacità di adattare le proprie finalità ed i propri Statuti alle esigenze della storia.
L’ultracentenaria storia dell’AC italiana, cui sono legate più strettamente le vicende del laicato della nostra Diocesi, sono un modello emblematico di questa vitalità di riforma ed adattamento, al di là delle inevitabili contraddizioni.
Infatti, dal 1868, data convenzionale d’inizio, gli Statuti dell’AC hanno registrato ben otto riforme organizzative, spesso ispirate da risvolti teologici. Le grandi riforme strutturali che hanno dato un assetto centralizzante e più verticistico all’AC sono state quella del 1915, di papa Benedetto XV, e quella del 1923 di papa Pio XI.
Per ragioni congiunturali relative alla crisi con il regime fascista, Pio XI, oltre ad aver introdotto dal profilo teologico la nozione di “partecipazione all’apostolato gerarchico” e quella correlativa del “mandato”, ha provocato uno spostamento progressivo delle responsabilità di conduzione dai laici verso il clero. 68
La pronta restituzione della guida dell’AC ai laici, avvenuta subito dopo la guerra, nel 1946, fondata su un incondizionato riconoscimento della loro identità ecclesiale, ha anticipato, per contro, di almeno vent’anni i migliori testi del Concilio Vaticano II.
Nel discorso del 20 febbraio 1946, Pio XII – sia pure con un linguaggio che risente un poco della situazione post bellica – afferma, infatti, esplicitamente che: «…i fedeli, e più precisamente i laici, si trovano nelle prime linee della vita della Chiesa, per mezzo loro la Chiesa è il principio vitale della società umana. Essi quindi, essi soprattutto, debbono avere una coscienza sempre più chiara, non solo di appart enere alla Chiesa, ma di essere Chiesa… sono la Chiesa».69
L’ultimo Statuto fu dato all’AC dalla Conferenza episcopale italiana (CEI) nel 1969, nel cuore stesso della bufera studentesca, che aveva travolto molte associazioni e movimenti cattolici. Con esso nasce l’AC del dopo Concilio.70
C’è, dunque, una costante interazione fra l’esperienza associativa concreta dell’AC e il Magistero ecclesiale. Lo documenta il fatto innegabile che il Magistero papale, non solo nel passato, ma anche oggi, sa reagire con grande tempestività all’evolvere di tutto il fenomeno associativo ecclesiale.
La teologia del laicato del Concilio Vaticano II e l’esplosione in seno alla Chiesa moderna, particolare ed universale, di una nuova e grande “stagione aggregativa” ha spinto, infatti, il Magistero a passare, da interventi puntuali, rivolti a questa o quell’associazione particolare, ad interventi di carattere sempre più generale, tesi a fissare i criteri fondamentali di ecclesialità, estendibili per principio a tutte le multiformi espressioni del fenomeno aggregativo ecclesiale in quanto tale.
In questa linea, va ricordato, prima di tutto, l’intervento della Conferenza dei Vescovi latino-americani a Puebla nel 1979, che ha formulato criteri generali di ecclesialità, per il variegato fenomeno delle Comunità di base. Ha fatto seguito il documento della CEI del 1981, con alcuni criteri di ecclesialità per i gruppi, le associazioni ed i movimenti. 71 L’ultimo grande intervento è stato quello recentissimo della Christifideles laici, (n. 30), elabora criteri ancor più onnicomprensivi e capaci di cogliere alla radice le note dell’ecclesialità di qualsiasi aggregazione laicale.72

4. I criteri di ecclesialità di tutte le aggregazioni di fedeli laici
Dai criteri elaborati dal Magistero per stabilire l’ecclesialità delle aggregazioni laicali si può evidentemente costruire tutta una teologia del laicato. In questa sede è opportuno richiamarli almeno brevemente onde favorire una maturazione responsabile di tutto il laicato della nostra Diocesi ed in particolare di quello associato, in cui l’AC ha svolto e deve continuare a svolgere una sua funzione specifica. Questi criteri sono cinque.

1.Il primato della vocazione di ogni cristiano alla santità.
La santità non è prerogativa esclusiva di alcuni. Ha però come condizione, previa per tutti, il superamento di quella che il Concilio Vaticano II non ha esitato a definire la più grave eresia dei tempi moderni: il divorzio tra la vita e la fede. Qualsiasi aggregazione di fedeli laici, ribadisce sempre al n. 30 la Christifideles laici, deve perciò educare i suoi aderenti ad «una più intima unità tra la vita pratica dei membri e la loro fede».

2. La responsabilità di confessare la fede cattolica.
L’assunzione personale e consapevole del mandato di Cristo di annunciare la Salvezza al mondo è la meta cui deve educare ogni aggregazione ecclesiale, per aiutare, appunto, i suoi membri a superare il divorzio tra la loro fede e la loro vita.

3. La testimonianza di comunione.
La realizzazione dei due elementi precedenti avviene solo se ogni aggregazione ecclesiale è capace di educare i suoi membri ad una duplice esperienza di comunione: la comunione reciproca e la comunione con il Papa ed il Vescovo. La comunione con i Pastori rende i laici organizzati particolarmente disponibili sia ad accorgere gli insegnamenti del Magistero ed i suoi orientamenti pastorali, sia ad instaurare con le altre forme aggregative ecclesiali un rapporto di «stima vicendevole» e di disponibilità alla «reciproca collaborazione».73

4. Lo slancio missionario.
In conformità alla natura stessa dell’essere cristiano, determinato dal binomio vocazione-missione, ed in conformità alla struttura comunionale dell’esperienza ecclesiale, tutte le forme aggregative di fedeli laici, per avere la qualifica dell’ecclesialità, devono vivere uno «slancio missionario» tale, da rendere tutti i loro membri capaci di diventare «soggetti di una nuova evangelizzazione». In questa loro consapevolezza si realizza quella «conformità» e quella «partecipazione al fine apostolico stesso della Chiesa», che ogni aggregazione di fedeli autenticamente ecclesiale dovrebbe avere.74

5. L’impegno di presenza nella società.
Tutto ciò che è autenticamente ecclesiale è anche contemporaneamente servizio alla persona umana. Per questa ragione, laddove i quattro criteri precedenti si inverano in un’aggregazione di fedeli laici, quest’ultima assume, quasi naturalmente, anche «l’impegno di una presenza nella società umana al servizio della dignità integrale dell’uomo».
Assimilando i principi della «partecipazione» e della «solidarietà», caratteristici della Dottrina sociale della Chiesa, i membri laici aggregati edificano una società più giusta e più umana, dando testimonianza, con il loro impegno culturale, sociale e politico, del mistero dell’Incarnazione di Cristo nel mondo.
Nel segno della saggezza evangelica – «dai frutti infatti si conosce l’albero» (Mt 12, 33), saggezza che ci ricorda come l’uomo può e deve con il suo lavoro preparare e favorire lo sviluppo dei frutti ma in definitiva deve attenderli e riceverli come dono 75 la verifica concreta della presenza di questi cinque criteri di ecclesialità in un’associazione avviene, secondo la Christifideles laici, nel modo seguente:
– quando in un’aggregazione laicale rinasce il gusto della preghiera, della contemplazione, della vita liturgica e sacramentale;
– quando riemerge nei suoi membri l’idea che la vita è vocazione e, di conseguenza, assieme alla consapevolezza che anche il Matrimonio cristiano è una vocazione, fioriscono in essa anche vocazioni al sacerdozio ministeriale e alla vita consacrata;- quando cresce la disponibilità dei suoi membri verso le attività missionarie della Chiesa;
– quando aumenta il gusto della catechesi, delle opere caritative e della creatività culturale dei suoi membri;
– quando riaffiora un’autentica missionarietà nei confronti dei battezzati lontani e dei non credenti.
Allora in questa aggregazione di fedeli si invera il mistero della Chiesa ed essa è autenticamente ecclesiale.
Se questi sono i criteri e le verifiche applicabili indistintamente a tutte le forme associative laiche, come è possibile pensare che nel vastissimo panorama delle aggregazioni ecclesiali già esistenti possano ancora sorgerne delle altre?
La domanda è retorica. Tutta la storia della Chiesa, infatti, è costellata di confraternite, di terzi ordini, di sodalizi, di associazioni e mille altri tipi di aggregazione ecclesiale che, malgrado la loro convergenza di fondo, hanno saputo assumere in uguale modo la missione stessa della Chiesa, secondo intuizioni, di volta in volta originali e diverse, sostenute da itinerari pedagogici propri e specifici.
La stessa “nuova stagione aggregativa”, che trova nell’internazionalità dei moderni movimenti la caratteristica più evidente, dimostra che i recenti criteri di ecclesialità, formulati dal Magistero, non sono di intralcio alla versatilità ed alla creatività dello Spirito Santo, operante instancabilmente nella comunità universale dei credenti.
Il problema dell’AC non è perciò quello della legittimità della sua esistenza, ma solo quello di riuscire a ridefinirla ecclesiologicamente,76 perché possa riscoprire la forza aggregante ed edificatrice del suo antico carisma originario.

5. La natura specifica dell’Azione Cattolica
La fonte immediata per definire l’AC nella specificità, che la differenzia rispetto alle altre forme aggregative di fedeli laici, è lo Statuto datole dalla CEI nel 1969. È uno Statuto che fa una rilettura interpretativa delle quattro note sull’AC, già elaborate dal Concilio Vaticano II al n. 20 dell’, cioè il Decreto sull’apostolato dei laici Apostoli – cam actuositatem. 77
La sintesi dello Statuto è contenuta nell’art. 1: «L’AC è un’associazione di laici che si impegnano liberamente, informa comunitaria ed organica ed in diretta collaborazione con la Gerarchia, per la realizzazione del fine generale apostolico della Chiesa».
Da questa definizione si possono trarre ben sei elementi fondamentali.

1. L’AC è un’organizzazione di laici che, a differenza di altre forme aggregative (come, ad esempio, i movimenti ecclesiali), assume la struttura giuridica tipica dell’associazione. Questa implica l’iscrizione degli associati, senza tuttavia escludere la possibilità di un’adesione formalmente meno vincolante.

2. Come ogni associazione ecclesiale, a norma dei cann. 298 ss., anche l’AC si regge sul principio della libera adesione dei singoli fedeli. Ne consegue che anche l’AC, in quanto tale, non può essere imposta dal Vescovo e non può essere indicata come obbligatoria per nessuno. L’esistenza di questa associazione dipende esclusivamente dalla volontà di un gruppo di laici di aggregarsi a questo scopo.
L’AC è, perciò, solo una delle forme possibili di aggregazione dei fedeli laici. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare quanto – sia pure relativamente alla situazione ecclesiale italiana – papa Paolo VI ha affermato nel 1968: «I pastori ben sapendo che ai laici è libero appartenerci o no (l’AC è un movimento di volontari), è obbligo loro di conservarla e promuoverla» .78

3. La struttura interna dell’AC è comunitaria. Ciò significa che il criterio di rapporto interno dei suoi membri, malgrado le rigidità oggettive della forma giuridica dell’associazione, non può essere mutuato meccanicamente dai principi democratici che reggono le associazioni civili.
La sua vita comunitaria non nasce da rapporti di forza, ma dalla comunione, principio strutturale che informa tutta la Chiesa in ogni suo livello organizzativo.
Essendo un’aggregazione di tipo associativo, il cui vantaggio, rispetto ad altri modelli di aggregazione ecclesiale, sta nella maggior stabilità nel tempo ed il cui limite è quello di poter sopravvivere a se stesso anche senza anima, l’AC deve costituirsi secondo la dinamica specifica della convivenza ecclesiale che è quella della comunione. Ciò è richiesto esplicitamente dal terzo criterio generale di ecclesialità, formulato dalla CEI, precedentemente esaminato e valido per qualsiasi forma aggregativa di fedeli.
Se all’interno dell’AC i membri e gli aderenti non vivono reciprocamente una “comunione salda e convinta”, l’AC non realizza in se stessa la dinamica specifica del rapporto interpersonale ecclesiale. Non attuerebbe, perciò, un’inverazione concreta in se stessa della Chiesa di Cristo.

4. La forma comunitaria deve essere organica. Ciò significa che la struttura interna dell’AC non è fine a se stessa, ma esige di essere adattata, oltre che alle necessità dell’associazione in quanto tale, anche alla realizzazione efficace e concreta delle finalità per le quali è costituita ed approvata, cioè il fine generale apostolico della Chiesa.
Il criterio di organizzazione deve obbedire alle esigenze dell’ efficacia pastorale in una determinata situazione ecclesiale 79. L’AC deve essere e deve costantemente rimanere organica alla situazione strutturale concreta di una Chiesa particolare.
Le molteplici riforme statutarie dell’AC italiana, avvenute nel corso della sua storia ultra centenaria, sono, come abbiamo visto, la migliore testimonianza di questa sua capacità di rinnovarsi organicamente alla Chiesa in Italia.

5. Lo scopo dell’AC è quello di realizzare il fine generale apostolico della Chiesa, vale a dire l’evangelizzazione, la santificazione e la formazione cristiana delle coscienze, tutte sinteticamente ricomprese nella necessità di realizzare una presenza socio-culturale di natura profetica nella società (AA 20/a). Ne consegue che anche se non dovesse assumere necessariamente tutti gli aspetti della pastorale diocesana e della Chiesa universale, non può, tuttavia, autolimitarsi ad aspetti singoli. In effetti, la sua finalità non potrebbe essere, come invece per altre aggregazioni (can. 298 par. 1), esclusivamente quella della preghiera, della carità, della liturgia, della catechesi ecc…
Vale comunque la pena di sottolineare che anche quelle associazioni, confraternite, sodalizi e movimenti, che dovessero perseguire statutariamente un solo fine particolare primario, lo devono realizzare con un’apertura capace di ricomprendere in esso, almeno implicitamente, tutta l’esperienza cristiana. Ciò è imposto dal principio della comunione, secondo cui il “tutto” deve essere presente nel “frammento”.

6. Il sesto ed ultimo elemento è il più qualificante. Cosa significa «in diretta collaborazione con la Gerarchia?».
Le formule precedenti di “partecipazione all’apostolato gerarchico”, coniata da papa Pio XI, come quella di Pio XII di “cooperazione dei laici” ad un’opera, di cui unico titolare rimane la Gerarchia, hanno fatto attribuire all’AC, nel quadro storico della riforma istituzionale fortemente centralizzata degli anni Trenta, sia la prerogativa di essere «la massima modalità per un laico di partecipare alla vita della Chiesa»,80 sia il conferimento di un “mandato”.
Nel quadro dell’ecclesiologia del tempo, questo mandato fu a lungo interpretato come delega ai laici dell’AC di funzioni di per sé altrui, cioè proprie della Gerarchia.81
Il Vaticano II ha ripreso l’idea della «cooperazione diretta con l’apostolato gerarchico» (AA 20/d), e quella del “mandato”. Man mano, però, che nella mentalità ecclesiale comune si è fatta strada l’idea conciliare, già anticipata da Pio XII, che l’identità del laico e la sua legittimazione a partecipare alla missione della Chiesa, quale soggetto responsabile ed attivo, deriva esclusivamente dal sacerdozio comune conferito dal Battesimo, il concetto della collaborazione con la Gerarchia ha assunto una valenza ecclesiologica diversa rispetto al passato.
In effetti, oggi, si parla di “collaborazione con la Gerarchia”. Il mandato, a prescindere dal fatto che si voglia mantenere, oppure non lo si voglia più concedere – come ha fatto, per esempio, l’Assemblea dei Vescovi francesi a Lourdes nel 1975 – non può più essere interpretato come conferimento o delega di competenze e di prerogative particolari, quasi non fossero già possedute ed inerenti al laico in forza del Battesimo.
L’istituto del «mandato» deve essere interpretato come dichiarazione o riconoscimento del fatto che l’apostolato di un’associazione o di un movimento è in grado di esprimere e di realizzare in modo adeguato, in un determinato frangente storico, la missione evangelizzatrice stessa della Chiesa.
Ne consegue che se l’attività di apostolato di un’aggregazione, associazione o movimento laicale, indipendentemente dal fatto che sia corredata o meno da un «mandato », dovesse coincidere, nella sostanza e nella forma, con l’attività apostolica stessa di una determinata Chiesa particolare, questa associazione o aggregazione rimarrebbe comunque un soggetto autonomo e distinto. Un soggetto ecclesiale diverso e, perciò, non identico a quello della Chiesa particolare in quanto tale.
Né la Chiesa particolare in quanto tale, né le altre forme aggregative esistenti, possono, di conseguenza, contestare la coincidenza dei criteri specifici e delle finalità dell’AC con quelli della pastorale diocesana, perché il soggetto ecclesiale AC, per definizione, conserva, infatti, ecclesiologicamente, una sua originalità istituzionale e spirituale propria.
Ne consegue, però, anche, che l’AC non può, come è invece talvolta avvenuto nel passato, rivendicare una posizione ecclesiale di privilegio rispetto alle altre aggregazioni; non può pretendere di assumere in se stessa, quasi fosse un’aggregazione cartello o superiore, tutte le altre aggregazioni ecclesiali.
Dall’analisi di questi sei elementi costitutivi dell’AC, secondo la definizione formulata dal Magistero, risulta chiaro che la specificità dell’AC è quella di concepirsi come associazione, la cui finalità primaria è quella di operare in «diretta collaborazione con la Gerarchia”. Chi decide di aggregarsi ad essa deve farlo nella piena consapevolezza di questo fatto.
L’AC non è un’associazione generica, con contenuti non qualificanti l’identità particolare del fedele laico che vi aderisce. E perciò solo la libera, piena e responsabile assunzione, da parte dei singoli fedeli, di questa sua peculiarità, che ne giustifica l’esistenza, ed eventualmente la riuscita pastorale.
Il discorso sulla specificità dell’AC deve essere, tuttavia, ulteriormente precisato. Chi vi aderisce deve assumere e svolgere in modo associato, cioè in quanto appartenente ad una comunità ecclesiale in cui si invera concretamente l’esperienza della comunione ecclesiale, un servizio in ordine al ministero apostolico.
Ciò esige «un rapporto di piena comunione e fiducia con la Gerarchia» ed evidentemente, nella Diocesi, con il Vescovo. Ciò esige pure la determinazione dei membri dell’AC di “accogliere con aperta disponibilità” la guida del Vescovo e di offrire “con responsabile iniziativa” un organico e sistematico contributo all’azione pastorale della Chiesa particolare in cui è inserita. Questo è, infatti, ciò che richiede l’art. 5 dello Statuto del 1969.
L’ottica primaria di servizio alla Chiesa particolare, diocesana e parrocchiale, emerge in modo esplicito anche dall’art. 6 dello stesso Statuto, laddove si afferma che il primo impegno dell’AC è «la presenza ed il servizio nella Chiesa locale… in costante solidarietà con le sue esigenze e con le sue scelte pastorali».
Ciò ha permesso ad alcuni di definire l’AC come un’aggregazione di fedeli laici avente il carattere specifico della “diocesanità”.82 Quest’ultima caratteristica non può, però, essere intesa in modo astratto, ma deve ricomprendere in se stessa, al di là di ogni sua verifica teologica, tutte le connotazioni pratiche delle scelte pastorali, storiche ed ambientali di una Diocesi concreta.
In altre parole, si deve affermare che il laico associato nell’AC persegue la propria santità e quella della Chiesa, assumendo responsabilmente e creativamente il pensiero e la mentalità della Chiesa particolare in cui vive; ricerca la propria maturazione nella fede cristiana e quella dei suoi fratelli attraverso la dedizione personale nell’attuazione degli orientamenti offerti dal Vescovo e dai presbiteri in comunione con lui.
Come ebbe ad affermare il Cardinale Anastasio Ballestrero, presidente della CEI, in una lettera all’AC italiana del 1984, il carattere della “diocesanità” dell’AC consiste nel fatto, che l’AC è “un’ecclesialità di laicato diocesano che si esprime nella piena adesione alle direttive ed alle indicazioni del Vescovo, nella collaborazione attiva con il presbiterio e con gli organismi pastorali, nella condivisione sul piano pastorale della Diocesi e delle Parrocchie”.83
Nella stessa lettera si arriva così ad affermare che «la conformità alle finalità della Chiesa” e la “comunione con il Vescovo» sono per l’AC più che semplici requisiti generali di ecclesialità, bensì “la ragione d’essere dell’AC: la sintesi delle sue motivazioni e delle sue finalità”.
Ogni aggregazione ecclesiale, le associazioni, i gruppi di fedeli, i sodalizi, le confraternite ed i movimenti ecclesiali, hanno senso solo nella misura in cui sanno vivere fino infondo, e con umile radicalità, il loro carisma. Solo rispettando questa condizione, edificano veramente la Chiesa.
È questa la prospettiva in cui occorre mettersi per cogliere il vero significato delle parole rivolte da papa Paolo VI nel 1970 alla prima Assemblea nazionale dell’AC, dopo la riforma del 1969 e in pieno clima di contestazione studentesca: «Ecco la parola, oggi non da tutti compresa: l’organizzazione… Voi questo avete compreso e accettato; volete essere associati, volete essere organizzati. Anche codesta accettazione (di organizzarsi) è un punto superiore della vostra personalità ecclesiale…».84

6. L’itinerario pedagogico di una rinascita
Descritte fin qui le linee generali della storia ed i tratti essenziali delle finalità e dell’identità ecclesiologica dell’AC, diventa ora necessario delineare la dinamica concreta della sua possibile rinascita nella nostra Diocesi.
L’assioma, al quale dobbiamo rigorosamente attenerci, è il principio che la pastorale deve essere una pastorale delle persone e non una pastorale delle cose da fare. La nostra preoccupazione principale, perciò, non deve essere quella di mettere in atto una nuova organizzazione diocesana, vicariale e parrocchiale di uomini e donne, adulti e giovani, ma di individuare il modo di raggiungere queste persone al cuore della loro stessa esperienza di fede.
L’organizzazione è uno strumento necessario, ma non servirebbe a nulla, se l’AC non riuscisse a rendere consapevoli i fedeli laici della loro vocazione alla fede, alla missione e alla comunione ecclesiale. A mettere la persona del laico in movimento verso questo ideale, proposto secondo le modulazioni specifiche dell’AC.
L’AC, infatti, è un’associazione il cui scopo fondamentale è quello di educare il laico ad un’ecclesialità, che trova nella “cooperazione diretta con la Gerarchia”, secondo il significato esaminato precedentemente, il suo punto focale. Si pone perciò, all’interno della Diocesi e nel concerto delle altre aggregazioni, come soggetto preposto alla formazione del laico a questa “diocesanità”.
I momenti di questo itinerario possono essere così sommariamente individuati.

1. L’AC deve educare i suoi membri alla “forma di Cristo”, fino alla pienezza della maturità cristiana. Il Concilio Vaticano II parla, nella Gaudium et Spes (n.22), di Gesù Cristo, il figlio di Dio, come “Uomo perfetto”. A questa pienezza di perfezione deve tendere l’impegno dell’AC.
Gli strumenti di tale impegno sono, oltre alla liturgia, quelli di una catechesi permanente, adulta nei contenuti e nei metodi; la pratica di un’attività caritativa (per esempio proposte operative dellaCaritas Diocesana e volontariato) e di un impegno missionario, fondato sull’annuncio della propria fede agli altri, a partire dalla propria esperienza di fede personale (in concreto, iniziative per aggregare altre persone e sostenere le missioni diocesane).

2. L’AC deve educare al “senso della Chiesa”, cioè ad una profonda esperienza ecclesiale, che nella sua essenza è un’esperienza di comunione. Ogni gruppo o nucleo di AC deve diventare una comunità di profonda comunione tra le persone che vi aderiscono, in nome di Gesù Cristo. Una comunione concreta tra i membri che ha come orizzonte quello della Chiesa particolare ed è aperto al respiro della Chiesa universale.
La comunione con i pastori, prima di tutto con il Vescovo e con i parroci, si traduce in ascolto e lettura dei testi del Magistero pontificio ed episcopale: in attenzione alle proposte pastorali diocesane, parrocchiali e vicariali; in servizio serio e disinteressato all’interno delle opere, strutture ed iniziative ecclesiali della Diocesi (per esempio Consigli pastorali, catechesi ecc.); in dialogo cordiale e costruttivo con tutte le altre realtà aggregative ecclesiali, riconosciute come tali.
Il principio su cui si regge la Chiesa non è quello del pluralismo, che privilegia la differenza in quanto tale, ma quello della pluralità, che ricompone le diversità in funzione di un’unità profonda, ma non uniforme e perciò estremamente ricca: «ut unum sint» (Gv 17, 11).

3. L’AC deve educare alla laicità, definita dal Concilio Vaticano II come “indole secolare”: ad una secolarità che non deve essere fraintesa come secolarismo.
Laicità significa: educare ad un impegno culturale sociale e politico, previo ed autonomo rispetto ad ogni libera scelta partitica personale; educare alla responsabilità di un giudizio ed un impegno nelle strutture fondamentali della società, nelle sue espressioni più importanti come la famiglia, la scuola, i mezzi della comunicazione sociale, il tempo libero, la sanità; educare ad un servizio gratuito per il superamento di tutte le emarginazioni nelle loro diverse variazioni. Il punto di riferimento nell’educazione religiosa propria dell’AC è la pienezza umana inerente all’esperienza ecclesiale di fede e non il collateralismo politico o partitico.
Affinché questi tre momenti dell’itinerario educativo dell’AC non rimangano astratti e perché la preoccupazione organizzativa non prevalga su quella previa dell’educazione delle persone, è necessario che la ripresa dell’AC si fondi sull’accoglienza delle indicazioni pastorali già esistenti nella nostra Diocesi, che hanno ormai trovato un consenso di fondo.85
Va precisato, tuttavia, che queste indicazioni ed opzioni pastorali, valide in se stesse per ogni fedele e per tutte le realtà comunitarie della Diocesi, non sono vincolanti per tutti allo stesso modo. Infatti, solo l’AC è tenuta, in forza della diocesanità specifica alla sua natura ed alla sua finalità, ad assumerle come imprescindibilmente vincolanti per se stessa.

Queste indicazioni sono:

1. La Scuola della fede, proposta l’anno scorso autorevolmente a tutte le realtà diocesane. I membri dell’AC si impegnano sia a parteciparvi attivamente sia ad invitare il numero più vasto possibile delle persone da loro incontrate. La Scuola della fede deve diventare un vero nucleo comunitario ecclesiale, che i membri dell’AC si impegnano a costruire. Ogni gruppo di AC può riprendere, inoltre, la stessa catechesi nel proprio ambito.

2. Le iniziative caritative e missionarie, liturgiche e pastorali, proposte dagli organismi diocesani e coordinate dal Provicario generale.

3. La Scuola diocesana di catechesi, per coloro che intendono assumere responsabilità pedagogiche in questo settore, nella pastorale sacramentale e scolastica.

4. Le feste dell’annuncio e della missione, che avranno luogo a livello diocesano e parrocchiale, rispettivamente all’inizio ed al termine della Scuola della fede, decise dal Consiglio pastorale diocesano.

5. I pellegrinaggi diocesani.

6. Per i giovani:
– l’annuale Incontro missionario della Svizzera italiana;
– il Cammino della Speranza, il sabato vigilia della Domenica delle Palme;
– il pellegrinaggio alla Madonna del Tamaro nel mese di giugno, come ringraziamento in chiusura dell’anno scolastico e come preparazione alle vacanze;
– il pellegrinaggio alla Madonna della Salette, che avrà luogo quest’anno;
– altre eventuali iniziative che saranno segnalate di volta in volta.

Al termine di questo grande Congresso non dobbiamo dimenticare lo sforzo apostolico del laicato, che ci ha preceduti e che ha mantenuta accesa la lampada dell’AC in mezzo a noi fino ad oggi.
Papa Paolo VI rivolge ancora a noi queste parole cariche di riconoscenza: «Non scordate le anime umili e grandi, che hanno dato l’ingegno, l’opera, la vita perfino, con un disinteresse e con un orgoglio degni di rimanere in esempio, alla medesima causa che voi oggi intendete servire. Non ignorare la propria storia non significa essere vincolati alle forme che ieri ne hanno tessuto le vicende; significa, piuttosto, sperimentare la spinta morale che da essa deriva, e cioè godere di una carica di esperienza, di ansia, verso l’attualità e verso l’avvenire, di ricerca di sempre nuove e geniali originalità».86
Sono convinto che oggi si è alzato in mezzo a noi un soffio di vento nuovo, pieno di speranza.
Il Cardinale Suenens, al termine di un Congresso sulle aggregazioni laicali nella Chiesa, riprendendo l’immagine giovannea del vento dello Spirito, che soffia dove vuole, ha detto a tutti i partecipanti di quella assise, come ripete a tutti noi oggi: «Noi non possiamo dirigere il corso del vento, ma possiamo orientare la nostra vela al suo soffio»87

53 Cfr. E. PREZIOSI, Breve profilo storico dell’Azione Cattolica, Roma 1984, p. 14.
54 Sul ruolo svolto dal laicato di Azione Cattolica nella formazione di quel complesso fenomeno noto sotto il nome di «Movimento cattolico», cfr. D. VENERUSO, La Gioventù Cattolica e i problemi della società civile e politica italiana dall’unità al fascismo (1867-1922), in: La Gioventù Cattolica dopo l’unità 1866-1968, Roma 1972, pp.1-137.
55 Paolo VI, Omelia nella celebrazione eucaristica dell’8 dicembre 1968 per il primo centenario dell’ACI, in: L’ACI nel Magistero di Paolo VI, a cura della Presidenza nazionale dell’ACI, Roma 1980, pp. 202-210, qui p. 205, n. 543.
56 Cfr. discorso del 26 giugno 1929, e la collocazione storica che ne fa E. PREZIOSI, op. cit., pp. 37-38.

57 È di quegli anni l’inizio del disegno basato sulla ricerca di una «terza via» cattolica tra capitalismo e comunismo, avente come punto di riferimento di maggior rilievo l’opera di Jacques MARITAIN, almeno dopo la pubblicazione di Humanisme intégral nel 1936, cfr. a tale riguardo G. FORMIGONI, L’Azione Cattolica Italiana, Milano 1988, pp. 53-73.
58 Su nascita, sviluppo e crisi dell’AC specializzata in Francia cfr. G. CHOLVY – Y.M. HILAIRE, Histoire religieuse de la France contemporaine (1930-1988), Toulouse 1988, pp. 29-36, 247-255, 330-335 e 396-400.
59 È la dichiarazione fatta dal Consiglio nazionale dell’AC francese nel 1973, ripresa e commentata da G. CHOLVY – Y.M. HILAIRE, op. cit., p. 399.
60 Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n. 7.
61 Per un’analisi delle conseguenze di questo divario tra fede e vita nella nostra Diocesi, cfr. la mia prima Lettera pastorale della Pasqua 1987, intitolata Siate forti nella Fede.

 62 Per un bilancio complessivo della riflessione teologica sul laicato, ormai in atto da almeno mezzo secolo, cfr. G. COLOMBO, La teologia del laicato: bilancio di una vicenda storica, in: AAVV, I laici nella Chiesa, Torino 1986; AAVV, Il laicato. Rassegna bibliografica di lingua italiana, tedesca e francese, Roma 1987; A. SCOLA, Laici nella Chiesa, in: AAVV, I laici e la missione nella Chiesa, Milano 1987, pp. 47-65, cfr, pure il mio articolo, I laici nel nuovo Codice di Diritto Canonico, in La Scuola Cattolica 112 (1984), pp. 194-218.
63 Cfr. Über das Laienapostolat, in: Schriften zur Theologie II, Einsiedeln – Zurigo – Colonia 1964, pp. 339-373. Per un’analisi critica di questa posizione, cfr. il mio articolo, La “sacra potestas” e i laici, in: Studi Parmensi 28 (1980), pp. 3-36.
64 Nel ricordare a tutti i preti che «il problema cruciale» è quello «di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo al mondo… spesso indifferente, tentato dal materialismo, talvolta ateo», il Papa afferma a chiare lettere che «…non si tratta in alcun modo, come ho appena detto ai Vescovi, di “clericalizzare” i laici e nemmeno di “laicizzare” i preti». (Giovanni Paolo II in Svizzera. I discorsi del viaggio, Saint Maurice 1984, p. 142 e p. 132).

66 Per un’analisi approfondita della forza strutturante ed aggregante di un carisma. cfr. L. GEROSA, Carisma e diritto nella Chiesa. Rifessioni canonistiche sul “carisma originario” dei nuovi movimenti ecclesiali, Milano 1989, pp. 75-94 e 180-203.
67 Il testo della lettera si trova in: Voce d’apostolo. Vol. III, L’Azione Cattolica, Lugano 1942, pp. 9-12. La stessa lettera è stata giudicata «l’atto più importante che Mons. Bacciarini abbia fatto per l’incremento dell’Azione Cattolica» (E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini, Lugano 1945, p. 657).

68 Cfr. tutto il capitolo Gli anni Trenta di E. PREZIOSI, op.cit., pp. 39-43.
69 Il testo è tratto da E. PREZIOSI, op. cit., p.68.
70 Il testo di questo Statuto tuttora in vigore si trova nella III Appendice di G. FORMIGONI, op. cit., pp. 177-186. Per un’ampia analisi del ruolo dell’ACI nella realtà ecclesiale del dopo Concilio, cfr.: L’Azione Cattolica nella vita ecclesiale del post-Concilio. Seminario di studio (Roma, 29-30 ottobre 1988), a cura della Presidenza Nazionale ACI, Roma 1989.
71 Una lettura attenta dei testi di Puebla (1979) sulle Comunità di base permette di constatare come le indicazioni circa la loro ecclesialità siano fortemente influenzate dal n. 58 dell’Esortazione apostolica Evangelii Nun – tiandi (8 dicembre 1975) di Paolo VI; a tale riguardo cfr. il mio articolo, Prospettive per la “Lex Ecclesiae fundamentalis” e la revisione del diritto canonico nel documento di Puebla, in: Il Diritto Ecclesiastico 40 (1980), pp. 3-23, qui p. 4. Precedentemente altre Conferenze episcopali avevano preso posizione su questo problema, cfr., ad esempio, le Richtlinien der Deutschen Bischofskonferenz für Messfeiern kleiner Gruppen del 24 settembre 1970; per una loro analisi comparata ad altri documenti magisteriali sui criteri di ecclesialità delle diverse aggregazioni di fedeli cf. L. GEROSA, op. cit., pp. 236-242.
72 Giovanni Paolo II riprende qui alla lettera un’indicazione conciliare del Decreto sull’apostolato dei laici (cfr. AA 19).

73 Cfr. AA 23.
74 Cfr. AA 19 e 20
75 Cfr. pure Mt 7, 16-20; Lc 6, 43-45; Gv 15, 2 s. e il commento di R. HENSEL in: Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, a cura di L. COENEN – E. BEYREUTHER-H. BIETENHARD, Bologna 1976, pp. 738-740.

76 Un importante tentativo in questa direzione è stato fatto da: F.COCCOPALMERIO; Azione Cattolica e comunità ecclesiale. Problemi emergenti e proposte di soluzione, in: L’Azione Cattolica nella vita ecclesiale del post-Concilio, op. cit., pp. 57-72.
77 Cfr. l’Appendice V: L’Azione Cattolica per la vocazione e la missione dei laici. Documento inviato al Sinodo dei Vescovi del 1987, in: G. FORMIGONI, op. cit., pp. 203-211.
78 Paolo VI, Discorso rivolto il 14 febbraio 1968 ai fedeli nell’udienza generale, in: L’ACI nel Magistero di Paolo VI, op. cit., p. 185, n. 500.
79 Questa formula suggestivacon cui è possibile definire la dinamica strutturale della communio è tratta dal titolo di un libro di Hans Urs von BALTHASAR: Das Ganze im Fragment, Einsiedeln 1963.
80 G. FORMIGONI, op. cit., p. 65.
81 Su come queste interpretazioni ecclesiologiche abbiano aumentato il rischio che l’AC diventasse un movimento d’élite, cfr. il mio articolo, Profili istituzionali di Movimenti nella Chiesa, in: AAVV, I movimenti nella Chiesa negli anni ‘80. Milano 1982, pp. 203-254 ed in particolare p. 226.
82 Cfr, ad esempio G. MOIOLI, Laicato, “diocesanità” e Azione Cattolica, in: Laicato, Chiesa e società, Milano 1983, pp. 23-34; F. COCCOPALMERIO, Le associazioni di fedeli nella comunità ecclesiale e il caso particolare dell’Azione Cattolica, in: La Scuola cattolica 113 (1985), pp. 432- 457 e soprattutto pp. 450-452.
83 La lettera, firmata dal Card. Anastasio Ballestrero (allora presidente della CEI), è datata l’11 febbraio 1984 e si trova in: Enchiridion Vaticanum, Vol. IX, Bologna 1987, pp. 923-927.
84 L’ACI nel Magistero di Paolo VI, op. cit., pp. 231-232, n. 624-625.

85 A livello catechetico un punto di riferimento preciso rimane la mia Lettera pastorale Annunciate il Vangelo della Quaresima 1989.
86 Testo tratto da E. PREZIOSI, op. cit., p. 10
87 L. J. SUENENS, Il mistero della Chiesa, in: I movimenti nella Chiesa. Atti del II Colloquio internazionale, Milano 1987, p. 27.