Visto da vicino

 

“Per voi sono Vescovo con voi sono cristiano”

di don Patrizio Foletti

Tentare anche una minima valutazione dell’attività pastorale di monsignor Eugenio Corecco a poche settimane dalla sua prematura scomparsa è compito certo arduo. Non è questo lo scopo del presente contributo. Più modestamente cercherò di mettere in evidenza alcune di quelle che mi sembrano essere state le linee portanti dei suoi nove anni di ministero.
Il suo è stato certamente un episcopato svolto nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II, a partire da quell’immagine di Chiesa che emerge dalla Costituzione dogmatica Lumen gentium – immagine che si preoccupava di trasmettere già ai suoi studenti all’Università di Friburgo e che presentò anche nell’omelia che tenne alla conclusione della sua ordinazione episcopale – e orientato verso l’uomo secolarizzato del nostro tempo, con cui occorre entrare in dialogo e al quale proporre nuovamente con chiarezza e decisione Gesù Cristo redentore dell’uomo e centro del cosmo e della storia (cf. Costituzione pastorale Gaudium et spes nr. 45).
In quella sua prima omelia da pastore della Diocesi di Lugano si premurò anzitutto di collocare il ministero del Vescovo dentro la comunione ecclesiale, cioè dentro la profonda unità che si stabilisce tra i fedeli in forza della Parola di Dio e dei Sacramenti. La comunione non è da intendere come un sentimento – che in ultima istan¬za dipende dagli uomini – ma come il rapporto profondo che lega i fedeli a Gesù Cristo e, attraverso di lui, gli uni agli altri: è cioè il rapporto che fa di un uomo un cristiano.
In quella stessa omelia del 29 giugno 1986 sviluppò poi due aspetti del mistero cristiano in cui questo principio della comunione si realizza: il rapporto di mutua dipendenza esistente tra i fedeli e il Vescovo e il rapporto di immanenza esistente tra la Chiesa locale e quella universale.
Citò così la famosa espressione di Agostino: per voi sono Vescovo, con voi sono cristiano, insistendo sul fatto che un Vescovo nasce nella Chiesa e dalla Chiesa e che chi è diventato Vescovo è giunto ad esserlo come membro e frutto di una Chiesa particolare che gli è stata madre, come membro di una comunità particolare di fede, che lo ha generato. Tuttavia nel Vescovo, che è il pastore della Chiesa locale, questa fraternità si accompagna alla paternità che lo stesso è chiamato ad esercitare nei confronti dei fedeli a lui affidati. Questa duplice dimensione oggettiva, di fraternità… e di paternità, esistente tra i fedeli e i presbiteri e tra i presbiteri e il Vescovo, appartiene all’essenza stessa della esperienza ecclesiale.
Si soffermò poi sul fatto che il Vescovo è il principio visibile e il fondamento dell’unità della Chiesa particolare (la diocesi), come pure dell’unità della Chiesa particolare con la Chiesa universale. La presenza di Vescovi svizzeri e stranieri sta a significare che l’ordinazione di un Vescovo concerne non solo questa nostra Chiesa particolare di Lugano, ma tutta la Chiesa universale.
Da qui il rapporto profondo esistente tra la Chiesa universale e le Chiese particolari. La cattolicità nasce dalla presenza nel mondo di migliaia di altre Chiese particolari che si diversificano fra di loro, non a partire dalla diversa cultura e situazione storica in cui vivono, ma dalla interpretazione e dalla assunzione nella fede che i cristiani sanno fare delle differenti culture. La cattolicità nasce dal fatto che tutti i valori cristiani essenziali, vissuti in un determinato luogo e secondo modulazioni culturali diverse, sono accolti e vissuti almeno potenzialmente in tutte le altre Chiese particolari sparse nel mondo.

Punto di convergenza

In questo contesto il ministero del Vescovo è il punto di convergenza istituzionale della dimensione particolare e universale della Chiesa di Cristo, perché egli rappresenta la propria diocesi in seno al collegio universale dei Vescovi, con a capo il Papa, e nello stesso tempo rende presente nella propria Chiesa locale la «communio Ecclesiarum» che si esprime nel collegio universale dei Vescovi della Chiesa.
La Chiesa universale, una e unica, è perciò la comunione delle Chiese particolari, nelle quali e dalle quali essa è costituita (cf. Lumen gentium nr. 23). Questa formula spiega l’originalità ed unicità della Chiesa tutta e permette di valorizzare la Chiesa particolare senza perdere di vista l’universalità dell’esperienza cristiana. Ogni uomo incon¬tra infatti il mistero della Chiesa nella comunità dei fedeli di una determinata diocesi, riunita attorno al proprio Vescovo, ma è chiamato a riconoscere che essa può realizzarsi dovunque e per ogni uomo. In ogni Chiesa particolare c’è perciò tutta la Chiesa universale e nessuna Chiesa particolare può concepirsi senza la Chiesa universale e ogni fedele è chiamato a vivere pienamente la propria situazione locale tenendo presente di appartenere ad un «Corpo» che è universale.
Nell’ultima parte di quella sua prima omelia il Vescovo Eugenio Corecco richiamò poi la necessità dell’impegno missionario, lasciando intravedere ciò che in seguito sarebbe apparso in modo chiaro: il fatto che gli stessero a cuore tutti gli uomini che incontrava quotidianamente, oggi spesso rimasti senza punti di riferimento, e, perciò, la necessità e l’urgenza di una nuova, chiara e decisa proposta dell’esperienza di fede come risposta esauriente alle esigenze più profonde degli uomini.
Tutto quanto abbiamo detto finora sulla comunione e sulla Chiesa deve essere compreso nella prospettiva del mandato, che tutti abbiamo ricevuto, di trasmettere la nostra fede in Cristo a tutti gli uomini… Il compito fondamentale della vita del cristiano e perciò quello di testimoniare e trasmettere la fede, ricevuta come dono gratuito da Dio… Testimonianza da dare agli uomini, perché l’interlocutore della Chiesa è l’uomo, tutti gli uomini, senza esclusione di nessuno.
Svolse un’omelia impegnativa, da cui emergeva il professore universitario e forse allora qualcuno pensò che avrebbe avuto a che fare con un Vescovo teologo, intelligente, colto, ma che rischiava di rimanere inavvicinabile per la maggior parte dei fedeli.

Al fondo, la semplicità

Invece monsignor Corecco rivelò ben presto che, al fondo, era rimasto una persona semplice, con nella memoria la gente semplice con cui visse i primi anni della sua vita. E sin dall’inizio del suo ministero episcopale cercò il contatto con tutti i suoi fedeli, fossero essi preti, religiosi o laici. Fu sempre facile avvicinarlo, per esempio durante i pellegrinaggi diocesani o dopo le funzioni in Cattedrale o dopo qualche altro incontro pubblico. Direi, anzi, che sempre, dopo la parte «ufficiale» delle manifestazioni pubbliche cui partecipava, era sua abitudine intrattenersi cordialmente con tutti coloro che volevano avvicinarlo. Non era neppure troppo diffìcile essere ricevuti in udienza, senza parlare dell’impegno che si era preso di rispondere personalmente a tutti coloro che gli scrivevano. I suoi orizzonti erano rimasti certo vasti, i suoi scritti e le sue omelie sovente impegnativi, ma sapeva prendersi il tempo per ascoltare e dialogare con i suoi fedeli.
Gli orientamenti espressi da monsignor Corecco in quella sua prima omelia hanno indubbiamente contrassegnato la sua attività pastorale. Convinto dell’esistenza di un divario tra la fede e la vita, che porta i fedeli di oggi a numerosi cedimenti di fronte alla mentalità dominante, intervenne spesso su questo tema e scrisse due lettere pastorali, Siate forti nella fede e Annunciate il Vangelo, con l’intento di sottolineare l’urgenza per tutti i cristiani di riscoprire la propria fede, in tutte le sue dimensioni, come pure di prendere coscienza della responsabilità personale nella trasmissione della fede stessa. Non si stancò di richiamare cioè l’urgenza di una nuova evangelizzazione, evangelizzazione che aveva e continua ad avere bisogno di tutti i mezzi e forze disponibili.

L’intervento al «Giornale del Popolo»

Ciò lo portò, a neanche un anno dalla sua ordinazione, a prendere quella che fu una delle sue decisioni meno popolari, che alcuni non gli hanno di fatto mai perdonato: la sostituzione del direttore del Giornale del Popolo.
Fu indubbiamente una decisione coraggiosa, che si attirò numerose critiche, soprattutto da parte della stampa, che non volle assolutamente capire la peculiarità della testata, che avrebbe dovuto sempre essere inserita nella prospettiva della pastorale diocesana. Fu tuttavia una decisione lungimirante, perché durante il suo episcopato il giornale ha saputo rinnovarsi, rimanendo fedele al compito che gli affidò il suo fondatore, il Vescovo Aurelio Bacciarini, compito ben espresso dalla Linea editoriale, pubblicata il 21 marzo 1990, in cui si può leggere che, in forza della sua storia, del suo statuto giuridico, del suo ruolo nella società civile della Svizzera italiana, il Giornale del Popolo è un’espressione della Chiesa particolare cui presiede il Vescovo di Lugano. Come tale, il GdP contribuisce all’azione pastorale diocesana e all’annuncio della fede nella realtà storica in cui opera.
Contemporanea all’avvicendamento alla direzione del Giornale del Popolo fu un’altra decisione coraggiosa: quella di chiedere a tutti i preti impegnati in diocesi di presentargli la rinuncia al loro mandato.
In data 10 marzo 1987 mandò infatti a tutti i sacerdoti una lun¬ga lettera, nella quale, dopo un’articolata introduzione – che a non pochi parve troppo segnata dal diritto canonico – scriveva: Mi sono sembrate necessarie queste premesse per presentare al presbiterio diocesano una proposta che potrà sorprendere qualche sacerdote, ma che mi e dettata dalle condizioni e necessità della Diocesi e dalla esigenza di un ben ordinato ed efficace lavoro pastorale, tenuto conto della mobilità della popolazione e della relativa scarsità del clero…

Per la mobilità del clero

Monsignor Corecco, che prese in considerazione sia l’età media che la scarsità del clero, perseguiva una sua migliore distribuzione sul territorio, come pure l’introduzione delle nomine a tempo determinato – scelta, questa, operata peraltro in tutte le altre diocesi della Svizzera – ma ci teneva a rilevare che la novità potesse anche giovare ai sacerdoti stessi. Una certa mobilità potrebbe rivelarsi utile non solo e non tanto per il Vescovo, quanto per gli stessi presbiteri. Un cambiamento, magari sollecitato dal Vescovo, deve avere come criterio anche quello di favorire la possibilità per un presbitero di rinnovarsi nella sua missione pastorale. Il bene di ogni singolo presbitero deve infatti essere considerato come uno degli elementi imprescindibili di ogni suo spostamento… Nel prendere le decisioni che si imporranno per il bene della Diocesi, sarò sollecito per le situazioni personali; perché non si tratta di «rivoluzionare» l’organizzazione dei ministeri, ma di favorire una eventuale più adeguata distribuzione.
Anche quest’iniziativa non incontrò il successo popolare, benché circa quattro quinti dei presbiteri rimettessero il loro mandato nelle mani del Vescovo. Probabilmente guastò in modo serio, almeno temporaneamente, il suo rapporto con alcuni sacerdoti. E’ tuttavia difficile non riconoscere che fossero validi i motivi che spinsero monsignor Corecco a prendere questa decisione e che non ci fossero procedure realmente alternative a quella che scelse.
I problemi che portarono a quella decisione non sono evidentemente già tutti risolti. Ma il fatto che alcuni siano rimasti dimostra che occorreva affrontarli di petto. D’altronde durante il suo episcopato ci furono in media non più di due ordinazioni all’anno e, nonostante continuasse, come sotto i suoi predecessori, l’afflusso di numerosi sacerdoti dall’estero, l’età media del clero non si abbassò mai sensibilmente. Vennero invece indubbiamente fatti dei passi avanti nella ricerca di un’adeguata distribuzione del clero sul territorio.
Mi pare comunque importante non tacere il fatto che, se negli interventi «ufficiali» monsignor Corecco appariva a molti sacerdoti freddo e troppo giuridico, tutt’altra era l’impressione che essi ne potevano ricavare nel rapporto personale. E neppure va taciuto il fatto che non si sia tirato indietro di fronte a nessuna sollecitazione proveniente dai presbiteri: dagli incontri nei vicariati foranei alle sedute del Consiglio del Clero – che, specialmente durante la prima parte del suo episcopato, sono state numerose e piuttosto animate – alle assemblee plenarie.
Se in alcuni casi il clero ebbe l’impressione di vedersi calare dall’alto delle decisioni già prese, potè comunque anche verificare che queste stesse decisioni erano sempre fondate su argomenti, forse non sempre condivisi, ma certo non pretestuosi, provocate da sincere preoccupazioni di ordine pastorale e lungamente ponderate.

Facoltà di teologia e Seminario

Un esempio in questo senso è da vedere nella fondazione della Facoltà di teologia e nel ritorno del Seminario in Diocesi ad essa legato. La prima ha permesso di avere un centro culturale di prim’ordine per la nostra Chiesa particolare, un centro che ha già mostrato di essere al servizio sia della nostra Diocesi che della Chiesa universale. Il secondo ha permesso al Vescovo di avere vicino i seminaristi, suoi futuri collaboratori, senza per questo portarli ad un ripiegamento, tanto che, mai come in questo periodo, seminaristi e giovani preti sono stati mandati all’estero per un approfondimento dei loro studi.
Eppure incontrò non poche difficoltà nel convincere il clero della bontà di questa operazione e forse c’è ancora chi la ritiene, nonostante il plauso quasi generale, non valida, quasi che il grande impegno, non solo finanziario, che comporta una tale iniziativa la squalifichi in partenza.
Se il significato del ritorno del Seminario in Diocesi può essere subito compreso da tutti, occorrerà più tempo per una valutazione compiuta della fondazione della Facoltà di teologia. La sua apertura internazionale e il suo nuovo metodo d’insegnamento – senza contare l’innegabile successo di iscrizioni – sono comunque sin d’ora aspetti facilmente apprezzabili.
Non si capisce monsignor Corecco dimenticando il suo rapportto con i giovani. Essi gli stavano veramente a cuore, tanto che ha loro dedicato molto tempo ed energie: dai corsi per animatori di pastorale giovanile, che ha voluto portare avanti praticamente fino a che le sue forze lo hanno sostenuto, ai numerosi ritiri che ha predicato, alle premure dedicate all’Azione cattolica giovanile, alla partecipazione alle Giornate mondiali della gioventù, agli altri numerosi incontri a livello diocesano, fra cui, e mi pare significativo, la sua penultima apparizione in pubblico.
In questa sua preoccupazione per la gioventù sono pure da considerare la fondazione del Liceo diocesano, in collaborazione con i Salesiani, l’attenzione dedicata al Collegio Papio ed alle altre scuole cattoliche, le proposte in merito alla preparazione ed alla celebrazione del sacramento della Confermazione, in riferimento al quale ha scritto una lettera pastorale.

La Scuola della fede

I giovani non hanno mai visto in lui il professore o l’autorità cui si deve anzitutto obbedienza, ma piuttosto la guida che ascolta e consiglia chi lo interpella, il pastore appunto, che non solo indica la strada, ma la compie in compagnia del gregge che gli è affidato, condividendone gioie e dolori, fatiche e successi, con lo scopo di portarli ad una fede adulta, forte, testimonianza e richiamo per i loro coetanei, in cui il senso religioso è spesso sopito, soffocato dall’agnosticismo e dal nichilismo della cultura dominante.
Ma agnosticismo e nichilismo caratterizzano anche il mondo degli adulti. Nella convinzione che i laici partecipano a pieno titolo, in forza del Battesimo, alla missione salvifica della Chiesa, monsignor Corecco si è adoperato perché fossero sempre più coscienti di questa loro responsabilità, che ha da essere vissuta nella vita concreta di tutti i giorni. E, dato che per perseguire questo scopo occorrono ambiti di educazione permanente alla fede, ha ridato vita all’Azione cattolica e ha sostenuto le confraternite e i movimenti ecclesiali, che, attorno a lui, si sono scoperti una cosa sola, chiamati allo stesso compito dell’evangelizzazione.
Anche la promozione della «Scuola» della fede, la catechesi per gli adulti a livello parrocchiale, perseguiva questi stessi intenti. Nonostante il prodigarsi di molti parroci, non si può certo affermare che abbia avuto un grande successo, anzi, attorno a quest’iniziativa, che si muove in un contesto più difficile, continua ad esserci distacco e scetticismo. Eppure non si vede come i cristiani adulti – in famiglia, nella parrocchia, nel mondo del lavoro o della politica -possano continuare a vivere ed a trasmettere la fede se non riscoprono la peculiarità della loro identità.
Nella Chiesa è sempre stata di grande richiamo la vocazione religiosa. Monsignor Corecco – che per il Giovedì Santo del 1988 scrisse all’indirizzo di tutti i preti la tutto sommato poco conosciuta lettera «La verginità nel ministero sacerdotale» – era convinto che i consigli evangelici vissuti nella comunità cristiana avrebbero potuto dare un contributo non indifferente nella riscoperta del significato dell’identità cristiana da parte di tutti i fedeli. Sostenne perciò la presenza di luoghi di spiritualità in Diocesi ed ebbe sempre una particolare sollecitudine per le religiose ed i religiosi presenti tra di noi. Tenne numerosi ritiri per le religiose, visitò con regolarità le monache di clausura – suggerendo anche qua e là qualche ritocco alla vita claustrale, che ne favorisse la peculiarità – promosse la fondazione di un nuovo monastero di Clarisse a Cademario, sostenne gli eremiti che avevano scelto la nostra regione per condurre la loro vita ritirata. Serbava in cuore almeno ancora una nuova fondazione, che potrebbe anche realizzarsi nel futuro.

Le finanze che scottano

Monsignor Corecco dovette pure dedicare un’attenzione particolare alle finanze della Diocesi, attenzione che gli procurò nuovamente non poche critiche. Eppure mi preme mettere in evidenza che fu in un certo senso costretto a chinarsi su questo spinoso problema.
Anzitutto perché si trovò confrontato con sollecitazioni provenienti dal resto della Svizzera.
Il precario assetto finanziario di un notevole numero di parrocchie, con scarsi patrimoni, senza imposte di culto o contributi comunali, rendeva e rende tuttora impossibile il versamento di stipendi adeguati ai parroci ed ai vicari. Da anni, per sopperire a questa situazione, la nostra Diocesi beneficia di notevoli contributi provenienti dal resto della Svizzera, attraverso diversi fondi di solidarietà. Per fare un solo significativo esempio, nel 1982 addirittura il 74,6% dell’intero ricavato di una colletta alimentata dai sacerdoti di tutta la Svizzera giungeva nella nostra Diocesi. Che cosa poteva pensare un prete del Canton Appenzello, sapendo che il suo contributo serviva anche ad integrare gli stipendi dei suoi confratelli della città di Lugano, terza piazza finanziaria del Paese?
D’altra parte v’era pure la cronica incapacità della Diocesi a finanziare adeguatamente le proprie attività pastorali, cresciute notevolmente dopo il Concilio, e a partecipare secondo il dovuto al finanziamento delle attività ecclesiali a livello nazionale.
Di fronte ai nostri connazionali cattolici, che capivano sempre meno quella che consideravano una nostra colpevole inerzia e che au¬mentavano perciò le pressioni per provocare un cambiamento della struttura finanziaria della nostra Diocesi, monsignor Corecco dovette prendere dei provvedimenti, che permisero – è bene sottolinearlo – una reale diminuzione della dipendenza dalla Svizzera interna, ma che crearono una certa agitazione, anche negli ambienti politici cantonali: si tratta in particolare dell’introduzione dell’imposta di culto nel comune di Lugano, di precise richieste al governo cantonale concernenti il finanziamento pubblico delle Chiese, della creazione del Fondo attività diocesane e del Fondo congrue sacerdoti, alimentati, il primo da contributi liberi delle parrocchie, il secondo da contributi liberi dei sacerdoti.
Così, ironia della sorte, mentre la ricerca di un più equo finanziamento pubblico della Chiesa a livello parrocchiale e diocesano generava forti resistenze a livello politico, un’infelice e tutto sommato ingiusta riforma del regime concernente l’imposta di culto parrocchiale e diffuso malumore nel Ticino, presso tutti gli organismi ecclesiastici del resto della Svizzera essi venivano salutati molto positivamente e considerati un concreto, anche se ancora modesto, gesto di solidarietà nei loro confronti.
L’introduzione dei due fondi diocesani summenzionati non risolveva evidentemente i problemi. Si trattava piuttosto, in mancanza di un’adeguata normativa, di provvedimenti provvisori, che avrebbero per lo meno dovuto aumentare la sensibilità dei fedeli e quella dei poteri pubblici, su questa delicata problematica, lasciata riposare troppo a lungo.
In questo contesto direi che in generale monsignor Corecco ha sperato in un più corretto ed equo rapporto con lo Stato, che ha sempre rispettato nella sua laicità, ma che ha più volte richiamato ai suoi doveri fondamentali, là dove sembra negare spazi alla società civile, di cui la comunità cristiana è, nel nostro Paese, pur sempre una componente non indifferente.

Il «Sonderfall»

Tornando al rapporto con i cattolici del resto della Svizzera, esso non si è evidentemente limitato alle questioni finanziarie. Il travaglio della Chiesa che è in Svizzera, dalle alterne vicende della Diocesi di Coira alla contestazione sempre latente e spesso rumorosamente manifesta, non l’ha lasciato indifferente, ma una valutazione della sua partecipazione alla Conferenza dei Vescovi svizzeri mi sembra prematura.
Ritengo tuttavia che il suo contributo principale alla Chiesa che è in Svizzera, troppo spesso compiaciuta di apparire un caso particolare – l’ormai classico Sonderfall -, sia stata semplicemente la testimonianza del suo ministero episcopale, in cui ha mostrato che la sollecitudine per la propria Chiesa particolare non è per nulla in contrasto con il sereno e concreto riconoscimento dell’appartenenza all’una ed unica Chiesa cattolica, raccolta attorno al Papa.
É infine ancora vivo nella memoria dei più il suo ministero durante la malattia che lo ha messo a dura prova soprattutto negli ultimi quindici mesi della sua vita. È stato un periodo difficile, non solo a causa del dolore e della gravità della malattia stessa, ma anche perché ha messo radicalmente in discussione il suo spirito d’iniziativa e non gli ha permesso di realizzare alcuni progetti, come l’introduzione delle zone pastorali – per le quali, non a caso, la lettera pastorale che ha pubblicato il 4 novembre 1994 sostituisce un Decreto formale -, o di vedere stabilizzate alcune opere – come la Facoltà di teologia – per la quale il finanziamento a lungo termine rimane una preoccupazione.
Eppure non ha nascosto la sua difficoltà e ciò l’ha avvicinato in modo, fino ad allora inimmaginabile, a tutta la popolazione, credente e non credente. Ma è l’offerta che ha saputo fare della sua sofferenza e della sua vita, che l’ha reso un testimone, in cui la paternità del Vescovo, di cui aveva parlato fin dalla sua prima omelia, è emersa compiutamente.
Il Vescovo Eugenio Corecco non è sempre stato capito, non è sempre stato amato e forse è entrato nel cuore di tanti fedeli solo negli ultimi anni della sua vita. Eppure non si è mai stancato di operare perché crescesse, nei credenti e anche nei non credenti, la conoscenza dell’originalità della fede cristiana e della missione della Chiesa nel mondo, nella convinzione che solo dei cristiani coscienti della loro identità sono un reale servizio alla società, che è in ogni caso da costruire con tutti gli uomini di buona volontà.

La nostra entusiasmante terra di condivisione

di don Ernesto William Volonté

Ci sono immagini di una persona che, impresse nella memoria, la definiscono per il resto del tempo.
Incontrai per la prima volta mons. Corecco al Buffet della Stazione di Lugano. Era il settembre 1970. Una giornata piena di sole e, per me, con la sensazione di grandi avvenimenti sospesi nell’aria tiepida.
Il giovane professore lasciava a Monaco la vivace compagnia dei giovani assistenti del “grande vecchio” della canonistica cattolica: Klaus Mörsdorf, per occupare la cattedra di diritto canonico alla Facoltà di Teologia di Friburgo. Nel frattempo le sue cure erano già rivolte agli studenti cattolici che andavano aggregandosi in quello che sarebbe poi divenuto il Movimento di Comunione e Liberazione in Svizzera. É in questa dimensione che lo incontrai ini¬zialmente a Lugano, ilare e sorridente come uno che si trova a casa sua, tra i suoi. Parve persino affascinante – per me venuto dalla troppo grande metropoli milanese – quel giovane professore, in mezzo a una decina di ragazzi ai quali distribuiva una familiarità, appena contenuta dall’età e dai doveri del proprio stato.
Vidi, guardandolo, ripetersi quella scena così bene tratteggiata da Jean Leclercq quando, scrivendo degli inizi della vocazione monastica di S. Bernardo di Chiaravalle e dei suoi numerosi parenti ed amici che lo seguirono, li descrive come un’allegra brigata di uomini che, lasciata ogni cosa per amore di Cristo, si strinsero in un sodalizio di fede per la pacifica conquista dell’Europa.
Quel timbro di gioiosa densità missionaria sembrava ritmare il gruppo intorno a don Eugenio. Come dissi ne fui affascinato. Avrei voluto essere dei loro. Lo diventai a Friburgo dove il giovane pro¬fessore vegliava sui primi passi di CL all’Università.
Un movimento ecclesiale non è tale per una sorta di agitato vitalismo temperamentale dei suoi componenti. Un movimento è ecclesiale, perché la vita della persona è costantemente messa in azione verso il proprio destino. Questo, che lo si capisca o meno, è il punto cruciale di ogni movimento ecclesiale: la persona con tutto ciò che percepisce, intuisce, ama e fatica. La persona presa sul serio e amata per quello che è, per portarla a ciò che deve essere.
Don Giussani, il Padre fondatore di CL suole ripeterlo quando racconta del disegno interiore del Movimento, già tutto presente allorquando varcò per la prima volta i quattro gradini di entrata del liceo Berchet di Milano: “l’unica cosa che avevo chiara era che Cristo è tutto per la vita e che l’esperienza di Lui non la si poteva vivere che in comunità”.
“Cristo e la comunità” era anche l’ingenuo – eppure così esaustivo – ritornello che cantavamo in una delle tante canzoni cielline.
L’avventura universitaria l’abbiamo iniziata con questi semplici ed essenziali ingredienti. Tutto il resto era affidato all’acutissima pedagogia di un metodo educativo, che come ogni corpo che cresce, la si scopriva giorno dopo giorno, rimanendo costantemente fedeli all’intuizione iniziale.
Sotto la guida di don Eugenio si respirava in quegli anni pur così impacciati del nostro cammino, un clima missionario, il desiderio di annunciare: “Va’, dillo alle montagne”; “L’amore che vi ho dato portatelo nel mondo”.
Si studiava, quando la coscienza era più vivida, per essere più adeguatamente attrezzati a dare ragione della fede incontrata con la gioiosa fierezza di scoprire che le parole della fede e l’esperienza cristiana erano il compimento del lavorio della ragione.
Nulla di più lontano quindi di un astratto intellettualismo, così facile trabocchetto per gli universitari diligenti.
La Basse-Ville di Friburgo, a volte squallida enclave abitata da stagionali italiani e spagnoli, divenne la nostra entusiasmante terra di condivisione. Le baracche degli operai di
Planche-Supérieure erano i laboratori di una intensa unità tra sapere e carità. La nostra cultura universitaria si doveva confrontare con la solidarietà per un mondo che sembrava essere per noi lontano e diverso.
Il secondo piano del Salesianum, dove abitava don Eugenio, e la disordinata sede di rue de Bethléem, erano il crocevia delle nostre arroventate discussioni e decisioni. Era innegabile che il punto di riferimento obbligato e discreto di questa esperienza era il professor Corecco.
Quegli anni, fecondi di vita, hanno segnato la coscienza e la sensibilità di don Eugenio, divenuto in seguito Vescovo di Lugano.
Basterebbe frugare nei due raccoglitori, conservati gelosamente nella sua biblioteca in Curia, fitti di lettere che noi studenti gli scrivevamo e delle sue sapienti risposte. In quegli scritti c’è già tutta la linea educativa e pastorale che come Vescovo, don Eugenio, avrebbe sviluppata, adattandola a tempi e a tipi umani in parte mutati.
Quando, divenuto Vescovo, stese le linee programmatiche dell’Azione Cattolica volle con sé alcuni, che di quegli anni pieni di fervore furono testimoni. Non per riproporre una stonata copiatura, ma come cavando fuori dal vecchio tesoro di un’esperienza vissuta il frutto che poteva adattarsi alla sua nuova e accresciuta paternità di Vescovo e alla mutata situazione esistenziale.
La sua preoccupazione nel rifondare l’Azione Cattolica erano i giovani.
I movimenti ecclesiali, nati intorno agli anni cinquanta o molto prima, avevano raggiunto una chiarezza di metodo educativo e una solida struttura organizzativa. Per loro la strada era ben tracciata.
Ma che fare per le centinaia di giovani della diocesi non incontrabili dai Movimenti? Le strutture parrocchiali non sempre possedevano un’efficace capacità di annuncio oppure sembrava troppo inconsistente il loro slancio missionario verso il mondo. Occorreva che il Vescovo diventasse direttamente Padre di una moltitudine di giovani lasciati sprovvisti della proposta cristiana.
Stese, lo rammento, nella villa estiva di S. Bartolomeo al Mare, le linee programmatiche della futura Azione Cattolica, quasi sotto un impeto di passione. Era evidente in lui il desiderio di una pater¬nità diretta sui giovani della sua Diocesi.
II carisma della fondazione dell’Azione Cattolica, certamente ispirato e sollecitato da antiche apparenze ed esperienze, prendeva ora la forma del suo cuore, della sua intelligenza, della sua sensibilità.
Fu da noi assecondato, perché era qualcosa di suo, nato con la sua impronta. Quasi che la sua intuizione d’amore per la Chiesa dovesse consegnarla con i tratti caratteristici della sua paternità a qualcosa di nuovo.
Si può ben capire come lo smarrimento, oggi che il Vescovo Eugenio ci ha lasciati, sia avvertito soprattutto da loro, dai giovani.
Se ho ben compreso anche nell’Azione Cattolica sono stati depositati i geni, reperibili or qua or là in ogni movimento ecclesiale di recente fondazione: l’amore alla persona e al suo destino, la pas¬sione per Cristo e per la Chiesa, la dimensione missionaria come normale per l’esperienza cristiana. Il tutto vissuto in una amicizia fraterna che ha i tratti dell’unità e della comunione.
Tra le sue scelte pastorali i giovani, oltre che per una sua natura¬le inclinazione verso di loro, erano pensati come la punta di dia¬mante della nuova evangelizzazione. Occorreva far crescere ed edu¬care un tipo umano che sapesse strettamente coniugare nella pro¬pria persona la fede e la vita, la ragione e la fede, l’identità e il dia¬logo con il mondo, la decisa testimonianza e l’accoglienza di chi an¬cora era in ricerca della fede.
Era cosciente che tra i frutti della modernità esiste quello amaro della schizofrenia interiore della persona: ciò che si crede, se lo si crede, non fa parte della vita. Occorreva quindi procedere alla gioiosa riunificazione della persona in se stessa. Era necessario che Cristo divenisse il centro di questa unità personale profonda e la Chiesa il luogo di questa esperienza liberatrice.
“Una pastorale della persona – andava ripetendo come uno slogan – non delle cose!”. Il Vescovo Eugenio lanciò la sua sfida nell’iniziale diffidenza di molti. Gli unici a rispondergli, come sbucan¬do da ogni dove, furono proprio i giovani. Avevano capito che con lui si poteva intraprendere un’avventura umana segnata dalla Fede.
Non mancò, finché poté, a nessuna giornata mondiale dei gio¬vani. Seguiva il pellegrinare del Papa con invidiabile entusiasmo: a Santiago, Czestochowa, a Denver, a fatica, ormai stremato dal ma¬le, rinunciò a Manila, come per voler insegnare loro, ad abbeverarsi alla più grande sorgente della Chiesa, resa comunione.
Ci mancherà la sua compagnia terrena. Ma, non essendo mai stato uomo di lamentosi ripiegamenti ci direbbe, usando le parole del poeta inglese Thomas Stearns Eliot:

“In luoghi abbandonati
Noi costruiremo con mattoni nuovi
Vi sono mani e macchine
E argilla per nuovi mattoni
E calce per nuova calcina
Dove i mattoni sono caduti
Costruiremo con pietra nuova
Dove le travi sono marcite
Costruiremo con nuovo legname
Dove parole non sono pronunciate
Costruiremo con nuovo linguaggio
C’è un lavoro comune
Una Chiesa per tutti
E un impiego per ciascuno
Ognuno al suo lavoro”.

Da “Cori da La Rocca”

Le parole di una sera il suo testamento al Seminario

di don Azzolini Chiappini

Giovedì sera, 26 gennaio, il Vescovo Eugenio incontra, in Curia, la comunità dei seminaristi del san Carlo. Un incontro atteso a lungo, da tutti, ma specialmente da lui.
Nella sua malattia ha iniziato, sembra, un’altra fase. Durante il mio saluto, a nome della comunità, sta per commuoversi. Poi ci parla a lungo, nonostante la fatica. All’inizio sembra anche una difficoltà pronunciare le parole, ma poi il suo eloquio si fa più fluido, normale.
Noi tutti abbiamo vissuto con profonda emozione l’ora di quell’incontro. Alla fine, il Vescovo Eugenio ha espresso la sua gioia, il desiderio di ripetere quel momento. Ma è stato l’ultimo per la comunità: e così le parole di quella sera acquistano un significato particolare. Non intendo riassumere qui il lungo discorso, ma ricordare un suo pensiero, ripetuto, insistito, che è stata, anche, la ripresa delle ragioni del ritorno del seminario a Lugano.
Il Vescovo Eugenio ci ha dunque parlato della vita di seminario, come di una vita di comunione, un’esperienza di comunione fraterna che deve preparare quella presbiterale. La fraternità di tutti i presbiteri attorno al Vescovo.
Questa è la vera, profonda ragione, per cui ha voluto il ritorno del seminario a Lugano: avere più vicini i giovani che si formano al ministero nella Chiesa, al presbiterato. Ha voluto il seminario a Lugano, e di conseguenza ha voluto la facoltà. Essa ha, certo, una finalità più larga. Ma senza il ritorno del seminario diocesano a Lugano, la facoltà di teologia non sarebbe mai nata.
E occorre precisare qualche cosa a proposito della facoltà.
Quando il Vescovo Eugenio lasciò trapelare l’intenzione e poi annunciò il progetto, si manifestarono perplessità e anche opposizioni. Da parte di qualcuno, non soltanto in Ticino, si vide nella sua iniziativa una scelta contraria alla facoltà di teologia di Friborgo.
Già allora egli ha ripetuto diverse volte a me, ma non soltanto a me, che non si era mosso contro Friborgo, che la sua facoltà non voleva essere quella buona contro quella cattiva. Semplicemente: voleva fare qualcosa di diverso, soprattutto per quanto riguarda il metodo d’insegnamento e di apprendimento; qualche cosa di diverso nel tentativo di superare il frazionamento attuale per una visione più globale della teologia, nella sua funzione di “pensare la fede” e nella sua dimensione ecclesiale. E per quanto riguarda l’ecclesialità, il Vescovo Eugenio aveva pensato e voluto, nel piccolo Ticino, un centro vivo, un polo di attrazione soprattutto al servizio della Chiesa dell’Europa orientale. Non è questa la sede, né il momento, in ogni caso prematuro, di fare bilanci. Posso soltanto dire questo: mons. Corecco l’ha voluta in questo spirito e con queste intenzioni. E la facoltà c’è, funziona, e attira l’attenzione di molti dentro e fuori l’ambiente ecclesiastico.
Ma voglio tornare al seminario, perché è soprattutto di esso che intendo parlare in questo ricordo del Vescovo Eugenio, che vuole essere una testimonianza personale, perché il tempo di bilancio e riflessioni più approfondite verrà più tardi.
Ricordo i primi incontri, quando mi parlò della questione del seminario le prime volte, nella primavera del 1992, e della chiara visione che aveva della formazione dei futuri presbiteri. Egli pensava al prete di oggi, per la società d’oggi: dunque una forma concreta del ministero, in parte diversa da quella tradizionale. In questo senso, direi una forma più libera. Nello stesso tempo, però, sottolineava la serietà dei fondamenti: la continua risposta al dono del battesimo, la crescita nella fede, l’attenzione ai valori umani della persona, una sincera e solida visione teologica.
Sempre tornava il tema dell’amicizia, che lui ha vissuto profondamente. Il seminario come luogo in cui si fa anche questa esperienza, che però non deve rimanere chiusa in un orizzonte naturale, ma maturare nella fraternità del presbiterio riunito attorno al Vescovo. Era, questa, un’idea forte, quasi, in senso positivo, ossessionante.
Ed è stato questo, l’ho ricordato all’inizio, anche il tema dell’ultimo incontro dei seminaristi con il Vescovo Eugenio: così, quelle parole della sera del 26 gennaio, sono diventate il suo testamento al seminario.
Ma su questo tema mi tornano altri ricordi. Rivivo alcuni incontri, specialmente nell’ultimo anno, in cui egli manifestava il suo cruccio, una vera sofferenza, per il fatto di poter venire così poche volte in seminario. La malattia gli aveva imposto una contraddizione che gli pesava: aveva voluto il seminario a Lugano, e da quando era qui aveva meno possibilità di incontri.
In queste occasioni rimpiangeva i momenti passati con i seminaristi, allora ancora a Friborgo, a Villars sur Ollon in Vallese per una settimana sciistica. All’inizio dell’ultima estate, quando già i dolori erano per lui una compagnia quotidiana e continua, mi diceva che dovevamo pensare e programmare una settimana in montagna, i seminaristi con lui.
Si ripete e si sente spesso che per un Vescovo il seminario è al centro delle sue preoccupazioni, perché ogni Vescovo lo concepisce come il cuore della diocesi. Sembra, anche se è un’affermazione vera, un luogo comune.
Credo di poter dire che per il Vescovo Eugenio è stato veramente così, sia a livello diocesano, sia a livello della collegialità episcopale, nella responsabilità per tutta la Chiesa. Lo dimostra, questo, la sua attiva, e da molti notata e apprezzata, partecipazione al sinodo dei vescovi “sulla formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali” del 1990.
La mia, voleva essere soltanto una testimonianza e sta tutta in poche parole, che sembrano quasi comuni, ma che, prese sul serio, esprimono una parte importante della vita e del ministero episcopale del Vescovo Eugenio: egli ha veramente amato il seminario e la “sua” facoltà di teologia.

«Dobbiamo fare in fretta per non perderli tutti»

di don Carmelo Andreatta

Le idee le aveva chiarissime e lo si percepiva subito, ad ogni incontro con lui: “Dobbiamo fare in fretta, lavorare sodo, altrimenti nel giro di tre anni li perderemo tutti” – mi diceva riferendosi ai giovani.
Un’uscita così mi si impresse nella memoria, subito. Era una di quelle frasi destinate a martellarti dentro e a non lasciarti più in pace. Il Vescovo Eugenio l’aveva pronunciata dal suo letto d’Ospedale, al S. Giovanni, i primissimi tempi della sua malattia. La cer¬tezza era che a lui interessavano i giovani a tal punto da dimenticar¬si quasi della sua malattia.
“Prendi una sedia – mi disse ancora – che continuiamo a lavorare!”
Così, quel pomeriggio – erano circa le ore 15.00 – cominciammo a buttar giù qualche idea per lanciare ai giovani il Pellegrinaggio a Denver per l’VIII Giornata Mondiale della Gioventù.
Lavorare! La fede, continuava a ricordarcelo, è un lavoro. Con lui era un lavorare pieno di gusto, con punte entusiasmanti, con momenti sofferti ma che sentivi preziosissimi per crescere nella Comunione:
“Vi pongo di fronte (come Gesù davanti al giovane ricco) alla scelta tra la vita e la morte, tra la felicità e la tristezza, la mancanza di signifiato nelle cose che facciamo e nella vita che viviamo, la possibilità di rea¬lizzare noi stessi oppure non realizzarci. Non è così semplice; la maggior parte della gente non realizza se stessa: vive, ma non realizza l’esistenza perché non ha capito a che cosa è stata chiamata, il perché ultimo di tutto questo. Noi dobbiamo capire la radice più profonda della nostra esistenza.
Siete chiamati a diventare grandi per un’esistenza vera, ad essere coscien¬ti di ciò che vi è capitato con la nascita e con il Battesimo”.
Il “lavoro della fede” doveva essere il primo tra tutti gli altri!
Da questo nasceva un’esperienza intensissima di Comunione che a volte si faceva così tangibile da farti esclamare: “Questa sì che è vita!” Era quel che di più vero il Vescovo Eugenio voleva con tutto se stesso far provare ai suoi amici appena affacciati alle vicende della vita, in una società che lui non esitava a definire “tremenda”, “terribile”: “Non è facile per voi viverci dentro!”
L’Azione Cattolica doveva essere solo uno strumento, diventare un punto di riferimento forte “per non perdersi”, per maturare un’autentica adesione al Signore, nell’esperienza fresca e gioiosa ma anche faticosa della Comunione ecclesiale.
Sì, Azione Cattolica, al di là degli schemi passati, come strumento moderno, agile, vivo, efficace, per una genuina esperienza di Chiesa. Lui chiedeva a tutti solo fedeltà: “lo vi domando fedeltà. Solo nella fedeltà ci educhiamo nella fede (…) Prendete sul serio la chiamata del Signore. Siete qui perché avete sentito l’urgenza di rispondere, di accettare, di rischiare. Se vivrete tutto questo come scelta, imparerete a vivere la Chiesa come l’evento più importante della vita (…) Praticamente – ci diceva ancora – uno può sentirsi un “verme”, ma se ha sentito dentro “qualcosa” deve credere che il Signore lo può cambiare fino in fondo, costituendolo apostolo, che è la massima responsabilità alla quale Dio ha potuto chiamare gli uomini”.
Ed io, non solo cambiavo io dentro quest’Avventura, ma vedevo realmente cambiare i giovani, poco a poco, in quella paziente ma attiva attesa del Vescovo Eugenio: fermo nella Verità, “senza sconti per nessuno “, esigente nel richiamare il cammino da seguire, ma anche paziente e padre delicato, umilmente dedicato a ciascuno con l’atteggiamento di chi ha cura estrema di ciò che gli è caro.
Anche con me sapeva essere esigente, giustamente fermo e nello stesso tempo amico, compagno nel più grande rispetto e affetto.
All’inizio del cammino di ACGiovani insistette molto sulla formazione che comunque non doveva essere un “soddisfare delle curiosità intellettuali”. Saremmo stati fuori strada. Ci ricordava sempre che la formazione era per la vita, per crescere dentro un’amicizia forte tra noi fondata su Cristo. “Trovatevi spesso, verificate il cammino, pregate, rileggete quanto vi dico, riflettete, vivete!!!” Così nasce anche poco a poco la “Linea spirituale dei giovani di Azione Cattolica” a lui tanto cara, come strumento attraverso il quale poter continua¬mente esaminare le scelte, la vocazione, l’azione, la crescita spirituale! L’ha tracciata, il 3 settembre 1994, per coloro che lui riteneva essere “il cuore dei Giovani di Azione Cattolica “, gli Animatori impegnati (impegno assunto in modo ufficiale il 14 novembre 1993).
La nostra doveva diventare un’esperienza missionaria, secondo il carisma di Azione Cattolica: “La fede, se è vera, si comunica e comunicandola si rafforza!”
Il Vescovo Eugenio rivoleva l’AC di sempre e quindi “al servizio”. Al servizio dei sacerdoti, nelle parrocchie, al servizio del Vescovo per la Pastorale diocesana. I giovani di AC li voleva “lanciati” dentro la Chiesa, con la carica di chi sa, di chi è finalmente cosciente della sua dignità cristiana, consapevole d’essere chiamato alla santità, al servizio della santità degli altri.
“Voi giovani, adesso, vi dovete occupare dei giovani, dei ragazzi, nelle vostre parrocchie, nelle vostre regioni (…) Siete la primissima generazione di un fatto nuovo che deve nascere. Non potete più guardare alla vostra vita come se fosse solo vostra. Dovete guardarla nella prospettiva delle persone che vi seguiranno. State per fondare qualche cosa di nuovo, come questi Ebrei che (liberati dalla schiavitù egiziana) erano “quattro gatti'” nel deserto, decimati dalle pestilenze, ma erano coscienti di porta¬re una promessa: quella che il Signore aveva fatto al loro padre Abramo di diventare più numerosi della sabbia del litorale al mare (…) Questo non è un orgoglio, una stupidissima ambizione, ma è la coscienza della responsabilità che avete di fronte alle generazioni dei prossimi anni”.
Siccome all’AC è stato dato il dono di “servire” in modo parti¬colarissimo e in strettissimo rapporto coi pastori la Chiesa, eccoci impegnati nella pastorale giovanile parrocchiale e soprattutto, per questi tempi, diocesana. Corsi di formazione, campi scuola, esercizi spirituali, pellegrinaggi, momenti ricreativi, giornate diocesane…
Tutto era ed è campo da servire, vigna da coltivare!
I frutti non sono tardati. Non è comunque di numeri che qui voglio parlare. É la sostanza dell’esperienza che conta: stanno pian piano delineandosi giovani appassionati della loro Chiesa!
Da quel lontano 1989, da quel Congresso diocesano di AC ne sono successe di cose. Tutto frutto di un atto coraggioso, di un atto di fede, com’era solito fare lui creativo com’era, da lasciar di stucco tanti e, lo confesso, anche il sottoscritto che all’inizio non lo conosceva e quindi non riusciva a comprenderlo.
Oltre ai giovani sono all’opera i ragazzi, gruppi di adulti che hanno ripreso in mano il “bastone del pellegrino”, e un gruppo meraviglioso di famiglie a cui il Vescovo teneva tantissimo! Quanta vita dal “crederci fino in fondo”!
Ora tocca a tutti noi non vanificare il lavoro, non venir meno alle consegne!
Sì, un Vescovo d’un’umanità squisita, tutta da scoprire; d’una Verità cristallina e scomoda; d’un’amicizia forte e sincera!
Un Maestro, una Guida, un Pastore che ricorderemo per un pezzo, per sempre, poiché ha segnato non solo il passo di tutti noi, ma anche e profondamente il cuore! E non solo dei giovani!

La sofferenza e il tempo ultimo

di Padre Mauro Giuseppe Lepori O.Cist.

Come si può pretendere di dire qualcosa sulla sofferenza e il tempo ultimo di una persona, sull’esperienza spirituale di un uomo di Dio nell’imminenza del suo incontro definitivo col Signore? E quante altre persone potrebbero parlarne molto meglio di me! Penso ai suoi famigliari, a chi lo ha curato e assistito quotidianamente, a chi ha condiviso la sua responsabilità pastorale…
È vero che monsignor Corecco si è lui stesso espresso pubblicamente e sinceramente sulla sua personale esperienza della sofferenza e della malattia. D’altra parte, in lui c’era un clima di silenzio sulla sua persona che interrompeva raramente. La sua abitudine di fermarsi a pensare quel che diceva, che a volte al telefono metteva a disagio il suo interlocutore, si era accentuata coll’approssimarsi della morte.
E sempre più, negli ultimi tempi, era il silenzio a comunicare in lui.
Quasi per caso sono arrivato in Curia il 14 febbraio, il giorno in cui il Vescovo Eugenio sembrava essere entrato nella piena consapevolezza della morte inevitabile e imminente. Consapevolezza così forte da spingerlo a predisporre tutto come se avesse dovuto morire quel giorno stesso.

«Il tempo si fa breve»

Da lì veniva il comunicato stampa che scuoteva tutti i ticinesi con la sua domanda di accompagnarlo con la preghiera durante il «tempo ultimo». Espressione misteriosa per i più, e addirittura incomprensibile per chi è abituato a calcolare il tempo solo in senso quantitativo.
Di fatto, già molti mesi prima il Vescovo era solito ripetere: «Il tempo si fa breve!»; ma lo diceva più per definirne l’intensità che per misurare i mesi di vita che gli sarebbero rimasti.
Mi scriveva nel giugno del ’94 dalla Salette: «È indubbio che tutto quello che mi sta capitando è un’immensa grazia di Dio. Mi costringe a vivere l’essenza del mistero della vita. Se avessi sempre vissuto a questo modo, la mia vita sarebbe stata di un’intensità straordinaria. Non sto recriminando nulla, sto solo facendo una constatazione.
Ciò che conta è di essere arrivato almeno oggi a questa esperienza in cui tutto è chiaro almeno dal profilo del giudizio. Dal profilo emotivo faccio evidentemente molta più fatica e tante volte ho voglia di scoppiare in lacrime da solo».
Sarà questa una costante della posizione di monsignor Corecco di fronte al dramma della sua malattia: da un lato la chiarezza del giudizio di fede, ma dall’altro anche una grande trasparenza nel vivere la paura, nell’esprimerla e nel chiedere umilmente compagnia.

Voglia di piangere

«Incomincio a scoraggiarmi, mi scriveva il 23 aprile 1994, e qualche volta ho voglia di piangere perché mi pare di essere avviato verso la morte. Per di più ho quasi il terrore di quel momento. Uno dovrebbe essere felice di incontrare Cristo come san Paolo: “per me vivere è Cristo e morire un guadagno” (Fil. 1,21). Ma questo livello di fede non mi è dato di toccarlo».
Questa tensione fra la nettezza del giudizio di fede e la fatica della propria libertà ad abbracciare il dramma della sua vita lo ha accompagnato, con intensità più o meno grande, durante tutti i tre anni di malattia.
Mi faceva pensare al metodo educativo che applicava con gli studenti che vivevano con lui e gli altri giovani con cui veniva a contatto. La sua prima preoccupazione non era anzitutto quella di correggerci, ma di aiutarci ad avere il giudizio di fede su quello che vivevamo, anche su quello che vivevamo male. Ed è vero che poi la vita cambiava, al calore della sua amicizia paterna, con l’aiuto della grazia e un po’ di sforzo. Il giudizio vero, ben capito, e soprattutto testimoniato da don Eugenio, consentiva alla nostra libertà di mettersi in cammino, di desiderare la verità e la pienezza della vita, ed è questo che permette alla grazia di Dio di operare nelle persone.
Ma appunto negli ultimi tempi, era come se il Vescovo stesso sentisse tutta la distanza fra quello che intuiva e il «sì» che era chiamato a pronunciare.
«Ho l’impressione di star pagando tutto quello che ho detto agli altri sulla malattia e la sofferenza!», mi ha ripetuto varie volte durante gli ultimi mesi.
Di fatto, affermando quello che aveva affermato sulla sofferenza, il Vescovo Eugenio aveva espresso la sua fede e il suo «sì».
Per questo gli ho risposto ricordandogli una frase di Adrienne von Speyr che certamente aveva già letto, ma che lo ha colpito come se la sentisse per la prima volta:
«La santità non consiste nel fatto che l’uomo dà tutto, ma nel fatto che il Signore prende tutto. Tra offerta e esaudimento vi è sempre come un contrasto, uno sbaglio, una svista. L’uomo offre tutto forse a parole, pronuncia l’offerta a mezza bocca. Ed egli lo immagina sempre come qualcosa di limitato. (…) E il Signore l’ascolta come se fosse stata pronunciata nel modo dovuto; e quando egli prende tutto nel suo senso, allora probabilmente l’uomo grida e rimpiange quello che gli è stato preso; ma la grazia della santità sta appunto nel fatto che il Signore permette la svista».
Fin dall’inizio, e sempre di più, Eugenio ha capito che il problema non era solo la malattia. Quel che era in gioco era il suo rapporto col Signore e il suo «sì» a Lui. Desidererà fino alla fine guarire e vivere, ma nella consapevolezza crescente che l’essenziale della questione era ad un altro livello, al livello della fede, della vocazione a seguire Gesù Cristo fino in fondo.

La grazia più grande

Nel giugno del ’94 mi scriveva:
«Ho fatto un pellegrinaggio blitz a Lourdes (…). Abbiamo pregato 48 ore senza interruzione e sono tornato rasserenato. Ho fatto anche un’ottima confessione, di quelle riassuntive, ma di cui si ha bisogno e che non sempre si riesce o si ha il tempo di fare. Sulla carta sono pronto. Seguendo la processione del Santissimo, improvvisamente mi sono sentito come uno degli apostoli che andava dietro a Gesù intanto che parlava e faceva miracoli. In quel momento gli ho chiesto 6 anni di vita (…), prima di tutto non per me ma per concludere le cose iniziate (specialmente la Facoltà e l’Azione Cattolica). Costa moltissimo anche auto-limitarsi così, ma chiedere la guarigione tout-court mi sembra indebito e troppo facile. È comunque un passo avanti anche nell’accettazione di lasciarsi prendere la vita (…). Continuiamo comunque a pregare prima di tutto per morire con fede totale, perché questa è e rimane la grazia più grande».
Il Vescovo non poteva vivere la malattia senza pensare alla sua Diocesi. Di fatto l’ha sempre giudicata in relazione al suo essere Vescovo e mai come se si trattasse di un problema individuale. Se chiede una guarigione, o piuttosto una «tregua», la calcola essenzialmente in rapporto alla sua missione episcopale, proponendo anche a Dio una ragione pastorale.
È sulla base della coscienza della sua vocazione che mons. Corecco ha lottato contro la malattia. Per lui si trattava essenzialmente di impedirle di ostacolare il suo ministero. Una lotta corpo a corpo, in cui sembrava non voler cedere al nemico che lo insidiava assolutamente nulla del suo campo. Da lì la sua incredibile sopportazione dei dolori pur di poter partecipare a incontri, pellegrinaggi, cerimonie, ecc. Le terapie dovevano durare il meno possibile per permettergli di ritornare al più presto al lavoro per il suo gregge.

Dalla lotta all’offerta

Poi, progressivamente, e soprattutto durante gli ultimi mesi, questa lotta corpo a corpo è diventata abbraccio. Non nel senso di una rassegnazione a morire, ma nella progressiva scoperta che quella malattia, più che opporsi alla sua missione di pastore, gli permetteva di viverla con una intensità molto più grande.
Già un anno prima di morire aveva detto in un’intervista televisiva che si era accorto di essere più utile agli altri nella malattia che nella salute. Ma forse allora lo diceva più constatando la reazione di preghiera e di affetto della sua gente che consapevole di quello che la sua conformazione a Cristo crocifisso poteva generare.
Ma negli ultimi mesi, nelle ultime settimane, era evidente il suo passaggio dalla lotta all’offerta.
Esattamente un mese prima della sua morte lo sento al telefono. Una telefonata che prolunga più del solito e durante la quale mi esprime la sua preoccupazione nel vedere certe sue iniziative in Dio¬cesi bloccarsi o addormentarsi a causa del suo stato. «Ci sarebbe an¬cora un lavoro enorme, ma ormai non so se avrò ancora mesi…»
Ma, come al solito, taglia corto sul parlare di sé e si interessa di come vado io; mi dice che devo riposare di più, di lasciar perdere certi impegni, ecc., e il «Coraggio!» che mi dice ad un certo punto lo sento ancora dentro, carico di tutta la sua carità paterna e della sua attenzione sincera.
Il giorno dopo, gli scrivo una lettera che non avrei mai osato scrivergli prima:
«Mi sento di dirti, riguardo a quello che mi dicevi ieri al telefono (un certo scoraggiamento di fronte a quello che dovresti ancora fare per la Diocesi), che intuisco che è come una tentazione. (…) É vero che apparentemente può sembrare che tutto quello che hai lanciato si addormenta e minaccia di crollare. Ma è uno sguardo ancora umano. In realtà hai seminato, e molto. Il frutto verrà, magari totalmente diverso da quello che avresti immaginato. Ma c’è un tempo in cui il seme sparisce sotto la terra e sembra morire, sembra disfarsi. Ho l’impressione, anzi la certez¬za che quello che il Signore ti chiede ora è una tappa ulteriore rispetto alla semina e che il Signore ti fa letteralmente portare l’apparenza di morte attraverso la quale tutte le tue iniziative ecclesiali daranno frutto, molto frutto. (…) Spero sempre nel miracolo, ma anche se avverrà non cambia nulla a quello che ti è chiesto ora, e ho come l’impressione che le sollecitazioni ad agire, che probabilmente ti assillano da ogni parte, ti possano di¬strarre dalla profondità delle doglie del parto della tua Chiesa in cui già ti trovi. Ed è quella l’opera più preziosa, più conforme a Cristo per te in questo preciso momento. (…) Se deve veramente esserci un distacco terreno, quanto è importante che in questi ultimi tempi implori e ottieni lo Spirito Santo per noi, per la tua Chiesa, per i giovani che hai aggregato: lo Spirito che il Signore ha dato a te e che ti ha permesso di generarci ad una vita ecclesiale sempre più feconda e matura. (…) Ho fatto spesso l’esperienza in questi mesi che lo spazio fra quello che ci sarebbe richiesto e l’impossibilità a realizzarlo adeguatamente è proprio quello che il Signore rende più fecondo, se l’impotenza si afferra a Lui: “Senza di me non potete far nulla”. Certo per te questa esperienza è di una drammaticità che neanche posso immaginare. Per questo però anche il frutto, il “molto frutto” sarà anche molto più grande…».

«Sono perfettamente d’accordo»

Qualche giorno dopo mi dirà per telefono: «Su quello che mi hai scritto, sono perfettamente d’accordo!».
In realtà, non avevo fatto altro che dirgli quello che già vedevo in lui. Ma è vero che ci sono momenti in cui si ha bisogno di sentirsi dire e ripetere anche le cose che già si capiscono e si vivono.
Sta di fatto che le tre volte che l’ho visitato durante l’ultimo mese ho visto sul tavolino presso il suo letto la mia lettera, lì aperta, esposta a tutti gli sguardi, come se per tre settimane il Vescovo avesse voluto ripetere tacitamente che continuava ad essere perfettamente d’accordo.
Il 14 febbraio, mentre sto accanto a lui, dopo un lungo silenzio mi dice: «Non è possibile morire così!». «Così come?», gli chiedo. Dopo un altro lungo silenzio: «È troppo facile; è troppo dolce. É come addormentarsi!». E a più riprese ripete: «È un mistero!».
Poi, prima di celebrargli la Messa in camera, gli chiedo per quale intenzione desidera che la celebri: «Per una buona morte!», e per la prima volta lo vedo piangere.

La pace della preghiera

Ormai, per coloro che lo attorniano, è venuto il tempo in cui solo la carità e la preghiera sono presenza adeguata. Io ripensavo ad un’esperienza che il Vescovo Eugenio mi aveva fatto fare subito dopo Natale, all’Inselspital di Berna. Quel pomeriggio pensavo che avremmo avuto il tempo per una lunga conversazione. Ma la sua sonnolenza invincibile lo impediva. «Dormi pure, Eugenio, non preoccuparti», gli dico, impietosito dai suoi vani sforzi di dialogare. «Va bene, mi risponde, tu intanto stai qui e prega».
Per un’ora e mezza ho pregato accanto a lui, col sottofondo del suo respiro già irregolare e affannoso, mischiato al pianto di un bambino qualche camera più in là.
Quando si è svegliato, si è scusato di aver dormito tanto. «Non importa, gli dico, ho pregato…». Allora parliamo della preghiera, della vocazione monastica, del capitolo 15 di san Giovanni… Uno dei colloqui più belli che abbia avuto con lui. E alla fine aggiunge: «La tua preghiera mi ha messo la pace nel cuore».
Da quel momento è stato chiaro fra di noi che restavamo uniti a quel livello. Per questo non riuscivamo quasi più a parlarci. Mi chiedeva di pregare e basta, come lo chiedeva a tante altre persone che lo circondavano o che venivano a trovarlo. Chiedeva soprattutto di recitare il rosario, e lui seguiva come poteva.
La sera, lo voleva spesso recitare camminando lungo il corridoio davanti al suo studio, sostenuto da chi lo assisteva.
Forse uno degli ultimi di questi rosari in cammino fu la sera della domenica 19 febbraio. Ci eravamo ritrovati lì in cinque o sei dei suoi «figli». Il Vescovo ha voluto che recitassimo il rosario tutti as¬sieme, seguendo il suo penoso camminare lungo il corridoio. Per lui, una vera Via Crucis.
Ogni volta che il gruppetto arrivava davanti alla porta della camera gli si chiedeva: «Continuiamo?». Per tre volte ha voluto percorrere tutto il corridoio, sempre più faticosamente. Dopo la quarta decina, ha accettato di rientrare in camera, non senza aggiungere l’intenzione che non consentiva mai di omettere alla fine di ogni rosario: «Per il Santo Padre!».

Il contratto dell’offerta

Una grande pace irradiava dalla sua persona, pur dentro la tragicità della morte evidentemente vicina. Il seme stava semplice¬mente morendo, ma l’offerta era già fatta, era in un certo senso già compiuta. Il Vescovo Eugenio non doveva più preoccuparsi di saper dire di «sì» al Signore «con fede totale». Il Signore stesso aveva «permesso la svista» e l’offerta era già accettata. Non era più Euge¬nio che si donava, era il Signore che lo prendeva.
Tutti avevamo proposto per tre anni a Dio nella preghiera, con novene e pellegrinaggi, con le terapie e le cure, tante altre vie. Ma ormai era chiaro che il Signore dal Vescovo Eugenio voleva essere seguito così. Non gli ha concesso neanche i miseri sei anni che lui, con tutta semplicità e schiettezza Gli aveva proposto, quasi come Abramo quando aveva proposto al Signore di salvare Sodoma se vi avesse trovato dieci giusti.
Ma se il Signore non ha accettato la modalità del servizio alla Diocesi che mons. Corecco Gli proponeva, lo scopo dell’offerta rimaneva lo stesso: i suoi giovani, la Facoltà teologica, i preti e tutto il suo gregge.
La mia povera lettera era lì, come un contratto fra il Vescovo Eugenio e il Signore. Il contratto dell’offerta, del dono della vita del pastore, del padre, per il suo popolo.
Non c’era da fare altro che aspettare e lasciarsi prendere, unito a Cristo nei Sacramenti, unito alla Madonna tramite l’unica preghiera vocale che riusciva ancora un po’ a seguire, unito al Papa, unito ai suoi cari e ai suoi amici, segno dell’affetto di tutto un popolo.
Mentre lasciavo il Vescovo Eugenio per l’ultima volta, già in agonia, la vigilia del suo trapasso, ho ripreso la lettera dal tavolino. Ormai lui non aveva più bisogno di questo misero promemoria per ricordarsi che quello che viveva era l’amore più grande, quello che dà la vita per i suoi amici (cfr. Gv 15,13).
Ora siamo noi che dobbiamo ricordarcene.