4. Le zone pastorali

Nota pastorale, Settembre 1994

Introduzione
Cari confratelli nel sacerdozio
e cari fratelli e sorelle nel Signore,
il Concilio Vaticano II, trattando dell’ufficio pastorale dei Vescovi nella Chiesa (Decreto Christus Dominus, 16), raccomanda una particolare attenzione all’attività di governo del popolo di Dio, affinché il messaggio evangelico fruttifichi nel modo più pieno: «Per essere in grado di meglio provvedere al bene dei fedeli, secondo il bisogno di ciascuno, (i Vescovi) si adoperino di conoscere a fondo le loro necessità, e le condizioni sociali nelle quali vivono, ricorrendo, a tale scopo, a tutti i mezzi opportuni».
Tra tali mezzi, lo stesso documento segnala la revisione dei confini territoriali delle diocesi e, di conseguenza, anche quelli delle entità territoriali minori, quali i Vicariati foranei e le parrocchie.
Da alcuni anni il Consiglio del Clero e il Consiglio Pastorale Diocesano si sono posti il problema della suddivisione della Diocesi in zone pastorali, per renderle più funzionali alle esigenze della nuova evangelizzazione.
Al pari di qualsiasi altra azione pastorale, anche la definizione delle zone pastorali deve essere intesa come servizio alla fede. Come tale richiede da parte di tutti i Parroci una disponibilità ed un impegno del tutto particolari per realizzarne le finalità a vantaggio dei fedeli.
La diffusione della fede e la realizzazione della comunione ecclesiale hanno da sempre, e in modo ricorrente, provocato trasformazioni territoriali, il cui scopo è stato quello di offrire nuovi presupposti ambientali, atti a favorire e incrementare la presenza della Chiesa nelle diverse situazioni socio-culturali. Non vi è dubbio che queste, negli ultimi quarant’anni, hanno subito profondi mutamenti anche nella nostra Diocesi.
Un’analisi di questi mutamenti di ordine generale e nell’identità dei cristiani è stata pubblicata nel 1974 nel volume Partecipazione religiosa e immagine della Chiesa nel Ticino, completato, per il problema giovanile, dalla ricerca di Don Claudio Laim, La religiosità dei giovani ticinesi (Roma, 1985).
Benché non abbiano la pretesa di essere necessariamente esaurienti, queste analisi offrono molti elementi utili di giudizio, validi anche per la realtà attuale.
Tuttavia, per quanto riguarda lo specifico riordino del territorio diocesano in zone pastorali, mi sembra si debba tener conto, come movente immediato, di due fenomeni diversi: quello della urbanizzazione e quello della così detta “post-cristianità”.
L’urbanizzazione è il risultato sia dell’aumento della popolazione, sia della sua emigrazione verso il fondo valle e dell’insediamento nei grandi centri urbani.
L’epoca post-cristiana, che coincide con la fine della modernità e l’inizio del post-moderno, non significa certo, come alcuni pretendono, la fine della missione della Chiesa, bensì il fatto che larghi strati del popolo cristiano, pur mantenendo un legame con la fede e l’istituzione ecclesiale, hanno assimilato in modo più o meno consapevole criteri secolari di vita quotidiana, che evidenziano sempre di più la loro inconciliabilità con una concezione cristiana della vita. Per un’analisi di questo fenomeno, che coinvolge tutto l’Occidente rinvio alle prime due lettere pastorali, Siate forti nella fede del 1987 e Annunciate il Vangelo del 1989.

1. Le trasformazioni territoriali della Chiesa in Svizzera e nella nostra Diocesi.
La Chiesa dopo essersi adeguata territorialmente alle circoscrizioni provinciali dell’Impero romano, per far fronte alla nuova situazione sociale e politica, creata dall’irrompere sulla scena europea dei popoli germanici, ha assunto anche altre forme di organizzazione territoriale di natura nazionale, più corrispondenti all’identità dei nuovi popoli.
Questi ed altri esempi di duttilità organizzativa, dettati, quando non furono imposti dal potere politico, dall’esigenza di creare condizioni territoriali più adatte alla diffusione del Vangelo e al radicarsi delle istituzioni ecclesiali, ci offrono un quadro, sia pure ridotto ad alcuni elementi sommari, per capire anche la storia della Chiesa, non solo nella nostra Diocesi, ma anche nella Confederazione.
In Svizzera esiste una profonda esigenza di ridefinizione del territorio ecclesiale delle attuali sei Diocesi. L’assetto in vigore risale in parte alla prima metà del secolo scorso, quando, nel 1821 è stata soppressa l’immensa Diocesi di Costanza, con l’attribuzione dei suoi territori sulla sponda sinistra del Reno, alle Diocesi di Basilea, San Gallo e Coira.
L’esigenza di aumentare sensibilmente il numero delle Diocesi, di cui la residenza di Vescovi ausiliari a Ginevra, Losanna e Zurigo è solo un prodromo, nasce dall’urgenza di stabilire contatti più intensi e visibili tra i Vescovi e il clero e tra il popolo cristiano e i Vescovi.
Per molti aspetti la crisi emersa nella Diocesi di Coira affonda le sue radici nella provvisoria assegnazione, dettata da imperativi più politici che ecclesiali, alla Diocesi stessa, dei territori appartenuti a quella di Costanza. Zurigo e i Cantoni primitivi, infatti, per fare un solo esempio, non hanno legami geografici e non hanno mai avuto tradizioni culturali e politiche comuni con l’antica capitale della Rezia.
L’art. 50/4 della Costituzione svizzera ha sempre impedito, fino ad oggi, di porre rimedio a questa situazione.
Circostanze politiche particolari hanno per contro permesso nel 1884 la scorporazione del nostro attuale territorio diocesano dalla Diocesi di Como e dall’Arcidiocesi di Milano. Un esito felice, che, tuttavia, risaliva già, come esigenza, al XVI secolo. Infatti, malgrado le grandi difficoltà e le fatiche affrontate dagli Arcivescovi di Milano, in modo particolare da San Carlo Borromeo, che in venti anni di episcopato è venuto fino da noi ben cinque volte (senza contare qualche altra visita, come al Collegio di Ascona e alla Pieve di Bellinzona), e dai Vescovi di Como, per tenere un contatto con le nostre popolazioni, esse hanno sempre accusato, come elemento molto negativo, la lontananza dai propri Vescovi.
Profonde trasformazioni territoriali sono comunque avvenute all’interno della nostra Diocesi già nei secoli scorsi e nel corso di questo secolo, sia a livello parrocchiale che vicariale.
Nel XVII e XVIII secolo, grazie alla penetrazione estremamente capillare del cristianesimo nelle nostre terre, di cui le innumerevoli chiese e cappelle ancora esistenti nel nostro territorio sono il segno più che evidente, si è formata la maggior parte delle nostre attuali 256 parrocchie. Le comunità locali, che già possedevano una chiesa o che, con grande fede, entusiasmo e sacrifici, la ristrutturavano o la costruivano, hanno ottenuto dai Vescovi di Como e di Milano di costituirsi in più parrocchie autonome, facendosi distaccare con Decreto episcopale dalle antiche e vaste parrocchie plebane.
L’abbondanza di clero di quell’epoca ha reso possibile questa profonda e decisiva trasformazione pastorale, con il risultato che ogni piccola parrocchia, spesso, oltre al patrimonio per mantenere il parroco, creava dei fondi (o benefici) per permettere a un cappellano di tenere aperta almeno la scuola elementare.
Progressivamente queste parrocchie vennero riunite in piccoli Vicariati, simili ai circoli politici, così da permettere al clero, in un tempo di scarsi mezzi di trasporto, di incontrarsi, sia per coltivare la conoscenza reciproca, l’amicizia e la comunione, sia per aggiornarsi sui problemi, tradizionali o emergenti, della teologia morale, dogmatica e pastorale.
Dopo la costituzione della nostra Diocesi, nel 1884, sotto forma di Amministrazione Apostolica, la situazione territoriale è rimasta per molto tempo quasi immutata rispetto a quella precedente: circa 250 parrocchie raggruppate in 19 Vicariati, diventati 24 nel 1910.

  2. I Vicariati foranei
Con decreto 1 settembre 1969, Mons. Giuseppe Martinoli, constatando, da una parte che la mobilità del clero era sostanzialmente migliorata, con la diffusione dei mezzi motorizzati, ma soprattutto per promuovere, a livello diocesano, una pastorale d’assieme attraverso una realizzazione concreta a livello regionale, ha ridistribuito il territorio della Diocesi (eretta formalmente anche agli effetti civili nel 1971), in cinque Vicariati foranei. In seguito, con decreto 29 novembre 1975, venivano costituiti gli attuali sei Vicariati, la cui estensione non è più modellata sui circoli, ma simile a quella dei distretti politici.
Prima del Concilio Vaticano II, la pastorale d’assieme nasceva come risultanza spontanea di una prassi pastorale unitaria a livello locale, dettata e imposta dalla minuziosa regolamentazione prevista dal Codice di Diritto Canonico del 1917 e dai due Sinodi Diocesani che hanno preceduto il Concilio Vaticano II: quello di Mons. Peri Morosini del 1910 e quello di Mons. Angelo Jelmini del 1946.
Il presupposto di questa unitarietà pastorale è stato per molti decenni la stabilità e la continuità della pratica religiosa, acquisita nei secoli immediatamente precedenti e fermamente ancorata all’ambito della vita parrocchiale. Essa assumeva una dimensione diocesana vera e propria attraverso le giornate vicariali o diocesane celebrate in modo ricorrente dall’Unione Popolare Cattolica Ticinese, espressione del movimento dell’Azione Cattolica, che, dagli anni trenta in poi, era diventata il perno, a livello propriamente diocesano, dell’attività formativa alla fede.
Le istanze di rinnovamento formulate dal Vaticano II, che da noi ha avuto riscontro nel Sinodo Svizzero e Diocesano del 1972-75, e il fenomeno dell’invecchiamento del clero e della sua insufficienza numerica, non certo assoluta, ma solo relativa ai bisogni delle nostre innumerevoli piccole parrocchie, sono gli elementi che hanno suggerito questa prima trasformazione territoriale, assieme alla ridefinizione dei compiti pastorali dei Vicariati foranei.
Questa prima importante trasformazione territoriale è stata pensata in funzione della aggregazione e formazione del clero, ma soprattutto per creare, con la costituzione di un Consiglio pastorale vicariale, un centro propulsore per la diffusione del Vangelo, al quale cooptare anche laici, uomini e donne, disposti a impegnarsi pastoralmente su una base territoriale più vasta di quella della parrocchia.
Questi Consigli pastorali hanno ricevuto il compito di sviluppare una pastorale comune tra le parrocchie del loro territorio, abbozzando anche una pastorale specializzata, avente come referente alcune categorie di fedeli, quali i giovani, o determinate attività specifiche, quali la preparazione dei fidanzati e la realizzazione a livello regionale delle direttive pastorali diocesane, definite dal Sinodo Diocesano del 1972-75.
L’esito di questa ristrutturazione territoriale e pastorale è stato soddisfacente e insoddisfacente allo stesso tempo. Positivo, sia pure con risultati alterni, per quanto riguarda la formazione permanente del clero e i suoi ritiri spirituali; meno positivo, per quanto riguarda la possibilità di introdurre una pastorale diversificata secondo le categorie di persone (se si eccettua la preparazione dei giovani al matrimonio) e la possibilità reale di coinvolgere i laici assieme al clero nel mandato di evangelizzazione.
Perché questo potesse avvenire, la condizione previa sarebbe stata di creare in ogni singola parrocchia un Consiglio pastorale parrocchiale nel quale i laici, impegnati anche nel Consiglio pastorale vicariale e in quello diocesano, potessero operare e trovare un riscontro.
Le parrocchie che hanno creato un Consiglio pastorale parrocchiale, vero e proprio, con precise responsabilità nell’evangelizzazione, sono state, purtroppo pochissime. In troppe è avvenuta invece una osmosi con i Consigli parrocchiali, le cui prerogative non sono pastorali, bensì amministrative e civili. Questa assunzione quasi inevitabile da parte dei Consigli parrocchiali delle prerogative ecclesiali spettanti ai Consigli pastorali parrocchiali, assieme al sempre più crescente fenomeno della dipendenza economica delle parrocchie dai comuni, ha provocato una sottile subordinazione della Chiesa a una logica dettata non solo da criteri economici, ma anche politici.
Non è facile coinvolgere i laici in prima persona e in modo pastoralmente efficace quando neppure a pochi – se si prescinde dagli insegnanti di religione nelle scuole medie e superiori – è possibile affidare, per ragioni finanziarie, compiti ecclesiali a pieno tempo. D’altra parte, se il numero dei laici che lavorano su una base di pura vocazione e dedizione ecclesiale, rimane esiguo e se, in seno alle parrocchie che rappresentano nel Vicariato foraneo, non esiste un Consiglio pastorale vero e proprio, o questo rimane comunque chiuso ai problemi della pastorale vicariale e diocesana, anche l’efficienza pastorale dei Vicariati si riduce a un minimo.
I nuovi Vicariati si sono così rivelati sul filo degli anni troppo grandi per assumere i compiti pastorali loro affidati. In pratica potrebbero essere altrettante piccole diocesi, senza il vantaggio di avere un vescovo proprio e con lo svantaggio di avere un vicario foraneo che, nella situazione attuale di insufficienza del clero, è difficile che possa esercitare la sua funzione a pieno tempo, mantenendo anche la responsabilità diretta di una parrocchia.
Se nella stragrande maggioranza delle parrocchie non sono costituiti e non si costituiscono i Consigli pastorali è dovuto anche al fatto che molte di esse sono prive del parroco residente o, dove è presente, ha spesso raggiunto un’età troppo avanzata per assumere compiti troppo gravosi. E vero che l’amministrazione dei sacramenti può sempre essere assicurata anche da un prete anziano (in particolare quello della Penitenza, che, dopo il Concilio, è stata irresponsabilmente e troppo diffusamente accantonata), ma la catechesi sacramentale, quella per gli adulti, l’aggregazione dei giovani, molte iniziative, come gite, feste, attività caritativa e altre innumerevoli attività possibili, esigono energie che spesso superano quelle ancora in possesso del clero anziano.
Questi ed altri fatti hanno consigliato di tentare una soluzione nuova, che tenga tuttavia conto di quegli elementi che nel passato si sono rivelati efficaci: quella cioè di lasciare intatta l’attuale struttura dei sei Vicariati foranei, quale base territoriale per riunire il clero, in vista della sua formazione permanente, spirituale e culturale, e quella di costituire zone pastorali più piccole, rispettando le diverse e specifiche esigenze delle zone urbane e di quelle non urbane.
Per meglio individuare i punti di convergenza e attrazione della popolazione, è stato consultato anche l’Ufficio Cantonale di Pianificazione del Territorio. Tuttavia, solo l’esperienza dirà quali dovranno essere le circoscrizioni territoriali definitive delle zone. Il problema centrale non è quello della ristrutturazione territoriale in quanto tale, bensì quello del compito pastorale da assegnare, sia al clero della zona, sia ai laici.
Essenziale è incominciare da subito un lavoro, per trarne indicazioni utili per il futuro, ma nello stesso tempo per non rimanere con le mani in mano.

3. Le zone pastorali
Le zone pastorali, essendo relativamente piccole, tendono a creare una realtà sovra-parrocchiale in cui svolgere alcune attività pastorali. All’interno delle zone, le parrocchie non sono evidentemente sottovalutate, ma devono accettare di superare i propri limiti, prendendo coscienza del fatto che alcune attività e incombenze pastorali richiedono di essere sviluppate in comunione con le parrocchie della stessa zona pastorale.
La lista di questi compiti pastorali può essere variabile secondo le situazioni specifiche ad ogni zona, ma è tempo di fare il tentativo di assolvere alcune attività pastorali, mettendo in comune le forze e le iniziative di tutti gli operatori pastorali locali, cioè del clero e dei laici.
Tra queste priorità vanno elencate, a esempio, la catechesi per gli adulti, la pastorale giovanile e quella scolastica, la pastorale degli anziani, la catechesi in preparazione ai sacramenti, specialmente della Confermazione e del Matrimonio, l’intercambiabilità per la celebrazione dell’Eucaristia domenicale fra parrocchia e parrocchia – con l’evidente esigenza che anche la popolazione non urbana impari a spostarsi da una chiesa all’altra-, i momenti di aggregazione popolare all’interno delle zone, le missioni parrocchiali eventualmente estese alla zona, la visita pastorale, la possibilità di vita anche comune dei presbiteri, qualora fosse possibile costituire piccoli gruppi di preti, che, oltre a collaborare assieme e a praticare un intenso rapporto di comunione reciproca, avessero anche la volontà reale di vivere assieme.

a) La catechesi per gli adulti
Le zone pastorali favoriscono l’evangelizzazione e la catechesi in un determinato territorio, perché permettono di mettere in comune risorse di singole competenze; di un numero di partecipanti sufficientemente rappresentativo, spesso invece poco significativo nelle singole parrocchie; di talenti personali, di energie creative e di programmazione pastorale, difficilmente reperibili in ogni singola situa- zione locale. Nel Consiglio pastorale diocesano è stata richiesta la costituzione di una équipe di presbiteri e di laici (preparati dalla Scuola diocesana di catechesi), che, se anche non potranno essere inizialmente molto numerosi, potranno evidentemente trovare un impiego più efficace, in una zona piuttosto che in ogni singola parrocchia.

b) La pastorale giovanile scolastica
Molti sacerdoti hanno già iniziato a promuovere uscite o ritiri a livello interparrocchiale. Basta prenderli come esempi cui ispirarsi. Le sedi scolastiche consortili (elementari) o regionali (medie e medie superiori) devono essere accostate, più di quanto avviene, con la finalità di sviluppare, in mezzo a questo grande popolo di ragazzi e ragazze, una pastorale giovanile e scolastica.
Prima o poi bisognerà anche coinvolgere, in modo più determinato, di quanto avvenuto finora, gli insegnanti di religione.

c) La pastorale degli anziani
Occorre tener conto del fatto che le nostre parrocchie sono comunque molto vicine tra loro. Ciò facilita gli spostamenti per le visite negli istituti per anziani, che hanno spesso carattere consortile e interessano non solo una singola parrocchia, bensì tutta la zona.
A questo proposito vorrei richiamare al clero più anziano il fatto che, invece di legare indissolubilmente la propria identità sacerdotale e il proprio ministero all’ufficio di parroco, potrebbe dedicarsi, libero da impegni parrocchiali magari troppo gravosi per la sua età, all’assistenza degli anziani. Questo ministero è diventato più urgente che mai a seguito del forte invecchiamento delle persone sole in queste case ormai dorate. A quante potremmo portare ancora il conforto della fede?

4. Preparazione al Sacramento della Confermazione
Poiché occorre in ogni caso potenziare la formazione immediata e l’accompagnamento dei catechisti e delle catechiste laici, spesso lasciati troppo in balia di se stessi, la zona pastorale può diventare il luogo per convocarli regolarmente attorno ad uno dei presbiteri. Ciò, non solo fa risparmiare tante energie, ma infonde nei catechisti stessi una consapevolezza più grande delle dimensioni della Chiesa, del loro compito in essa e della necessità di un servizio ecclesiale non legato esclusivamente alla dimensione parrocchiale. Permette inoltre lo scambio di esperienze e l’incoraggiamento reciproco.
La prassi ormai invalsa, ma non ancora del tutto coerente, di raggruppare a livello sovrapparrocchiale la celebrazione della cresima, mostra che le zone esistono già di fatto, anche se non coincidessero ancora con i confini delle nuove zone.

 5. Preparazione al Sacramento del Matrimonio
Di regola oggi è fatta a livello vicariale. In alcuni casi però il Vicariato sembra inadeguato. Nuovi impulsi vengono dal ricostituito Centro Diocesano per la Pastorale Familiare. Le zone potrebbero favorire non solo la frequenza ai corsi di preparazione per i fidanzati, bensì anche l’incontro delle famiglie che hanno seguito i corsi, per iniziare capillarmente un movimento che le coinvolga in una coscienza diocesana e permetta una pastorale della famiglia su una scala più grande, vicariale e diocesana.

6. Intercambiabilità delle parrocchie per la celebrazione dell’Eucaristia domenicale
E’ una evoluzione già in atto nelle valli, oltre che nei centri urbani. Ma essa, dove non è spontanea come nelle città, deve essere preparata con i fedeli, prima che sopraggiunga l’emergenza. E’ assolutamente certo che già forse dall’anno prossimo ci saranno parrocchie di una certa importanza, che non avranno più un parroco residente. L’allargamento della nozione della parrocchia verso quella della zona può aiutare i fedeli a capire che, se vogliono accedere all’Eucaristia e formarsi ad esprimere la loro vita cristiana, i confini entro cui devono spostarsi, non sono più quelli tradizionali e che certe parrocchie possono essere affidate a laici o a comunità di suore per la preghiera infrasettimanale, per la comunione e la visita agli ammalati. Non è una questione inerente di per sé alla zona, ma il saper imprimere alla zona una nuova funzione pastorale, creerà prima o poi il presupposto per profondi mutamenti nella mentalità pastorale di tutti, del clero e del popolo di Dio.

7. Momenti di aggregazione popolare
I nostri fedeli hanno bisogno di capire che l’esperienza cristiana, se non è un’esperienza individuale, non è neppure un’esperienza comunitaria circoscritta entro confini troppo angusti. La cultura della gente è cambiata, rispetto alla struttura agraria e cittadina precedente. Pensa sempre meno in categorie locali, perché i mezzi delle comunicazioni sociali hanno spezzato e allargheranno sempre di più l’ambito della propria collocazione nella società. Anche la Chiesa deve assecondare e favorire questa evoluzione con gli strumenti che le sono propri, anche se diversamente efficaci.
I fedeli devono essere educati a capire che il luogo della loro presenza ecclesiale potrebbe essere quello di un’intera regione, a esprimere la loro fede attraverso la partecipazione alla vita ecclesiale di parrocchie vicine, di zone, di Vicariato, fino a toccare con realismo l’esperienza vera e propria della Chiesa particolare, che non è la parrocchia, bensì la diocesi.
Chi non è educato a vivere la propria fede, avendo come orizzonte la Chiesa particolare in quanto tale, con il Vescovo come pastore, non riuscirà mai a intuire la ricchezza dell’appartenenza alla Chiesa universale e corre il rischio di ridurre la dimensione ecclesiologica della sua esperienza, ad un’esperienza riduttivamente moralistica, neppure propriamente cristiana. Noi sacerdoti da questo punto di vista portiamo la grande responsabilità di offrire ai cristiani la possibilità di gustare la fede in Cristo in tutta la sua universalità.

8. Le Missioni
Non è certo un’idea nuova quella di organizzare forme di missioni più ampie di quelle tradizionali delle parrocchie. E a ritentare questa esperienza vi esorto caldamente, perché non dobbiamo lasciare nulla di intentato per riportare il Popolo di Dio alla coscienza della nostra gente.
Le zone potrebbero diventare ambito adatto per le missioni, perché permettono di raggruppare nuclei di persone più consistenti che nelle piccole parrocchie, secondo categorie.

 9. La Visita pastorale
Esistono due diversi aspetti della visita pastorale: quello amministrativo, che può essere compiuto, a scadenze di 5 anni, dai Vicari foranei, e quello dell’incontro del Vescovo con il popolo.
La frequenza dei contatti del Vescovo con i fedeli, grazie alla maggiore mobilità di tutti, grazie ai mezzi della comunicazione sociale e alla celebrazione, almeno ogni due o tre anni, della Confermazione, conferisce un carattere diverso alla visita pastorale rispetto al passato. Ciò che bisognerebbe organizzare oggi, non sono, in primo luogo, incontri generici con i fedeli, che non mancano, bensì incontri più specifici, finalizzati a orientare e sostenere il lavoro pastorale di gruppi che operano in settori particolari.
Le zone possono offrire questa possibilità, dando alla visita pastorale del Vescovo una funzione sempre più specifica, meno legata alle scadenze tradizionali e ripetibile più facilmente, secondo le esigenze, sia del Vescovo, sia degli operatori pastorali della zona, presbiteri e laici.
Ciò che vale per il Vescovo e per chi lo dovesse sostituire, vale anche per i responsabili delle commissioni, dei centri e degli uffici diocesani.

10. Vita comune dei presbiteri
Esistono gradi diversi di vita comune. Dal ritrovo di presbiteri della zona più volte alla settimana, ad esempio per i pasti, alla convivenza vera e propria in una stessa casa parrocchiale. Quest’ultima forma è stata realizzata in parecchi casi, specialmente, ma non in modo esclusivo, tra presbiteri della stessa famiglia religiosa. Le strutture logistiche in genere sono di grosso ostacolo così come lo è la Legge sulla Libertà della Chiesa del 1886 e la mentalità della popolazione, che pure vedrebbe ben volentieri il porsi del segno dell’unità tra il clero.
Le zone, consolidandosi, potrebbero indurre a concludere degli accordi tra le parrocchie per i restauri delle case parrocchiali, trasformandole in sedi adatte per più sacerdoti. Ogni situazione ha le sue particolarità di cui non si può non tenere conto, tuttavia non bisogna fare della convivenza vera e propria una aspirazione tale da diventare quasi utopica. L’essenza della questione sta nella comunione e nella collaborazione reale tra i presbiteri. Non è neppure pensabile che si possano far confluire in una sola zona, solo i presbiteri disposti a vivere assieme o a collaborare con lealtà d’animo e dall’inizio con gli altri. Ne consegue che l’ideale della vita comune, se non è retta da una precisa coscienza della comunione reciproca, nella responsabilità comune del Presbiterio, non sarà mai realizzato neppure nella sua forma più semplice.

Conclusione
Questa trasformazione pastorale, che non è stato possibile realizzare nei Vicariati in modo coerente, dal 1975 in poi, deve diventare ora una realtà imprescindibile. La costituzione perciò di Consigli pastorali di zona, con la partecipazione del clero locale e di tutte le forze laicali disponibili, presenti nel territorio, diventa lo strumento indispensabile per iniziare. Vi domando perciò di costituirli quanto prima.
Il Consiglio pastorale di zona non ha bisogno di essere organizzato con norme troppo strette, per non correre il rischio di creare un’altra struttura formale, che a causa della sua rigidità potrebbe assorbire troppe energie organizzative e svuotarsi rapidamente nel suo interesse. Deve rimanere una struttura aperta. Non è la pratica delle regole formali della democrazia, in quanto tale, in seno a questi Consigli che darà un contributo reale alla nuova evangelizzazione, bensì la volontà di comunione, l’adesione alla Chiesa, l’assunzione della sua presenza nel territorio come compito imprescindibile della vocazione cristiana, la passione per la diffusione tra gli uomini della verità fondamentale che Dio ci ha rivelato: vale a dire, l’annuncio che la Salvezza della nostra vita viene da Cristo e non, come oggi moltissimi, anche tra i cristiani, possono essere indotti di fatto a pensare, dal benessere materiale, da noi largamente assicurato, almeno alla stragrande maggioranza della popolazione, in tutti i settori della loro vita quotidiana.
In quanto poi alle attività pastorali da sviluppare nelle zone, le 10 proposte indicate sopra non sono, né vincolanti, né esaustive. Ogni zona deve decidere, scegliendo magari poche attività, ma anche sviluppandone eventualmente altre non elencate.
Del resto le zone, essendo territorio nel quale realizzare l’attività pastorale e non strutture prevalentemente organizzative e amministrative, come invece i Vicariati, sono profondamente diverse tra di loro. Una grossa parrocchia è evidentemente più autonoma nelle possibilità di esprimersi secondo tutte le forme di annuncio della Parola. Le parrocchie medie sono meno autonome, mentre quelle piccole sempre di più quasi totalmente dipendenti dalla necessità di aggregarsi ad altre. Tutto dipende quindi dalle possibilità reali esistenti nelle zone e dalla creatività degli operatori pastorali, clero e laici. La libertà perciò è grande per tutti, purché non si trasformi in un nulla di fatto.
Resta da valutare il rapporto tra la struttura organizzativa dei Vicariati foranei e quella pastorale delle zone.
L’opinione nettamente prevalente nei Consigli diocesani è stata quella di mantenere i Vicariati per l’organizzazione del clero (ritiri, formazione permanente) e per le elezioni ricorrenti in seno al Consiglio del Clero e al Consiglio pastorale diocesano, per cui i Vicariati continuano ad esistere. Ogni Vicariato deve capire se il Consiglio vicaria- le, oltre ai compiti organizzativi, cui abbiamo accennato, mantiene ancora realisticamente una funzione pastorale in vista dell’annuncio del Vangelo.
Le situazioni possono essere diverse, da Vicariato a Vicariato. Solo quando, e dove, le zone pastorali diventeranno effettive, in funzione della nuova collocazione territoriale delle attività pastorali, sarà possibile prendere decisioni più precise in merito ad un’eventuale continuazione della funzione pastorale dei Vicariati stessi. Il primo passo da compiere, comunque, è quello di dar corpo, in seno alle zone definite dallo schema allegato a questa lettera, a un nuovo modo di pensare la nostra presenza apostolica nel territorio.
Questa lettera pastorale sostituisce un Decreto formale. Le zone, con i loro confini e i loro compiti pastorali, entrano in vigore, a partire dal 4 novembre di quest’anno, festa di San Carlo, per i prossimi cinque anni ad experimentum, ma possono essere ritoccate anche prima, secondo le necessità.
Cari confratelli e cari fedeli. Le zone pastorali, già esistenti e diffuse in molte altre Diocesi, provocheranno inizialmente, anche nella nostra Chiesa particolare, nuove difficoltà, soprattutto forse per il clero. Devono essere perciò affrontate in nome della fede, non in nome della semplice speranza di raggiungere una migliore organizzazione della Diocesi.
Poiché è in gioco la nuova evangelizzazione, vi esorto ad affrontare questa nuova fatica, che comporta inevitabilmente una conversione interiore, non tanto in forza di un atto di autorità del Vescovo, che peraltro è stato accompagnato e incoraggiato in tutto lo studio del problema dal Consiglio del Clero e dal Consiglio Pastorale diocesano, ma in nome del mandato apostolico che nostro Signore ci ha dato.
Il Signore ci benedica e aiuti tutti.