6. Vescovo e presbiteri: mistero di comunione

Omelia nella Messa crismale 1993

Cari fratelli nel sacerdozio di Cristo, oggi, in tutto il mondo, le 2526 comunità presbiterali latine e orientali si riuniscono in cattedrale attorno alloro vescovo per celebrare la Messa crismale.
Oggi ogni presbitero è invitato a ripetere in cuor suo, come Gesù nella Sinagoga di Nazareth: «Lo spirito del Signore è sopra di me… mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri il lieto messaggio…  Oggi si è adempiuta in me questa Scrittura». E’ la profezia di Isaia.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me». E’ su di me, perché in Lui sono stato consacrato per celebrare i sacramenti e per annunciare agli altri la Parola di Dio, cioè Gesù Cristo Salvatore. E’ una vocazione che ho ricevuto come dono personale.
Tuttavia, questo «su di me» è anche un “noi”, perché tutti abbiamo ricevuto la stessa unzione, con la quale siamo stati, assieme, resi partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio che abbiamo ricevuto è uno solo. Non esistono tanti sacramenti, quante sono le persone che lo ricevono: esiste un unico sacramento dell’Ordine Sacro. In forza di questo unico sacramento, siamo legati in un mistero di comunione. Una comunione sacramentale che ci lega indissolubilmente come se fossimo, in Cristo, un’unica persona. Ciò rimane vero anche se le nostre affettività, i nostri personalismi, le nostre piccole e grandi ideologie, i nostri interessi personali, le nostre presunzioni e preclusioni, i nostri preconcetti e la nostra incapacità di obbedienza a questo fatto sacramentale comune, tendono costantemente a dividerci.
Nell’ultima cena, Gesù, consapevole di quanto sia difficile la comunione, ha pregato per noi, perché potessimo sempre rimanere uniti tra di noi, come Lui è unito al Padre. Sapeva che il demonio, già presente in Giuda, avrebbe seminato tra di noi la menzogna, il dissidio e il dissenso anche sistematico.
In rapporto alla vocazione, nella quale siamo stati consacrati, le nostre disunioni sono il peccato più grave. Contraddicono il fatto fondamentale della nostra vita, che va oltre lo stesso battesimo: quello di essere stati indissolubilmente uniti, attraverso l’unzione dello Spirito Santo, nell’unico sacerdozio di Cristo, che abbiamo ricevuto come dono comune.
La comunione, prima di essere un’espressione di carattere affettivo, è un fatto ontologico e sacramentale. Consiste nell’immanenza degli uni negli altri grazie al vincolo sacramentale che ci lega, tutti assieme, alla persona di Cristo e al suo stesso sacerdozio ministeriale.
Questa immanenza reciproca, tra il vescovo e i presbiteri, nasce dalla partecipazione sacramentale di ciascuno  di noi all’unico sacerdozio di Cristo e dal fatto che il ministero presbiterale è una derivazione dal ministero del vescovo, che ha ricevuto la pienezza dell’Ordine.
Cari confratelli in Cristo, di fronte a questo mistero sacramentale dobbiamo renderci conto di quanto grande sia la nostra responsabilità di fronte a tutti gli altri cristiani e di fronte al mondo. La nostra inadempienza nel realizzare l’unità, che ci è stata donata, offusca nei loro occhi l’immagine stessa di Cristo e della Chiesa.
Nessuno di noi può dire, da solo e con verità, assieme a Cristo: «Lo Spirito del Signore è sopra di me». Perché lo Spirito del Signore ci ha investiti tutti quanti, vincolando ci in coscienza all’unità. Alla realizzazione di questa unità è affidata la verità stessa del nostro ministero.
Questa vocazione all’unità, intrinseca al nostro ministero, non è astratta: dobbiamo renderla concreta, confrontando ci seriamente, di volta in volta, con gli imperativi pastorali più urgenti, cui dobbiamo far fronte.
Oggi l’impegno più urgente è quello della nuova evangelizzazione, di cui la nostra società ha un immenso bisogno.
L’urgenza di una nuova evangelizzazione deve nascere in noi da una duplice motivazione.
Da una parte, dal mandato ricevuto dallo Spirito Santo, che ci ha consacrati sacramentalmente per annunziare ai poveri il lieto messaggio, nel rispetto della profezia di Isaia, già realizzatasi in Cristo e in ciascuno di noi.
I poveri sono anche gli uomini e le donne della nostra società che, pur avendo ricevuto il battesimo e gli altri sacramenti, si lasciano assimilare al mondo nel loro pensiero e nel modo di vivere la quotidianità. Sono poveri, come gli ebrei, che al tempo di Isaia vivevano nell’infedeltà al patto dell’Alleanza. Anche noi sacerdoti, se disattendiamo la nostra vocazione all’unità reciproca, viviamo, come il popolo ebraico: nell’infedeltà al patto della Nuova Alleanza, che il Signore ha stabilito con noi sulla croce.
L’annuncio di Cristo al mondo, tuttavia, non lo dobbiamo proporre solamente in forza della coscienza di aver ricevuto il mandato dello Spirito Santo, che è sopra di noi e che Gesù ha riconfermato prima della sua Ascensione, invitando ci ad andare «in tutto il mondo a predicare il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15).
L’urgenza di annunciare di nuovo con chiarezza Gesù Cristo al mondo deve nascere in noi anche come risposta ad una necessità interiore. Un’urgenza che deve essere soddisfatta ad ogni costo, anche se comportasse sofferenza e martirio, come si è verificato puntualmente per gli Apostoli e per innumerevoli altri discepoli, fino al tempo presente, noti o sconosciuti, ricordati e celebrati, oppure nascosti nell’ombra della storia.
L’annuncio lo dobbiamo fare perché scopriamo dentro di noi la stessa esigenza che Pietro e Giovanni provarono davanti al Sinedrio, quando affermarono, quasi come una sfida: «Non possiamo tacere quello che abbiamo visto ed ascoltato» (At 4,20).
La sola coscienza di aver ricevuto il mandato ci legittima e ci sprona, ma può perdersi facilmente nel labirinto delle nostre innumerevoli mondanità, se non fosse accompagnata e fortificata dall’esperienza interiore, che facciamo di Cristo nella nostra persona.
Alla fine della sua vita S. Giovanni Evangelista, dopo decenni di fede, di impegno apostolico e di meditazione, ha scritto il testo che ogni volta scende nel nostro cuore come un balsamo: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato (come noi nell’Eucaristia), ossia il Verbo della vita… noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta» (cfr. 1Gv 1, 1-4).
Ma quale comunione annunciamo, se noi stessi non ne facciamo l’esperienza tra di noi, e quale gioia possiamo suscitare nei nostri fedeli se neppure tra di noi viviamo con gioia nella comunione con il Padre e con il Figlio? Come possiamo certificare agli altri battezzati di essere consacrati nello Spirito, se questa consacrazione non determina in profondità la nostra coscienza?
Questa testimonianza personale è condizione di salvezza eterna per tutti, non solo per gli altri, ma anche per le nostre stesse persone. Ogni persona che incontriamo dovrebbe intuire in noi la passione e il desiderio di trasmettere la conoscenza interiore, che noi stessi abbiamo di Cristo.
«Guai a me – scrive, infatti, San Paolo – se non predicassi il Vangelo!». (1 Cor 9, 16).
Ma guai anche a noi, se l’annuncio non lo facciamo nell’unità, perché solo dalla nostra unità il mondo ricono-scerà che «Tu mi hai mandato» (Gv 17, 23).
L’unità tra di noi dobbiamo viverla attorno ad alcune cose fondamentali.
Permettetemi allora, cari confratelli nel sacerdozio di Cristo, di indicarvi, quest’oggi, alcuni punti di riferimento per la nostra vita pastorale nei prossimi anni.
Prima di tutto, il dovere di fare la catechesi e di collaborare con gli altri presbiteri nel realizzarla. Non c’è speranza di riuscire nella nuova evangelizzazione, se non intraprendiamo uno sforzo comune per rieducare i fedeli alla necessità di frequentare la catechesi. Oggi, la pratica, anche frequente, della Messa domenicale non è più sufficiente per educare ad una vera identità cristiana le persone, che il Signore ci ha affidato.
Tutti i germi di rinnovamento, presenti nella Chiesa contemporanea, sono nati dalle fatiche compiute per la catechesi: quelle dei preti e quelle dei fedeli.
Se noi presbiteri viviamo la catechesi solo come un mandato o un dovere dall’esterno, ma non come una passione interiore, che nasce dal desiderio di incontrare gli uomini, affinché incontrino anch’essi Gesù Cristo, non riusciremo mai a convincerli della necessità di riprendere il cammino della catechesi.
La catechesi, accanto alla celebrazione dei sacramenti, è il primo e più importante impegno pastorale perché, a differenza della celebrazione sacramentale e dell’annuncio della Parola, essa permette di coinvolgere i fedeli in un dialogo; di risolvere i loro dubbi; li costringe ad una riflessione sul loro modo di pensare; li abitua ad essere critici nei confronti della mentalità corrente, di cui sono imbevuti; precisa il pensiero della Chiesa; risolve molti equivoci e pregiudizi; li aiuta a prendere coscienza comune della loro appartenenza alla Chiesa; li accomuna nell’affronto delle difficoltà in cui tutti si dibattono; fa crescere la loro fede e la loro coscienza ecclesiale; crea comunione tra i fedeli.
Vorrei pregarvi, cari confratelli, di leggere la lettera del Papa ai sacerdoti per questo Giovedì Santo, poiché in essa invita tutti a servirsi del Catechismo della Chiesa Cattolica, come «mezzo privilegiato per approfondire la conoscenza dell’inesauribile mistero cristiano»; come «sicuro punto di riferimento per il compimento della missione affidataci nel sacramento dell’Ordine, di annunciare in nome di Cristo e della Chiesa, la Buona Novella»; come «norma autentica e sicura per la nuova evangelizzazione», perché «ciò che contiene e ciò a cui serve è in modo particolare legato con la nostra vita sacerdotale e con il ministero pastorale nella Chiesa».
La catechesi dobbiamo viverla come dimensione personale, prima che come strumento per gli altri. Nella recente assemblea del Consiglio Presbiterale e del Consiglio Diocesano Pastorale riuniti, sono emerse, oltre all’indicazione di continuare a stampare come sussidio il libretto diocesano della Scuola della Fede, diverse iniziative sperimentate da alcuni tra voi, per rilanciare la catechesi. Sono iniziative che dobbiamo saper ascoltare senza pregiudizi; così come quella di impostare tutta la pastorale parrocchiale sulla catechesi; di introdurre la catechesi dopo la Messa domenicale; di discutere il Vangelo della domenica la sera della domenica stessa.
Ognuno è libero di prendere e di tentare nuove iniziative, ma nessuno può sottrarsi all’imperativo di affrontare questo lavoro con grande senso di responsabilità di fron-te allo Spirito del Signore che è su di lui e di fronte a Gesù Cristo, che lo ha mandato, offrendogli come dono il vincolo dell’unità e della comunione reciproca.
Prima di terminare, vi prego di non voler disattendere due altre raccomandazioni. Anch’esse contribuiscono a rendere più concreto l’impegno pastorale dell’unità sacramentale che ci unisce e vi unisce.
La prima, è quella di fare uno sforzo capillare, secondo le indicazioni che vi saranno date nei vicariati, per sensibilizzare i genitori e i ragazzi al problema dell’insegnamento religioso nella scuola. Tutti, noi per primi, dobbiamo renderci conto che l’avvenire dell’istruzione religiosa nella scuola dipende da noi, dalla nostra capacità di renderlo, non solo plausibile, ma anche apprezzato. La recente lettera pastorale ai genitori vi può e deve essere di grande aiuto.
La seconda raccomandazione è quella di assecondare lo sforzo che si sta facendo per offrire un inserto comune a tutti i bollettini parrocchiali. Non esito a dirlo, anche nei confronti dei più renitenti tra di voi, e ad affermare che proprio le parrocchie più importanti portano una grave responsabilità per l’esito positivo di questa iniziativa.  Un’iniziativa discussa anch’essa ripetutamente, sia nel Consiglio Presbiterale, sia nel Consiglio Pastorale, sia nelle riunioni vicariali in occasione dei ritiri predicati dal Vescovo.
La stampa minore, per la sua grandissima capillarità, è uno strumento privilegiato della nuova evangelizzazione.  Prego perciò tutti, cordialmente, di rivedere le proprie posizioni e di non esitare a rimettere in discussione scelte fatte magari da sempre, in nome dell’individualismo o di considerazioni magari solo economiche. Lo spettacolo di disunione che diamo in questo settore è miserevole.
L’unità costa sacrificio e rinuncia a certe scelte individuali, anche quando avessero delle giustificazioni. L’unità è frutto dell’ascesi personale, ma deve essere soprattutto il frutto della gioia che nasce in noi per la consapevolezza che «Lo Spirito del Signore è sopra di noi e ci ha consacrati con l’unzione, per mandarci ad annunziare ai poveri il lieto messaggio». (Lc 4, 18).
Non ci ha consacrati perché ognuno faccia quello che vuole, credesse pure di fare la cosa migliore.
Cari confratelli, rinnovandovi l’invito di leggere la lettera del Papa a tutti i sacerdoti, e ringraziandovi per l’immenso lavoro pastorale da voi compiuto e per la vostra disponibilità nei confronti del Signore e nei miei confronti, desidero augurarvi, dal profondo del cuore e con amicizia nel Signore, Buona Pasqua.